“Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre”. La Terra Santa di Alda Merini
Poesia
Marilena Garis e Riccardo Peratoner
Può essere che la poesia sia un compito, un peso, la pazienza inesorabile. Forse è un carisma. Un sortilegio. Fiamma bipenne. Il 5 luglio del 1948 Paul Celan, nel gorgo del vagabondaggio, lascia Vienna per Parigi. Si ferma a Innsbruck, pone fiori sulla tomba di Georg Trakl. Chissà che fiori sono, se il poeta li ha acquistati o li ha raccolti da un prato: piccoli eventi che elevano un gesto a icona. Paul Celan davanti alla tomba di Georg Trakl vede se stesso: ha la stessa età del morto. Ventisette anni. Infermiere durante la battaglia di Grodek, in Galizia, Trakl è sconvolto dall’entità del male, alta come un’Apocalisse. Salvato dopo un tentativo di suicidio, ricoverato a Cracovia, riuscirà a uccidersi il 3 novembre del 1914 tramite un’overdose di cocaina. “Sotto dorati rami di notte e stelle/ barcolla l’ombra della sorella per il boschetto muto,/ a salutare gli spiriti degli eroi, le teste sanguinanti;/ e piano risuonano nel canneto i flauti scuri dell’autunno”: l’ultima poesia, Grodek. Celan pone dei fiori: come se si avventasse in un destino speculare. Anche lui, più di vent’anni dopo, sceglierà la morte, per acqua.
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Nelle Quaranta poesie di Trakl edite da Giometti & Antonello, Dario Borso – il curatore – rintraccia il nume originario della stirpe lirica che porta a Celan e a Trakl. È Friedrich Hölderlin, va da sé, che agisce come punto di rottura, profusione di occhi, estasi a zampate, una tigre gettata in faccia al lettore. La poesia, infatti, non va ‘capita’ ma captata, penetrata: come si entra in una cella, l’incenso acceca, il canto, in lingua nota e aliena, è già partito, parla di vite a venire, di un’infanzia accaduta millenni fa – le mura non reggono quel canto. La poesia va tenuta sotto la lingua, non si spiega. Borso parla di una poesia “scritta a matita” – dunque: ha l’ambizione di sparire – dedicata a Hölderlin, di Trakl. Trovati per caso, in un labirinto di bibliomani. Poi rileva i rapporti tra Celan e Hölderlin – nella poesia Tübingen, Jänner, del 1961, ad esempio. In ogni caso, la follia è matrice della poesia, si direbbe, modellando il detto di Giorgio Colli. In verità, è vero che la poesia, per essere, si mangia tutto il poeta.
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Dunque Trakl è il punto di fuga di un carisma, di una sequela: in Italia trovò adepti in Giaime Pintor, Roberto Carifi, Antonio Porta. Tradurlo significa saper nettare le unghie agli impiccati: è una sequela dura, quella di Trakl, filocalia di spettri.
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Sembra, voglio dire, che esista un modo di vivere la poesia come missione estetica, come compito letterario, e un altro, disgiunto, che riguarda l’esclusività, un martirio. Non hanno ragione, qui, i gusti, la sferica sapienza del verso, il canone o il piacere: la poesia non si valuta per superfici ma in profondità, in deriva geologica. Farmacista, pronto a costruirsi una aristocrazia dell’abisso che passava attraverso le letture di Nietzsche, Dostoevskij, Ibsen, Strindberg, Hölderlin, Trakl sembra un profeta che al posto di venire dal deserto s’immerga nella foresta del trauma, tra ambasciatori onirici. “Sublime è il silenzio del bosco, oscurità inverdita e gli animali muschiosi che si levano in volo al far della notte. oh il brivido, quando ciascuno sa la propria colpa, corre per sentieri di spine”. Dunque non è la Grande Guerra a offrirgli il tema: essa redige, con caustica esattezza, ciò che il poeta, in sé, prevedeva dalla nascita. Alcuni non capiscono: se il poeta protegge in una alcova di versi gli uomini, qualsiasi, è perché ha assunto nell’intimo un massacro, ne ha occipitale evidenza.
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Trakl sembra vedere il retro del creato: il demone che gioca con le ombre che ai nostri occhi sembrano la realtà. Resta, perciò, poeta che non ha retaggio né nastri ornamentali: si è strappato via tutto, finanche i denti. “Voi popoli morenti!/ Pallida onda/ che s’infrange a riva della notte,/ cadenti stelle”. La poesia di colui che vi muore dentro, può far risorgere. Vide bene Rainer Maria Rilke – poeta di rango, di altitudini, dove Trakl è poeta di sangue, di lordure auree – “Immagino che perfino chi gli sta vicino, premuto per così dire contro il vetro, avverta queste vedute e questi colpi d’occhio sempre come un escluso: il vissuto di Trakl infatti avanza come in immagini riflesse e riempie tutto il suo spazio, che è inaccessibile come lo spazio nello specchio”. Che spietata esattezza. Si immagina il poeta dentro un’ampolla, in una foresta di vetro, dove l’anima grida in cristallo. Eppure, Trakl ha sbriciolato tutte le vetrate. Tre anni dopo la sua morte, si uccise la sorella, Grete, a cui lo stringeva un affetto che molti ritenevano ambiguo. (d.b.)
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Lo sconforto
Potente sei, bocca buia
all’interno, forma fatta
di nubi d’autunno,
di aurea quiete serale;
un torrente verde-crepuscolo
nel cerchio ombroso
di pini spezzati;
un borgo
che pio si estingue in immagini brune.
Ecco saltare i cavalli neri
su brumoso pascolo.
Voi soldati!
Dal colle, over morendo il sole rotola,
scende il sangue ridente –
sotto querce
senza voce! Oh rancoroso sconforto
dell’esercito; un elmo lucente
cadde tinnendo da purpurea fronte.
Notte autunnale tanto fresca giunge,
splende di stelle
sopra ossa spezzate d’uomini
la silenziosa monaca.
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Karl Kraus
Bianco patriarca della verità,
voce cristallina dove abita il soffio gelido di Dio,
irato mago
cui sotto fiammante manto cigola l’azzurra corazza del guerriero.
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A Hellbrunn
Di nuovo seguendo l’azzurro lamento della sera
fino al colle, allo stagno primaverile –
quasi vi aleggiassero le ombre di defunti antichi,
le ombre dei cardinali, di nobildonne –
già sbocciano i loro fiori, le viole severe
sul terreno a sera, scroscia d’azzurra fonte
l’onda cristallina. Così sacre verdeggiano
le querce sui sentieri perduti dei morti,
la nube d’oro sopra lo stagno.
Georg Trakl
*Le poesie sono tratte da: Georg Trakl, “Quaranta poesie”, Giometti & Antonello, 2020, a cura di Dario Borso