10 Dicembre 2024

Il sacrilegio. Ovvero: l’arte di inghiottire il Testo

Riscrivere il Testo fino a detestarlo.

Riscrivere il Testo per decapitare la Scrittura.

Perché questa è opera di sacrilegio. Ricopiare il Testo con l’acribia di chi lo cancella. Ricalcare con la selce: annullare.

Non ricopio il Testo per passarlo a memoria – ma per dimenticarlo.

Il metodo: quello della Grande Caccia. Seguo le tracce del predatore, passo per passo, come un miniatore, per scovare la sua tana – e ucciderlo. Il miniatore scava la pergamena finché non emerge l’angelo d’oro, il drago rubino.  

L’opera che appare di alta dedizione – una dedizione, si direbbe, che svetta su precipizi – si contorce nel sacrilego.

Come si può mettere in mostra il Testo? Come può un singolo uomo – con nome-e-cognome – ricalcare il Testo uscendone indenne?

Le intenzioni, al cospetto del Testo – cioè: sopra l’altare – non contano: resta la tenzone.

Tutta la disciplina pare sconfitta al lume del tuo nome, miracolato artista. L’opera del miniatore si svolge nell’anonimato – come si può fare arte del Testo?

Più ripeti il Testo fuori dal tempio, più lo dileggi, ne uccidi il potere taumaturgico.

Ne sono certo: avvolgersi nella pergamena forgiata dal copista è terapia, libera dal male. Eppure: restiamo nell’imprimatur di una copia – periglioso foggiare il gemello di un dio, come fare di un fulmine il proprio cane da passeggio.

Non se ne esce: fare mercanteggio del sacro. Il Vangelo – che rompe tutte le forme – anche questo permette. Fate di me mercato: il Nazareno, l’appeso, ridotto in quarti. Che il tempio sia distrutto, appartiene a un altro tempo, che il seme – il bulbo dell’arca – esploda in vigne guglie.

Ma qui si parla di scrittura. Non esiste scrittura oltre la Scriptura, nel Vangelo. Ripetere è salvifico; scrivere è illecito; ricopiare sacrilego.

L’unico gesto giusto: inghiottire il rotolo, manducare il Verbo.

Volontà è voluttà: che tu voglia compiere un atto di devozione non protegge tale atto dal sacrilegio.

Scrivere silenzia – è il contrario del coro – induce a disobbedienza.

Sacrilegio: slogare i sensi. Nel calligramma ciò che emerge è la figura, la silhouette, la seminagione dello scritto non certo il suo germoglio. Lo scritto è fagocitato, seme che non ha offerto frutto.

Lo scriba si annienti in un pentateuco pudore; l’evangelista non fa scuola, scuoia ogni accademia. Che gli interpreti, in erebo di ranocchie, continuino a calcolare il Testo come una palude: non è loro il regno, proprietà analfabeta.

Intendo: la scrittura, nella Scriptura, accade soltanto sotto dettatura di Dio – o per sua grafia. Dicono i talmudisti: “fuoco nero su fuoco bianco”. A dire (dico io): s’incenerisca il verbo, si risalga dalle ceneri a Bereshit. Ne sei in grado?

Scriptura, fuoco perenne – scrittura che si rivela, per effimeri istanti, sotto il nibbio del fuoco.

Che rapporto c’è tra arte e sacro? Il pudore inchiodi la lingua del fedele; non si ripeta invano il Nome; del suo Nome si intrida il nostro corpo. Non più opera su pergamena ma su pelle. Non più opera in mostra ma destinata all’invisibile. Non più vernissage ma cella. Non più mercimonio ma matrimonio. Non più nomea ma annientamento.

Fare ammenda – mendicare. Atrofizzare l’oscena “autorialità”.

Così recita il “voto emesso, sub gravi” da Clemente Rebora nel giugno del 1936:

“Mio Signore e Mio Dio,
faccio voto di chiederti
in ogni tempo la grazia
di patire e morire oscuramente
scomparendo polverizzato
nell’opera del tuo amore. Così sia”.

Sola Scriptura: inscriversi nell’annientamento. Scrivere, cioè: polverizzarsi. Scrivere significa polverizzare. Dalla polvere, la resurrezione del creato. Scrittore: carpentiere di Dio.

Ancora Rebora:

“Lungi da me la scappatoia dell’arte
per fuggir la stretta via che salva!”.

L’arte: una scappatella. L’arte: una via di fuga. L’arte: una fuitina. Nel Vangelo – un ‘genere’ nuovo, a smaterializzare la ‘letteratura’ – ciò che conta è il detto: lo scritto è un tabù, l’unico scrittore è Dio. Scrivere, sempre, vuol dire: restare nell’eclisse della stimmate.

Di tutto si può parlare, di Dio si deve tacere. La propria “esperienza” di Dio non giustifica la riuscita dell’opera: se è dedita a Dio, l’opera taccia il nome dell’esecutore, mero servo; se è creata per l’uomo, è sacrilegio.

Il Testo è uno – è l’Uno. La replica ne è la contraddizione, l’abrasione, l’ombra del vero. Da miracolo a miraggio, da Dio a idolo. L’opera d’arte? Bassa idolatria.

Quanto al manufatto – cioè, al vello, anzi, al vitello d’oro. L’opera è conturbante: tra il Manoscritto Voynich e il Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore, tra gli sgorbi paleocristiani e i frammenti di scrittura ritrovati a Qumran, vasellame gnostico.

Ritorno al bue parietale, all’artista con l’arco, alla poesia che nasce per combustione, al cospetto della leonina cresta dei falò. Così, con ispirazione aurorale – da par suo, tra giullare e guerriero – André Malraux traccia una via apocalittica all’arte:

“Ma in questo mondo quasi del tutto corrotto, può darsi che ci sovvenga la voce di Antigone e, quando il primo artista riapparirà fra le rovine dell’ultima città spettro, in Occidente o in Russia, riconquisterà l’arcano linguaggio della scoperta del fuoco, dell’invenzione dei bisonti magdaleniani. Una volta di più sulla terra, che porta la traccia della semi-bestia aurignaziana e del collasso degli imperi, l’eco millenaria abbraccerà il sibilo del vento sulle rovine: ‘Non sono venuto per soggiogare la mia parte divina, ma per far risorgere l’uomo e rammentargli la sua grandezza a bassa voce’”.

(era il 30 maggio del 1952; il testo è ora in: A. Malraux, Occidentali quali valori difendete? Discorsi, traduzione di Maura Baldini, De Piante, 2024).

Non mi si leva dalla mente la figura di Pierre Menard. Ricalcare il testo per scombinarne, con lievi smottamenti verbali – gioco di enigmatiche eguaglianze – il senso. Riferire per ferire. Riscrivere: sottoscrizione di brigantaggio. Eppure: Dio – nella sfida cristiana – è altro rispetto al Testo. Chi del Testo fa un dio è un idolatra, un bestemmiatore. Segui il testo-sentiero senza curartene: il tuo scopo è il cielo, non opera tassonomica, malacreanza d’erbario.

Qual è lo scopo? Fare proseliti? Fare qualcosa di bello? Dare testimonianza del proprio eroismo?

Chi credi di essere? Nutrito di briciole, con la tua boccuccia-becco, becchime del creato, hai fatto della Scriptura una Babele. E ora? Ci venga a soccorso il lavorio della termite: sbriciolare la pergamena, esigere i suoi filatteri.

Incenerire – non annientare. Con la cenere, riparare, edificare altro.

Il cristiano è libero dal giogo del Testo, è testimone del Verbo. I Vangeli non sono scritti nella lingua di Dio – l’ebraico – non sono consegnati a un “inviato” – Mosè, Maometto. Vangeli: libri latitanti, redatti in una lingua senza maternità, idioma indegno all’indigeno Cristo – greco-gargarismo.

Non più la Scriptura ma la sequela. Inseguire Cristo: tracce amanuensi, scrittura-sentiero.

Inseguire Cristo: i piedi non poggiano sulle orme del Nazareno, non le rifanno, ma vanno sempre di fianco, ai bordi, nella neve vergine, direbbe Varlam Šalamov. Ciascuno sia evangelista a se stesso. Il Vangelo funge da bussola: nostra è la tratta, nostra scrittura.

Cristo nostro Gulag. (Direbbe Šalamov). Cristo nostra Madonna tra i lupi. (Direbbe Grossman).

Nel sesto capito del libro di Baruc: violenta reprimenda contro i falsi dèi, forgiati in oro e argento dagli artigiani, che “Non libereranno un uomo dalla morte né sottrarranno il debole dal forte”. La polemica è costante: al Dio, l’Unico – di cui il Testo è autentico Tempio – gli israeliti, ciclicamente, preferiscono gli dèi ulteriori, i culti stranieri, l’idolatria, l’incantamento. Baruc aggiunge alla diatriba un’immagine: gli idoli “Sono come cornacchie fra il cielo e la terra” (sicut corniculae inter medium caeli et terrae). Il corvo ha alta dignità nel Testo: è il primo uccello che esce dall’arca di Noè (Cumque transissent quadraginta dies, aperiens Noe fenestram arcae, quam fecerat, dimisit corvum). Ne parla anche Gesù, secondo il Vangelo di Luca: “Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre” (12, 24). Insieme ai gigli, i corvi: creature a cui Dio, provvidenzialmente, elargisce i suoi beni.

“Per questo io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete”.

Tra gli uccelli, le cornacchie sono i pitbull, i canidi: al posto delle ali, sembrano avere le zampe. Il loro mistero lo ha capito soltanto Kafka – nella gabbia del suo nome, aleggia, cifrato, il corvo – quando scrive:

“Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie”.

Le cornacchie sono in combutta con il cielo: sono una grottesca imitazione dell’aquila, il dio dei volatili.

Come le cornacchie, il Testo si ciba di cadaveri.

Il Testo è un falso idolo. Il Testo è il nutrimento di chi non insegue Cristo, ma lo interpreta. Idolatria dell’intelligenza umana. Iddio indecente.

Il Testo: cotenna di Dio – se ne ricostruisca il corpo gettando le lettere ossicine, come dadi.

Il Testo va esposto, come un palio, come la corona di corna della boschiva bestia – a leggerlo, ti si accecano gli occhi.

Il Testo è scritto da Dio per Dio – sacrilegio è fossilizzarlo in lingua d’uomo, geologia di erranze, di banditismo verbale. Il linguaggio di Dio: nel retro della lettera.

Muoiano per eccesso di zelo i letteralisti, per indigestione legalista, ventri impastati di codici, irreggimentati nella logica del testo. Ma il Testo è testimonianza di Dio: guai a credere nel Testo!

Ci salvi Edmond Jabès, poeta francese, ebreo cresciuto in Egitto. Così scrive nel Libro della sovversione non sospetta:

“Tu metti in mostra quel che non doveva esser rivelato. Di fatto, però, dell’oggetto delineato tu lasci intravedere soltanto la maschera dietro cui si nasconde. E questa maschera può benissimo essere un altro oggetto. Interdetto colmo di malizia. […] Dio sfugge alla menzogna attraverso una menzogna ancora più ricca di eloquenza, la quale, pronta com’è a denunciare ogni altra menzogna, finisce con l’imporsi al credente come l’unica verità”.

Dunque: smascherare il Testo – cancellarlo. Sulla pece, su quella pestilenza di cenere, galleggia la Voce, la parola che vibra sulle labbra dell’Arcangelo: che è acqua e spada.

All’uomo resta l’opera ultima: inennì. Eccomi.

Tutto è compiuto.

Ho sete.

*Questo testo è stato scritto dopo avere osservato l’immane “calligramma biblico” di Gianluca Bosi, ora esposto a Cesena, presso la Chiesa di San Zenone, nella mostra “Arazzi di luce”, a cura di Andrea Pompili e Marisa Zattini, in atto fino a domenica 26 gennaio 2025.

Nell’articolo, alcuni particolari dai lavori di Gianluca Bosi. In copertina: un foglio dal “Codex Leningradensis”, manoscritto del testo masoretico della Bibbia ebraica datato 1008.

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