Alcune autrici sorvolano sulla poesia come se fosse un’arte solo delle superfici e non un’arte profonda perché superficiale. Flaminia Cruciani no: una scrittrice audace, che ha avuto un addestramento da spartana duranti gli scavi archeologici di Ebla in Siria. La sua poetica trafigge il nulla funambolico della saggistica spenta e tiepida e infervora il pubblico – lo agita trascinandolo nelle catacombe della parola. I suoi libri di poesie (Piano d’evacuazione, Semiotica del male, Tacevamo nella stessa lingua e un inedito che verrà pubblicato quest’anno, Corpo) attraversano il pensiero funesto del limite e gettano la pratica poetica all’interno del recinto individuale. Durante quest’intervista condotta per email, vengono sondate le capacità di un’autrice che ha praticato la scrittura in molte forme: l’aforisma, il saggio, la poesia e la prosa. Oltre al testo edito da Mondadori Lezioni di Immortalità, verrà affrontato anche un testo inedito che apparirà presto nel panorama editoriale italiano: A colpi d’arco. Storia di una passione.

Partiamo da A colpi d’arco. Quanto possiamo dire essere questa un’opera autobiografica? Quanto la protagonista, quella Anna nomade, ribelle, libertaria, “coraggiosa oltre ogni limite, con una forma di spavalderia simile all’incoscienza” assomiglia a Flaminia?

Quando si scrive non si può prescindere da se stessi e dalla propria esperienza, sarebbe bello farlo. La scrittura è proprio questa forma di astrazione, di trasformazione del primo nucleo della tua esperienza fino a farlo diventare altro. Scrivere è l’officina di Vulcano, è come maneggiare il fuoco tutti i giorni con le cere e le fusioni che bruciano le mani. È come fare una misurazione alla realtà subatomica, è una misurazione che implica il collasso della funzione d’onda. In quell’onda letteraria lo scrittore deve trovarsi. Questo libro in particolare mi ha impegnata moltissimo. Ho fatto un viaggio incredibile dentro la musica, in quindici mesi ho attraversato il mondo dei violinisti che mi hanno accompagnato. È stato un lavoro duro perché, a differenza di Lezioni di immortalità, non essendo la mia materia non la maneggiavo agevolmente. Sebbene io abbia sempre suonato e la musica abbia fatto parte della mia vita (e qualche volta mi abbia anche messo nei guai), ho avuto bisogno di costruirmi nuovi strumenti per scriverne, studiando molto e intervistando chi la vita del solista la fa davvero. Volevo scrivere un libro verosimile, che rispecchiasse il racconto della vita di un solista, quindi mi sono stati di aiuto alcuni celebri violinisti in particolare Georg Mönch, che è purtroppo morto durante la stesura del libro. Fondamentale è stato l’aiuto di Francesco D’Orazio con il quale ho avuto tanti incontri e ore di discussione su molti temi. Ho incontrato anche Sonig Tchakerian, Uto Ughi ed altri. Sono stata in contatto con i più grandi liutai d’Europa, come John Dilworth e Carlo Chiesa, che mi hanno aiutato a dipanare la questione dei violini Stradivari e Guarneri del Gesù e a scegliere due strumenti che potessero essere congeniali al mio racconto. Il mondo della liuteria è ancora più magico, rarefatto e sorprendente. L’eredità più bella che mi lascia questo libro è una famiglia musicale. Ho passato un anno e mezzo su Skype a incontrare ogni settimana violinisti, scoprendo persone inimmaginabili, generose, disinteressate, fuori dall’utile, le quali hanno ascoltato le mie esigenze, risposto a domande infinite e a volte assurde, appassionandosi al libro e alla fine sentendolo un po’ loro. La musica è già un tema metafisico, scriverne e parlarne non è facile, è un’impresa che assomiglia un po’ alla caccia alle farfalle col retino. La mia famiglia musicale ora mi scrive e non vede l’ora di leggerlo. Mi ha accompagnato anche un teologo della Gregoriana, Luca Pedroli, con il quale abbiamo parlato di Apocalisse, essendo lui uno dei massimi esperti. Voi direte cosa c’entra l’Apocalisse? Se la musica non è rivelazione…

Oltre che scrittrice di romanzi, tu sei soprattutto, o forse meglio dire anche, poetessa e aforista. Come fare a riconciliare la brillantezza asistematica e breve della composizione frammentaria in un testo lungo e fluido? Cercare “il dominio della grande forma” è forse un compromesso, una rinuncia alle fughe brevi e la ricerca di un lavoro sinfonico?

Questo è il mio primo romanzo, mi sono sempre dedicata alla poesia, all’aforisma, mi piacciono le forme stringate, l’esercizio quasi funambolico di esprimere molto con meno parole possibili; l’aforisma è come un tiro al bersaglio, bisogna essere infallibili. Dopo l’esperienza di Lezioni di immortalità invece, che ha un impianto completamente autobiografico, ma che tenta anche di esplorare i rapporti fra archeologia e poesia, mi sono appassionata allo scrivere in prosa. Mi sono sentita a mio agio in questa forma, più libera che nella poesia. Spero che in alcuni momenti la mia prosa abbia l’intonazione della poesia. La sfida di questo libro più che narrare una mia esperienza, che non confermo e non nego di aver vissuto, era quella di parlare del mondo del violino con un occhio interno, di qualcuno che ha suonato davvero, che ha sentito suonare molto, che ha studiato violino e che sa di cosa sta parlando. Spesso i libri sul violino sono scritti da chi non ha mai preso un violino in mano e si sente subito. Con questo libro voglio raccontare qual è la vita vera di un solista e cercare di portare chi legge ad avvicinarsi al repertorio per violino, che è meraviglioso.

Quando finii di scrivere A colpi d’arco andai a fare una passeggiata da casa mia, al Colosseo, verso l’orto botanico, ricordo che era sera, attraversai il ponte inglese immersa in uno di quei tramonti rossi che ci sono a Roma e la sensazione era quella di avere le ali ai piedi.

Le tue Lezioni di immortalità sono una piccola ma profonda opera. Mi hanno affascinato soprattutto le tue esplorazioni da archeologa che riporta il passato al presente, un lavoro che espunge il basso della sua bassezza – scavi che si muovono all’indietro e raggiungono il profondo. In questi tuoi scavi che cosa trovavi al fondo del fondo, cosa provavi quando riportavi alla luce il ‘sommerso’, il rimosso, il dimenticato?

L’archeologia è una forma di memoria distillata in oggetti: nella mia visione è necessario ripensare l’attività dell’archeologo nella prospettiva della “messa in movimento”. Ogni forma, ogni reperto, ogni ritrovamento non è semplicemente un oggetto che ha vissuto, che ha funzionato per il suo utilizzo, ma “è un essere che vive ancora addormentato nella sua forma”. Nella cultura materiale, in questi oggetti si è fossilizzata e dorme la vita delle persone cui sono appartenuti, il loro contesto, lì sono deposti come se ruotassero intorno a essi e fossero la loro aura. È una costellazione di movimenti fossili, energia fossilizzata che ruota intorno all’oggetto, come una spettralità, intrinseca ai reperti archeologici, che può sempre essere interrogata dall’archeologo. Elémire Zolla parlava dell’aura come di un’ebbrezza, una brezza, un alone, una meraviglia. Si genera aura quando la realtà esterna corrisponde a un segreto intimo, “di aure si nutre la vita interiore”. Nel mondo antico si parla di aura come di una ninfa, una brezza spirante dalle persone e dai luoghi che talvolta può diventare un turbine, una nube che abbaglia. Se nell’Ottocento la parola “aura” fu molto in voga, recentemente è stata accantonata e dimenticata perché la nostra realtà, non più caratterizzata dall’unicità, offre luoghi e oggetti seriali che non sprigionano più alcuna aura. Anche Walter Benjamin dedicò un celebre saggio, nel 1936, a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui parla di perdita di aura nelle opere d’arte riprodotte. Potremmo dire che l’aura si mantiene quando qualcosa è illeso, allora l’aura ci viene incontro con tutta la sua forza. Ma i reperti archeologici, sebbene frammentari e lesi, hanno intatta l’aura della loro storia singolare, conservano il bagliore di tempi sovrapposti, i gesti, gli sguardi che si sono posati stratificati su di essi: “perché un’aura abbagliante avvolge le simultaneità più complesse”.  E d’altro lato tutto quello che questi oggetti hanno visto, tutto ciò cui hanno assistito; il bottone toccato quotidianamente dalla mano, il manico di un vaso impugnato chissà quante volte, il puntale di un elmo quanti volti di avversari terrorizzati avrà visto? Questi piccoli oggetti, apparentemente insignificanti, spesso rotti, ci introducono nelle loro reminiscenze, sono veicoli, vie di accesso al perduto, dispositivi per accedere alla memoria degli oggetti, perché anche gli oggetti hanno una memoria, un corpo della memoria deposto. C’è un aspetto energetico dormiente che viene messo in movimento dall’archeologo: quando riporta alla luce interrompe il sonno dei reperti.  In questi oggetti nella loro disposizione nella loro morfologia è deposta la memoria delle persone cui sono appartenuti. È come se si potessero vedere in controluce. Proustianamente quegli spazi, quegli oggetti, seppur frammentari, sono un’estensione delle loro personalità, del loro ambiente, del loro pensiero, del loro gusto, delle loro ideologie e credenze e anche dei loro sogni. Mentre gli oggetti prima vengono utilizzati per lo scopo per cui sono stati creati, quando sopravvivono alla loro epoca iniziano un’altra vita, rinascono a nuova vita nelle mani dell’archeologo, che è un ostetrico della terra. Prima vivono, poi sopravvivono e cambiano statuto identitario. Acquisiscono lo statuto identitario dei sopravvissuti e spesso vanno in un museo, che è anch’esso un’entità viva. E sono sintomi, ritorni, sopravvivenze, elementi di una cultura viva, diventano modelli ispirativi, immagini che iniziano a trasmettersi con la loro forza irrefrenabile in una rete di sopravvivenze, producendo diffusioni, generazioni, scambi, ibridazioni, filiazioni. Questi segni tenaci dalla terra diventano vettori di sopravvivenze, tensioni formali che dal passato investono il futuro. Modelli, simboli, immagini, forme, che non hanno smesso di condizionare la nostra cultura occidentale. E sono in continuo dialogo con noi. Ogni forma culturalmente consolidata è il culmine di un’evoluzione, di una causalità formale sperimentata nei secoli. Le strutture del nostro immaginario condiviso sono sature di questa causalità formale. Il patrimonio archeologico dunque è parte integrante del patrimonio identitario culturale. Queste pietrificazioni sono forme della vita passata abitate dall’energia antica, si cristallizzano nella terra come in una bara, sprofondando in essa sepolte, in una sorta di incastellamento abissale: il sonno della loro imprendibilità. Quando arriva un archeologo riappare la luce del sole e risorgono. Nel guscio della terra si prepara, nel silenzio, la resurrezione. In questo rifugio la vita dormendo si concentra, si prepara, si trasforma. La terra-inconscio è sogno sintetico, a volte incubo, materia di resurrezione. Ed è proprio la terra che nella potenza del suo sonno, come direbbe Jacqueline Risset, frantuma il passato come fa l’inconscio, trasforma questi tempi passati in rovine, macerie, che diventano il sogno della terra. La memoria che non finisce di trasformare e di trasformarsi.

Appare un parallelismo tra poesia e archeologia, questi scavi nel profondo che fanno apparire ciò che è celato, segreto, sotterrato. Sono entrambe forme d’arte che ricercano la leggerezza, il disvelamento? Oppure credi che une delle due sia più oscura, più ermetica?

Il parallelismo fra archeologia e poesia è un parallelismo stratificato. Ci sono molti aspetti poetici nel fare l’archeologo. Sembra strano ma l’emozione più grande non è la scoperta di qualcosa di prezioso, ma il penetrare nel pensiero dell’uomo antico, questa connessione con l’uomo scomparso millenni prima. Questo mi entusiasma, il tempo che nelle mani dell’archeologo si arrende e salta come sopra la dinamite. La poetica dell’archeologia è proprio questo rapporto con il tempo. Il tempo della discesa è lento, misurato, millimetrico, pesante; il tempo della caduta è libero, veloce, leggero. D’altronde la terra è il luogo del riposo, della decomposizione, dentro cui i reperti sono avviluppati, sognano e attendono di essere ritrovati e quando li scopriamo si apre un occhio nella terra. Se l’ascensione fa appello alla spettacolarità e ha una natura più esteriore, appariscente, visibile, la discesa è un fedele ritorno, è lo stare dentro uno spazio intimo materico e femminile, segreto e silenzioso. Verso il cielo il tempo è positivo, maschile, eretto e ascensionale, proiettato in avanti verso il futuro. Nella terra il tempo è inverso, viscerale, caldo e abissale, lento, pesante, avvolto su se stesso, quindi circolare, in cui l’archeologo scopre mappature di galassie di pietre e cocci, ossa e cristalli. Tessiture remote, già accadute, che in questo nero generatore sono state in sogni di tenebrosità. Perché il nero è l’assillo delle profondità. Si sotterra ciò che è morto, che va in decomposizione: l’archeologia è questo lavoro alchemico che riporta in vita la salma del passato. È un lavoro che riguarda il mistero della nascita e della morte. Nello scavo l’archeologo scopre un intero cosmo di significato, perché la sua è una tensione cosmica animata dal desiderio, che come dice l’etimologia viene da de-sidera: assenza di stelle. Ma rivolta verso il basso, come verso un cielo sotterraneo, dove la vita antica è diventata una costellazione di radici, reliquie, impronte, tracce, frammenti e sotto la stratificazione, all’altezza della memoria, il suo battito cardiaco risponde ancora. Come scrivo in Lezioni di immortalità:

“Se il lavoro del poeta è scuotere il cielo aspettando che qualche frammento cada, il lavoro dell’archeologo è scuotere la terra, senza imbarazzo del cosmo, aspettando che qualche frammento di cielo appaia”.

Per deformazione personale, sono molto affezionato all’individuo. Parli del lavoro di gruppo e della condivisione come fondamenti dell’archeologia, lo stesso si potrebbe dire per il giornalismo e molte altre sezioni del mondo del lavoro. Per la poesia, invece? La scrittura è ancora una pratica individualista? Come dici nelle Lezioni, tu hai preferito la pratica solitaria, la riflessione come condotta di vita. Che cosa vi si guadagna?

L’archeologia è un lavoro di gruppo, personalmente ho partecipato a una delle missioni archeologiche più competitive della storia. La missione di Ebla è famosa, oltre che per le grandi scoperte che hanno cambiato la Archeologia Orientale, anche per questo. Si trattava di un ambiente difficile dove mancava qualunque forma di solidarietà. Detto ciò, si svolgeva nel deserto e ci si sentiva particolarmente isolati dal mondo, data la difficoltà dell’ambiente e la distanza da ogni possibilità di incontro, oltre che dalle famiglie che erano lontane. Io però sono una solitaria di natura, quindi soffrivo ma limitatamente. Amo il tempo in compagnia di me stessa. Quello che ci si guadagna è il tempo, di cui sono gelosa e un po’ ossessionata fin dalla nascita.

In Piano d’evacuazione parli del limite come di un pensiero messo alle strette. Quali sono i confini della poesia? E della parola? È forse compito del poeta forzare, estendere queste frontiere, oppure starne a difesa affinché non vengano violate?

La poesia credo sia proprio la possibilità di forzare i confini linguistici, almeno quella che provo a fare, magari non ci riesco, ma ho questa tensione. “Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”, come diceva Kafka. Ecco la poesia interroga, risponde, deve perturbare, scuotere e cercare di estendere le frontiere del linguaggio del poeta e di chi lo legge, altrimenti è un puro esercizio retorico.

In quel libro parli anche della memoria e dei danni insiti in quella facoltà “che sa andare solo all’indietro”. La riflessione sul determinismo e sulla causalità di Bertrand Russell raggiunge obiettivi simili. Lui dice essere un mero accidente che la memoria ricordi solo backward and not forward. Allora, Russell si chiede: perché? Se il passato è così poiché è accaduto, anche il futuro è conosciuto perché così sarà. Entrambi sono determinati e memorizzabili. La tua domanda “perché non si può ricordare il futuro?” è forse un attacco agli opponenti del determinismo?

Questo è un riferimento ad Alice nel paese delle meraviglie, uno dei miei libri preferiti. Sappiamo che Lewis Carroll oltre che scrittore e fotografo era anche un logico, un matematico e pubblicò diversi trattati di logica. Sin da piccola sono stata molto attratta dalla categoria del tempo, dai rompicapi e dai paradossi spaziotemporali.

Infine, un inciso breve sui tuoi aforismi, navigazioni tra “l’inconscio del linguaggio” e il “rimosso esistenziale”. Hai scritto che i moralisti si curano con il loro stesso giudizio, allora, qual è il pharmakon dell’immoralista?

Penso che il pharmakon degli immoralisti sia proprio la loro immoralità.

*In copertina: Flaminia Cruciani in un ritratto fotografico di Dino Ignani

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