Si vive in relazione con i morti.
Si può dire – lo dice chi sa – che si vive imparando a morire. La vita in sé, ignara del rapporto con la morte, è invivibile, vita inane, tra pilastri di cenere.
Ma un conto è la morte – un conto i morti. Cosa vuol dire vegliare il corpo di un morto? Irretirlo con i ricordi? Svaligiare il suo intimo in una giaculatoria di viete passioni? Oppure scioglierlo da tutti i nodi che a questo mondo lo legano ancora? Qual è il resto di chi abbiamo amato, ora cadavere? Dov’è il suo fondo, il brulicante pozzo? Esiste, poi, un resto, una restituzione, un ritorno?
Sono sbrigativi, oggi, gli uffici funebri, come se bastasse seppellire – o ardere – un corpo per eliminare il dolore. Il momento più importante della vita di un uomo e delle relazioni che in questa vita ha contratto, viene vanificato nella velocità dell’atto. Si va a piangere sulla lapide, si recano promesse alla tomba: il corpo – per virtù sanitaria – scompaia presto. Così, privi dei giorni della veglia, dell’accompagnamento, della prossimità con il cadavere, il morto, intriso d’ira, agirà entro ogni spiraglio: i sogni, le fenditure del dubbio, la mutila preghiera. Sciabolate di intenzioni non lo allieteranno: la tomba è un seme, nostra cura è che nasca una colomba o una volpe invece di una iena o di un vampiro.
Sempre, la nostra vita è una “risposta” a un morto, concreto atto di completezza, incompiuta compieta.
Affascinante, in questo dire, un frammento dal Dioses y Hombres de Huarochirí (noto anche come “Manuscrito de Huarochirí”), manoscritto anonimo scritto in quechua all’inizio del XVII secolo, che descrivi miti e riti degli abitanti della provincia di Huarochirí, appunto, in Perù. Il testo fu raccolto dal gesuita Francisco de Ávila, nativo di Cuzco, con l’intenzione di estirpare il credo “pagano” dalle campagne peruviane. Tradotto in spagnolo nel 1966 dallo scrittore José María Arguedas – l’autore, per intenderci, de I fiumi profondi e Tutte le stirpi – si pubblica qui un passo nella versione italiana di Liliana Rosati, apparso su un fascicolo di “In forma di parole” (gennaio, febbraio, marzo, 1987).
Nel testo si racconta, sommariamente, dell’obbligo di vegliare cinque giorni il cadavere, di pattugliare il suo viaggio. In quei giorni – equinoziali alle dita di una mano – l’anima del morto fa visita al suo “fattore”, per poi tornare a casa, nel suo villaggio, atteso tra feste e vivande. S’intende, dunque, che l’anima del morto non si dilata in un assolutista Tutto; l’anima è individuale, non esiste alcun eterno ritorno in altra forma, ma una sorta di rincasare, di accasarsi eternamente a questa vita. I morti, dunque, vivevano tra i vivi in tutt’uno: la morte, infine, è cosa iniqua, non definitiva. È un passaggio. È come aprire una porta. Soglia da varcare tra portali di lacrime.
Tuttavia, la veglia è necessaria: a ricordare all’anima del cadavere chi è, chi sono i suoi, a quale genia appartiene. Che non si disperda tra i fatui falò divini, in precipitosa ascensione. Questo testo quechua pare un frugale Bardo Tödröl peruviano. Nel Bardo, tuttavia, la veglia è più lunga – dura fino a sei settimane –, la ritualità più complessa, l’esito implicato opposto: si lavora a che lo spirito del defunto, vinti i demoni del di qua e dell’aldilà, non rinasca più, si sperperi in degno Nirvana. In sostanza: si muoia alla morte.
Un paio di dettagli suggestionano il cultore letterario. Il brano del “Manuscrito de Huarochirí” che qui si ricalca risuona in almeno due grandi scrittori. Il primo è Juan Rulfo, sommo messicano. Il suo capolavoro, Pedro Páramo, racconta, in fondo, di una veglia tradita, di un paese, un tempo rigoglioso, mutato in miseria, di spettri che parlano di ere ormai senza cardine. Gli spettri, se non sono sanati da incessante veglia – la preghiera ne ricuce i contorni del viso, pur dopo decenni, ne sutura la rabbia, crea dighe alla vendemmia vendetta – armano la discordia, campioni nel chiacchiericcio, eredi di un frainteso.
L’altro è Horacio Quiroga. L’antico manoscritto quechua – la cui unica copia, preziosa reliquia di un mondo sommerso, giace alla Biblioteca Nacional de España, “in un volume che reca il numero di catalogo 3169” – afferma che l’anima di un uomo è “piccola come una mosca”; in uno dei racconti più cupi (e dunque solari) di Quiroga, Le mosche – ora in: Aldilà, De Piante, 2023 – si racconta della morte incidentale di un uomo, nella giungla amazzonica. Acutizzata dalla fine, l’intelligenza dell’uomo vede in visione la sua anima mutarsi in mosche:
“Non mi sento più un punto fisso sulla terra, costretto a essa da una feroce tortura. Sento sorgere in me la vita stessa, la volubilità dell’odore della terra, la luce del sole, la fecondità dell’ora. Libero dallo spazio e dal tempo, posso andare di qui e di là, da questo albero a quella liana… E volo, e mi poso con le mie compagne sul tronco caduto, ai raggi di un sole che presta il suo fuoco alla nostra opera di rinnovamento vitale”.
Nel caso di Quiroga, però, non c’è alcun ritorno per l’anima-mosca: semplicemente, non esiste più alcuna casa a cui tornare. Il “Manuscrito de Huarochirí”, in effetti, è il resoconto di una fine. Da quando gli spagnoli hanno setacciato le lande sudamericana, sradicando ancestri e dèi, i morti non fanno più ritorno. Si muore per sempre – definitivamente. La veglia è avvilita, reciso il consueto legame tra i vivi e gli andati; rotti i ponti con l’aldilà, occluse le note tratte.
C’è ancora qualcos’altro, però, che ci turba. L’anima del morto parla. Opera una verbosità fatta di singulti, di inesplicabili sintagmi. Dice “sio” – o analogo cinguettio. Compito dei vivi: districare il dire dei morti.
Eppure, ai nostri giorni i morti sembrano scomparsi, ombre buone a rimpinzare la memoria, veggenti fotografie su plastica, semmai. Non hanno più ruolo, ologrammi che ci assolvono da ogni rapporto con gli altri mondi, che ci osservano come galline. Fantasmi con la museruola. Senza il fiero siero dei morti, è l’utopia dell’immortalità, la vita scatenata che si bea dell’assassinio perpetuo. Senza i morti, mastice della casa, cardine del nostro dire, sedia nostra, non esiste la vita.
**
Di come, in tempi remoti, gli uomini dicevano al quinto giorno dopo la loro morte: “Sono tornato”. Di queste cose scriveremo.
In tempo molto antichi, quando qualcuno moriva, si vegliava il cadavere fino al quinto giorno. L’anima, piccola come una mosca, s’involava, “sio” dicendo. Dopo che se n’era volata la gente diceva: “È andata a vedere Pariacaca nostro creatore e fattore”. Ma alcuni sostengono che Pariacaca non esisteva ancora a quel tempo, sicché le anime volavano in alto, vero Yarulliancha. Prima ancora della comparsa di Pariacaca o di Carhuincho, alcuni uomini nacquero a Yaurillancha e nel luogo chiamato Huichicancha.
Si dice che i morti solevano tornare dopo cinque giorni. La gente usciva ad aspettare il loro ritorno, dopo aver preparato ogni sorta di cibo e bevande. Al loro arrivo i morti dicevano: “Sono tornato” ed erano molto felici in compagnia dei loro genitori e fratelli. “Ora non morirò più”, dicevano.
In quell’epoca la popolazione crebbe troppo e viveva tra stenti, trovando a malapena qualcosa da mangiare, seminando persino sulle rocce e i pendii delle montagne. Stando così le cose, in quel mentre morì un tale. Dopo la sua morte, i suoi genitori, i fratelli e la moglie lo aspettarono fino al quinto giorno in cui sarebbe dovuto tornare. Ma quest’uomo non tornò. Si presentò soltanto il giorno seguente, il sesto giorno. Suo padre, i suoi fratelli e la sua sposa lo aspettavano molto indignati. Al suo arrivo la moglie adirata gli disse: “Come puoi essere così pigro? Tutti gli altri arrivano sempre puntualmente!”. E lo rimproverò aspramente, aggiungendo: “Tu ieri ci hai fatto aspettare invano!”. Poi, furiosa, la donna lanciò un tùtulo di mais contro l’anima che arrivava. Non appena l’ebbe gettato, l’anima, “sio” dicendo, se ne ritornò immediatamente.
Da allora fino ad oggi i morti non tornano più.
Traduzione di Liliana Rosati