Magia e morte, erotismo e malinconia: breviario di cultura giapponese
Letterature
Antonio Soldi
Discepolo, per lignaggio, di Dogen, il maestro che nel XIII secolo ha fondato la scuola del buddismo Zen Soto, Genro, nei rari ritratti, ha la faccia di una tartaruga. Sembra veleggiare, nella posizione del loto, sopra le acque; ha lo sguardo mite, in tonsura, con gli occhi protesi verso le altezze. Morto nel 1813, quasi centenario, Genro fondava il suo insegnamento sulla pratica del koan: storie paradossali che dovrebbero condurre l’allievo, per scintillio mentale, all’illuminazione. La pratica è affascinante – e stratificata – perché parte dal deragliamento della grammatica, dal caos del linguaggio, per smobilitare i concetti e giungere al ‘risveglio’. Sapienza tramite banditismo linguistico. Diversi sono i koan, diverse le realizzazioni che si propongono. In sostanza: che rapporto c’è tra la cosa e il suo nome, tra il detto e il fatto? Il rapporto – il legame – è nello spiraglio, nei pertugi tra le lettere, nel vuoto. Un nodo è reale perché è un nodo d’acqua.
Non diversamente – lo si dice per eccesso letterario, per eccedere d’eccellenza – la poesia smuove la grammatica delle cose (rende l’inerte linguaggio una cucciolata di volpi) e ci fa vedere ciò che prima sembrava invisibile, impossibile. Bisogna irritare il linguaggio, irretirlo perché ci morda.
Il koan non è però – diversamente dalla poesia – materia letteraria, per lettori in cerca di verità. Il genio del koan è il suo essere inconsistente, una brocca costruita con le elitre. ‘Credere’ nel koan vuol dire cedere all’idolo, pensare che l’illuminazione sia pari all’intelligenza – che, in fondo, l’enigma (imperitura divinità greca) sia qualcosa di simile alle parole crociate o alla risoluzione di un rebus. Il koan non dice la verità, né vi accenna, perché il vero tracima dal linguaggio: restate nel cigolio di un cinguettio, nello scroscio di un fiume, nel latrato, piuttosto.
Il koan è un canovaccio: il primo indizio di un dialogo – ferocissimo – tra maestro e allievo. Il koan va ‘agito’ per scoprire la sensatezza del nonsense. In modo analogo va intesa la disciplina del dialogo platonico – ‘maieutica’ – e l’importanza dell’enigma, centrale nella sapienza di Eraclito.
“L’enigma è la manifestazione nella parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile”:
spiega Giorgio Colli in un capitolo, “La sfida dell’enigma”, della Nascita della filosofia. Giungere all’indicibile: l’enigma pretende una sfida. Una sfida per la conoscenza. L’enigma pretende agonismo. Vita & morte, Edipo & la Sfinge – il linguaggio: mostro che seduce – mostro da vincere per non lasciarsene avvincere, fino a soffocare, pitone alla gola. Allo stesso modo, nel koan si possono ribaltare le parti e l’allievo scoprirsi più capace del maestro. Cioè: la risposta dell’allievo può illuminare il maestro, che gli cede il posto, lo scranno.
L’eredità di Genro si è consolidata in una raccolta di cento koan, nota come “Il flauto di ferro”, compilata nel 1783. Nel mondo anglofono esiste una traduzione ad opera di Nyogen Senzaki e di Ruth Strout McCandless (1961), costantemente ristampata, da cui abbiamo tratto alcuni testi. La struttura del libro è affascinante: Genro riscrive alcuni antichi apoftegmi, parabole sulla soglia del nulla, a cui segue, spesso, un suo commento, a volte contro-commentato da uno scritto del suo allievo e successore, Fugai. Il commento di Genro, di solito in versi, non risolve il koan, ma lo complica. In questo modo, la stratificazione di doppi sensi e di nonsense conduce l’allievo a beata confusione.
Ritorno alla cornice narrativa. Le storie narrate da Genro “sono ambientate in Cina, durante l’epoca delle dinastie T’ang (620-906) e Sung (930-1278), l’epoca d’oro dello Zen” (Nyogen Senzaki). La ‘scenografia’ è fittizia, in un lontano evo; i protagonisti, spesso, sono monaci leggendari, pionieri della pratica che in Giappone si dirà Zen. È lo stesso ‘metodo’ che troviamo nello Zohar, il testo cabbalistico per antonomasia: pur composto in Castiglia, nel XIII secolo, è ambientato in “un paesaggio palestinese abbastanza irreale”, intorno al II secolo, “dove agiscono il celebra maestro della Mishnà Rabbì Shim’on ben Yochày, suo figlio ’El’azàr e una comitiva di amici e discepoli, discorrendo di tutti i possibili argomenti relativi a problemi sia umani che divini” (Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993, p.168). Anche qui: altro paese, altro evo, con mitici maestri in scena. In tutti i casi si tratta di una “mistificazione” (anche linguistica; nel caso dello Zohar si tratta di un aramaico che “è totalmente una finzione, una lingua letteraria”): a costringere e distruggere in sé il tempo e lo spazio. Nel gioco di specchi contrapposti, nello sposalizio tra verità e finzione, si vanificano tutte le forme.
Anche in questo caso, è il dialogo, tra i saloni dell’insensato, a far scaturire – per chi ha occhi e orecchi – la visione. Una pratica analoga – per fattura lirica, e dunque sapienziale – adotta Edmond Jabès nei suoi infiniti Livre, in cui si muovono misteriosi rabbi, magnetici negromanti del verbo, in apostolato d’enigma.
Ma stiamo andando troppo in là con le suggestioni. Ci basti sapere che non sono innocue queste ‘storielle’. Lupi travestiti da agnelli.
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Da Il flauto di ferro
Il cancello
Mañjuśrī era fuori dal cancello, il Buddha lo chiamò a sé. “Mañjuśrī, Mañjuśrī, perché non entri?”
“Non vedo nulla fuori dal cancello: perché dovrei entrare?”, rispose Mañjuśrī.
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La lezione
Il nobile Min-wang, dopo aver costruito un monastero per Lo-shan, chiese al maestro di tenere un discorso. Lo-shan era l’abate del tempio: sedette su un’umile sedia e non disse nulla, tranne la parola “Addio” – poi, tornò nella sua cella. Il nobile Min-wang si fece al suo fianco e gli disse: “L’insegnamento del Buddha presso il monte Gradharkuta non era diverso dal tuo, oggi”. Lo-shan rispose: “Pensavo fossi estraneo ai sacri insegnamenti, oggi scopro che sai qualcosa dello Zen”.
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Il Buddha di pietra
Upasaka Liu-kêng chiese a Nan-ch’üan: “Nella mia casa c’è una pietra che sta eretta o sdraiata. Intendo ricavarne un Buddha: posso farlo?”. Nan-ch’üan disse: “Sì, puoi”. Upasaka Liu-kêng chiese ancora: “Non posso farlo?”, e Nan-ch’üan rispose: “No, non puoi farlo”.
Genro dice: Vedo una pietra che un laico ha trascinato fino al monastero. Vedo la pietra che Nan-ch’üan serba nella sala della meditazione. Tutti i martelli di Cina non potrebbero scalfire queste due pietre.
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Il risultato
Pai-ling e Upasaka P’ang-yün studiavano sotto Ma-tsu, il successore di Nan-yüeh. Un giorno, camminando per strada, Pai-ling disse: “Il nostro maestro ha detto: ‘Se affermi qualcosa, la perdi’. Mi chiedo se l’abbia mai mostrato a qualcuno”. Upasaka P’ang-yün rispose: “L’ha fatto”. “A chi?”, chiese il monaco. Il laico puntò il dito contro se stesso: “A questo seguace”. Pai-ling disse: “Il tuo risultato è così bello e profondo che neanche Mañjuśrī e Subhūti potrebbero adeguatamente onorarti”.
Allora l’uomo disse al monaco: “Mi chiedo se qualcuno sappia cosa intendesse il nostro maestro”. Il monaco questa volta non rispose, indossò il cappello di paglia, se ne andò via. “Stai attento”, gli gridò l’uomo, ma Pai-ling continuò a camminare senza voltarsi.
Genro dice:
Una nuvola è acquattata all’ingresso
della roccia: non fa nulla tutto il giorno.
La luce della luna penetra le onde ogni notte
ma non lascia tracce sull’acqua.
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La frase
Un monaco chiese a Shao-shan: “Esiste una frase che non sia né giusta né sbagliata?”. Shao-shan rispose: “Una selce di nuvola bianca non mostra bruttezza”.
Genro dice:
Non esiste giusto, non esiste sbagliato:
ti ho concesso una frase: conservala
trent’anni senza mostrarla ad alcuno.
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Il banchetto
Un giorno, mentre Yün-mên insegnava ai suoi monaci, chiese loro: “Volete conoscere i vostri patriarchi?”. Prima che qualcuno potesse rispondere, puntò il bastone sopra di loro: “I vecchi patriarchi stanno saltando sulla vostra testa”. Poi disse: “Volete vedere i loro occhi?”. Allora, indicò il terreno sotto i piedi dei monaci: “Sono sotto i vostri piedi”. Dopo un attimo pausa, assaggiò l’aria, parlò a se stesso: “Ho preparato un banchetto nel tempio, ma gli dèi famelici non sono mai soddisfatti”.
Genro dice: Abbiamo soltanto l’azzurro cielo sopra le nostre teste: dove sono i vecchi patriarchi? Abbiamo soltanto la buona terra sotto i nostri piedi: dove sono gli occhi dei vecchi patriarchi? Il banchetto preparato da Yün-mên era mera ombra: non c’è da stupirsi che gli dèi non abbiano placato la loro fame. Volete sapere come preparo un banchetto nel tempio? Chiudo la porta, mi sdraio sul pavimento, allungo braccia e gambe e mi addormento. Perché? Ricordate quel detto: “Una tazza piena fino all’orlo non può contenere altro; la buona terra non ha mai prodotto uomini affamati”.
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La realizzazione
Yün-chü, maestro Sōtō dello Zen cinese, aveva parecchi discepoli. Un monaco, giunto dalla Corea, gli disse: “Ho realizzato qualcosa dentro di me che non riesco a descrivere”. “Perché?”, chiese Yün-chü, “non può essere così difficile”. “Allora devi farlo per me”, rispose il monaco. Yün-chü disse: “Corea! Corea!”. In seguito, un maestro criticò questo incidente: “Yün-chü non capì il monaco. C’era un oceano tra loro, anche se vivevano nello stesso monastero”.
Genro dice: Il maestro non riusciva a capire Yün-chü: una montagna li separava, pur essendo contemporanei.
Non è difficile parlare.
Non è difficile descrivere una cosa. Il monaco coreano era un errante, uno che non ha ancora fatto ritorno a casa.
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Il riassunto
Ts’ui-yen pensava di aver raggiunto qualcosa nello Zen, così, lasciò il monastero di T’zuming e cominciò a vagabondare per tutta la Cina. Anni dopo, fece visita al suo vecchio monastero e al maestro, ormai anziano. “Dunque, dimmi cos’hai capito del Buddhismo”, chiese il maestro. Ts’ui-yen rispose: “Se una nuvola non incombe sulla montagna, la luce della luna penetrerà le onde del lago”. T’zuming fissò il suo allievo con rabbia: “Stai invecchiando. I tuoi capelli sono diventati bianchi, i denti radi, eppure hai ancora tali idee dello Zen… Come puoi sfuggire dall’egida della nascita e della morte?”.
Le lacrime bagnarono il viso di Ts’ui-yen, chino. Dopo un po’, l’uomo disse: “Per favore, dimmi cos’è il Buddhismo, fammene il riassunto”. “Se una nuvola non incombe sulla montagna”, rispose il maestro, “la luce della luna penetra le onde del lago”. Prima che il maestro avesse finito, Ts’ui-yen fu illuminsto.
Genro dice: Ts‘ui-yen sapeva governare la barca nella corrente, non aveva mai pensato che la rotta lo avrebbe obbligato ad andare controcorrente.
Il mantice fa dardeggiare le fiamme:
la spada viene forgiata sull’incudine.
L’acciaio è sempre lo stesso
ma quanto è diverso il filo ora!
*
La trasmigrazione
Ch’ien-fêng disse: “Che occhi ha chi è trasmigrato per i cinque mondi?”.
Fugai dice: Che tipo di occhi ha chi non è trasmigrato?
Genro dice:
Tutto il mondo è il mio giardino
gli uccelli intonano la mia canzone
i venti soffiano il mio respiro;
mia è la danza della scimmia
mia la libertà del pesce che nuota
negli oceani – la luna della sera
si riflette in mille laghi
eppure, quando la montagna la nasconde
le immagini svaniscono e l’acqua
non si presta all’ombra.
Amo ogni fiore che riassume la primavera
ogni foglia colorata dall’autunno:
benvenuta felice trasmigrazione!
*
In mare aperto
Tao-wu sedeva sugli alti seggi della meditazione, quando un monaco lo interruppe chiedendogli: “Qual è la profondità del tuo insegnamento?”. Tao-wu scese dai suoi alti seggi, si inginocchiò sul pavimento e disse: “Hai viaggiato così a lungo, vieni da così lontano, e io non ho nulla da risponderti”.
Fugai dice: Attento, fratello! Così il mare ti trascina nelle sue profondità.
Genro dice:
Il mare è vasto e profondo:
sconfina oltre le quattro direzioni.
Quando Tao-wu cala
dai suoi alti seggi
non c’è profondità…
non c’è acqua.
Fugai dice:
Egli è al di là del grande e del piccolo
del basso e del profondo. Temo
per il mio amato insegnante:
rischia di annegare
perché ha il cuore grande
e ama tutti gli esseri senzienti.
*
Il muro
Quando i monaci gli chiedevano di istruirli in merito allo Zen e i laici lo interrogavano, Lu-tsu si voltava verso il muro. Nan-ch’üan, suo confratello, criticava tale metodo: “Dico ai monaci di tornare al tempo in cui il Buddha non era ancora nato, ma pochi realizzano il mio Zen. Sedersi contro il muro, come fa Lu-tsu, non fa il bene dei monaci”.
Genro dice: Vuoi incontrare Lu-tsu? Scala la più alta montagna, fino al picco che nessun essere umano può raggiungere. Vuoi incontrare Nan-ch’üan? Osserva la foglia che cade, ascolta l’approssimarsi dell’autunno.
Non è remoto il sacro luogo:
nessun sentiero speciale lo tocca.
Se procedi dove ti indica la guida
troverai soltanto un ponte incerto, ricoperto di muschio.
*
La statua
Un giorno, i coreani commissionarono a un artista cinese una statua di legno a grandezza naturale di Avalokiteśvara. Una volta completato il lavoro, la statua fu trasportata al porto di Tsien-t’ang per la spedizione, quando all’improvvisò sembrò bloccarsi sulla spiaggia: nessuna forza umana poteva più sollevarla. Dopo diverse negoziazioni tra coreani e cinesi, si decise di tenere la statua in Cina. La statua, allora, tornò del suo peso normale e fu custodita in un tempio a Ming-chou. Rendendo omaggio a questa statua, un uomo disse: “Nei sutra leggiamo che Avalokiteśvara possiede poteri miracolosi e che non c’è luogo in cui non si manifesti – perché allora questa sacra statua si è rifiutata di andare in Corea?”.
Genro dice: Ogni luogo è il luogo della sua manifestazione, perché dovrebbe andare in Corea?
Chi si copre gli occhi
non vedrà mai Avalokiteśvara.
Perché chiedere a uno straniero
di scolpire una statua di legno?
La statua immobile, sulla spiaggia
non è il vero Avalokiteśvara.
La statua custodita nel tempo
non è il vero Avalokiteśvara.
Una nave è tornata in Corea, vuota:
ci dica l’uomo dagli occhi aperti
se non è forse lì il vero Avalokiteśvara…
*
Portare frutto
Yün-mên viveva in un tempio chiamato “Chiostro degli Alberi Sacri”. Una mattina, un funzionario giunto in visita gli chiese: “I tuoi sacri frutti sono finalmente maturi?”. “Nessuno di loro è mai stato verde”, rispose Yün-mên.
Genro dice: Immaturo è il suo dire – tiepide e tumide le parole.
Fugai dice: Quanto a me: io amo i verdi frutti.
Genro dice:
L’albero sacro non ha radici
perché reca sacri frutti.
Quanti ne produce?
Uno, due, tre…
Non sono rossi
non sono verdi.
Provali:
sono duri come il ferro.
Quando il funzionario cinese
tentò di mordere il frutto
del Chiostro degli Alberi Sacri
si spezzò i denti.
Non sapeva che sono così vasti
da coprire cielo e terra
da contenere tutti gli esseri senzienti.