Cos’è il libro? Creatura con le zampe, creazione caudata e dai dieci volti, di miracolosi pozzi e dolenti doline; tutto un bivio a forma di cobra. Bestia sacrificale da spalancare, scotennare fino al gemito osseo. E quei segni, alfabetici coltelli, pungolo e pugnalata, lettere stellate, stallatico della terra, controfigura dei cieli.

Il libro: animale strano, che si anima appena lo apri. Ridotto – nell’oggi – a bestia da soma dalla longevità infima, a ovipari da allevamento, roba che razzola, il libro, in verità, è sempre l’unico: diamante che conosce i segreti della cenere. In particolare, i libri di Riccardo Corsi – scrittore dedito a un proprio romitaggio narrativo, che sfugge ai campionari vigenti, metropolitani, premiati – sono monili borgesiani. Libri labirintici, pieni di tappeti volanti e di uscite laterali, passepartout per la città celeste e i castelli nel cielo. Con perizia da straniato, tra lo sciamano e il logografo, il sovrano e il brigantaggio, Corsi procede nella sua sommossa lirica, l’azzardo che azzera la messe contemporanea, la messa in questione dell’intero immaginario romanzesco attuale, mentitore, trama di trabocchetti e di inganni. In particolare, i libri che compongono il suo trittico – Il Libro del vento, 2016; Il mare della terra, 2020; ora La Stella dei mondi, Edizioni degli Animali, 2023 – vanno letti come fossimo rifugiati, creature senza carati che ancora si accorgono di ciò che rifulge. Si tratta, cioè, di leggere dal deserto: orientarsi vuol dire capire che il libro cambia rotta – e pinne – a seconda del nostro passo umorale, della nostra sete. Che la parola è una finestra, il paragrafo una scala, la pagina una duna, onda sorretta dal capriccio.

I libri di Riccardo Corsi stanno tra lo studio dei miniatori, la stamberga dei cercatori, il viaggio extramondano; Magi, cantastorie e corsari sono gli alleati di testi – mitografie a graffi – che andrebbero sospesi, come arazzi. In La Stella dei mondi, per dire, c’è un “angelo acefalo [che] contempla il vuoto”, la leggenda del “Dio Polpo”, i cavalieri che portano “ogni giorno, il sole sulla terra”. Ogni pagina: una leggenda sommersa, una civiltà onirica, vivissima. In profondità, nel mormorio delle citazioni – questo è un libro che si immilla in mille altri, è verbo-polline – ricorre nei miei ricordi smerigliati Edmond Jabès, René Char, un antico bestiario islandese. Aprire tutti gli indecifrabili volti del libro – giaculatoria sconosciuta persino allo scrittore.

Più che altro, romanzi diramati in storie, in direzione contraria alla rapacità dei libri di oggi, fatti per essere compresi e comprati, usurati dal consumo, già morti, La Stella dei mondi brulica di frasi da segnarsi addosso:

“Scrivere è dietro la porta un fiume”

“Le stelle sono i ricordi di Dio”

“Il dio degli animali non è il dio degli umani”

“Gli animali sono le creature più spirituali”

“Il dolore è la presenza in noi di un paese lontano”

Ogni frase ulteriore – immaginiamo Riccardo Corsi ai vertici di una qualsiasi ‘istituzione’ culturale, immediatamente destituita di senso per appropriarsi di nuova sensibilità – è dissacrante. Chi opera davvero, oggi, lo fa con la spensieratezza degli insani, è affine al fuoco.

Qui si registra un dialogo con Riccardo Corsi.

Parto subito domandandoti del ‘genere’. Ti si legge e si pensa: questo non è un romanzo, ma una cronaca di leggende (più o meno fasulle), è un poema, un repertorio di deserti, un dialogo con i cari lari, i morti. Dunque: cos’è La stella dei mondi?

Ogni leggenda è falsa se la si guarda con gli occhi della ragione. Diventa vera se chi legge – ma anche chi scrive – si affida senza pretese, alla voce: all’ispirazione. L’opera nasce altrove, e poi discende sulla Terra. È sempre buona, se è stata buona la nostra capacità di attenzione (l’attenzione diceva Simone Weil è una forma di preghiera. La sola che ci resta? Mi viene da aggiungere). Se l’attenzione è spuria (e nella nostra epoca la distrazione regna sovrana, come ci ricorda Pascal: l’impossibilità di essere soli nella propria stanza) allora l’opera si guasta, o giunge monca al lettore, falsificandosi.

La Stella dei mondi, titolo di questo terzo libro e dell’intero trittico, è innanzitutto un romanzo per lacerti, per frammenti, un poema della soglia: delle soglie. Naturalmente a me accade di scrivere i libri di getto, su un quadernetto di musica, a matita, cancellando pochissimo (al limite qualche aggettivo). Ma il fluire del narrare resta. E lo si avverte di più proprio in una scrittura frammentaria come quella che vivo. Io accolgo il frammento, non lo rifiuto, ma so, lo intuisco, che esso appartiene a qualcosa di più grande. Come in un collage, o un puzzle, dove i pezzi – i frammenti – trovano da soli il loro luogo. La forma di un libro precede la volontà dell’autore di costruire una struttura, che poi è sempre una sovrastruttura. Ed è la mia critica al romanzo odierno, per come viene coniugato in Italia (nella maggioranza dei casi, esistono poi delle eccezioni). La falsificazione della parola che si scinde in forma e contenuto, finendo per ripresentare tutte le contraddizioni, le divisioni, le scissioni, dell’occidente. Mi viene in mente un pensiero crudele di Karl Kraus: «Ci sono due specie di scrittori. Quelli che lo sono e quelli che non lo sono. Nei primi forma e contenuto stanno insieme come anima e corpo, negli altri forma e contenuto vanno insieme come corpo e vestito». Sto con i primi naturalmente, con quanta forza non spetta a me dirlo. Ma gli altri hanno costruito, nutrono, l’industria culturale, e di essa vivono. La degradazione del canone occidentale, altissimo in passato, e sotto gli occhi di tutti. Paradossalmente è proprio il frammento ad essere più vicino a quella narrazione infinita, a quel grado zero della scrittura, a quel fluire della parola che a mio avviso raggiunge il suo apice nelle Mille e una notte: luogo e poema infinito dove l’autore scompare, che ha la sua radice nel meraviglioso poema indiano L’Oceano dei fiumi dei racconti.

In ognuno dei tre libri della trilogia accade qualcosa, come un salto, un’illuminazione (almeno per me che l’ho scritto). Ne La Stella è, come ti dicevo, questo gioco di soglie. Che avviene come nelle matrioska, o nella mise en abyme: un libro dentro l’altro. Nel rifiuto di un tempo cronologico. Naturalmente non si tratta lo ripeto, di falsificare i miti e le leggende, ma di ritrovare in noi quella capacità di meravigliarsi, di aprirsi al mondo, ai mondi, che era il nostro pane quotidiano durante l’infanzia. L’invisibile ci circonda, esso è parte del visibile. Semmai è un sentire vicino alla fiaba che caratterizza La Stella. La fiaba per essere vera deve essere ripensata, ridetta.

Ma allora cosa manca nel mondo di oggi? Ognuno è orientato sul proprio ombelico, manca il partage, la condivisione: manca l’ascolto. «Ogni cosa è già stata detta; ma siccome nessuno ascolta bisogna sempre ricominciare» diceva André Gide.

Monda da ogni esibizionismo narrativo, da ogni obbedienza mondana ai cliché della letteratura che impera, La stella dei mondi, pare, pure, un’arca in cui imbarchi Camus e Char, Borges e Florenskij, Perros e Celan e poi Pasolini, Penna, Angelo Silesio, Nadezda Mandel’štam… Eccesso di citazioni, epigrafi, arte bizantina del tombarolo, atto d’amore. Insomma, si legge un rapporto, costante, conturbante, con la letteratura, l’erta di un canone. Perché? Cos’è? Che senso hanno gli autori che hai scelto?

Un’arca, hai detto bene. Ma gli autori che sono entrati nell’arca, sono i semi di una foresta futura. Alberi, piante, animali, fiori, che cresceranno quando l’acqua di questo diluvio si sarà ritirata. E il diluvio – per intenderci, non parlo mai per metafore ma attraverso le immagini – il diluvio è il sacrificio, quello squartamento, l’ecartèlement diceva Cioran, in cui solo può vivere il poeta, la poesia. Altrimenti si ricade di nuovo nell’io. Per Rimbaud, tu lo sai meglio di me: Je est un autre. Se manca l’opera (e l’opera può essere un aforisma, una poesia, un quadro, un romanzo, una danza, un pensiero) il poeta ripiomba nella soggettività, non ne esce, ne resta prigioniero. E allora si fa strada, nutrita dalla ragione, la hybris, sempre detestabile, perché finisce per avvelenare anche degli spiriti buoni (e la disintossicazione è un processo lungo, e a volte mortale). Dunque non tombarolo, e neppure archeologo (che poi sarebbe un tombarolo con la patente per mettere in teche di vetro il passato) semmai uno spirito che pratica l’anagogica.

Predomina, in questo libro, la leggenda – spuria? dove le hai tratte quelle lasse di mito, quelle storie sacre-dissacrate? – e il nastro lirico, una cinghiata di verbi. Perché? Credi nell’agnizione più che nella narrazione, nel suggerire prima che nel dire? Dì. 

Credo fortemente nella narrazione. Ma che cosa significa credere nella narrazione (almeno per me), significa mondarla da quelle sovrastrutture che l’appesantiscono. Impalcature come la trama, i personaggi, i fatti. Il pernicioso bisogno di rappresentare la realtà, il reale. Tutti i miei libri sono iconoclastie contro la rappresentazione del reale: Roland Barthes parlava di semioclastie per i suoi miti d’oggi. Non c’è teatro nei miei personaggi. E in fondo non ci sono personaggi, a meno che non si intenda per personaggi, i diversi modi di sentire. Nei miei libri (parlo del Trittico) cerco di ritrovare un sentire primitivo, tagliando i generi, attraversandoli. Questo sentire primitivo accade dentro l’immaginazione (dentro l’immaginale, come lo chiama Henry Corbin). Un’immaginazione che abita i luoghi, li trasfigura e trasfigurandoli, annuncia – sia pure in modo imperfetto, ma i limiti sono sempre dell’artista – un modo diverso di abitare i luoghi, la terra. Nell’indivisione di visibile e invisibile. Di spirito e materia. Di vivi e morti.

La lingua, la parola, è come un grande animale preistorico, che attraversa le ere, i tempi. La lingua è viva. E noi viviamo in lei, accompagnandola. Non come le zanzare che la pungono e si nutrono del suo sangue, ma come rondini, come uccelletti che si posano su di lei quando si addormenta nelle radure del tempo. Come lucertole che appartengono alla grande lucertola della parola. Il frammento, lo ripeto, introduce, permette di accedere a un sentire più profondo. Attraverso le immagini che non sono mai mere metafore. Ma miti in embrione. In questo la lezione di José Lezama Lima è immensa. Ma non si tratta di imitare. No. A costo di essere deriso, non voglio dissacrare. Vivendo in un tempo dove la Tecnica dissacra da sola ogni cosa. Ma riconsacrare attraverso la parola. È questo il compito, il destino dei poeti. E per me la poesia avviene nella prosa più che nei versi.

Chi è “il dio degli animali”, da dove ti giunge questa ispirazione? Perché “i poeti sono come gli animali”?

Il Dio degli animali, è il divino prima di essere incanalato in una definizione. Per intenderci è Gelassenheit (Distacco/Abbandono), e – sempre pensando a Silesius – è sovradivinità: «mia vita e mia luce è la sovradivinità». Gli animali non umani (noi siamo animali umani) sono più vicini di noi a quella sorgente primigenia dalla quale scaturisce la vita. Rovesciando quanto dice Heidegger di loro. Essi sono nell’aperto più di noi. In modi così diversi che neppure immaginiamo. E parlano linguaggi che non comprendiamo. Sono nostre sorelle e nostri fratelli, così come le piante, gli alberi. Quando lo comprenderemo fino in fondo, la vita sulla terra seguirà un corso diverso. Quando gli umani smetteranno di considerarsi la specie dominante. Altrimenti – i segni ci sono tutti – nostro destino sarà l’annientamento dell’umanità, scopo perseguito con un’acribia tanatologica terribilmente esemplare: scolaretti del terrore ecco gli umani. I poeti sono come gli animali perché sono pasolinianamente Bestie da stile. Ma lo stile ha sempre a che vedere con una ricerca interiore. Lo stile, in un poeta in uno scrittore, è l’anima.

Questo tuo ultimo è parte di un trittico. Cosa vuoi dire con questi libri, cosa affermi, confermi o confondi? Cosa ti importa del ‘sistema letterario’ vigente?

Questi tre libri – e dico trittico perché c’è un discorso che riguarda le immagini – sono, come ti dicevo il tentativo di ripensare il nostro sentire. Il rapporto con il mondo. Quello che il grande poeta brasiliano Carlos Drummond De Andrade chiamava il Sentimento do mundo (il sentimento del mondo). In ognuno dei tre libri (ma ogni libro contiene dentro di sé 3 libri, dunque in tutto sono 9, anche se La Stella scompiglia un po’ le carte), avviene, accade qualcosa.

Nel Libro del vento, Gli Incroci simbolici, sono un libro chiave dove avviene quello che io chiamo il salto verso un altro sentire. Luogo dove parola e immagine cercano un’origine comune. E soprattutto, gli Incroci sono la nascita di una nuova forma. Il romanzo non è un romanzo per frammenti. Ma un romanzo tradizionale narrato in modo obliquo, ed è chi legge a restituire una forma al libro: fiore che appare e scompare. Infatti alla fine del libro ci sono diversi indici. E addirittura una storia che nasce in una nota, ma di questo non se n’è accorto nessuno (che io sappia) dei lettori del libro. Nel libro poi, quasi all’inizio compare una tavola di Oniromanzia (e qui non si tratta di erudizione di chi scrive, o di capziosi manierismi) ma di un sogno. La tavola di oniromanzia è un gioco – una giostra – che ho sognato, e come l’ho sognato l’ho trascritto. Invito a giocarci.

Nel secondo libro Il mare della terra, questo salto verso un diverso sentire avviene anche qui nel primo libro, in Wangarr, parola aborigena per designare il dreamtime, il tempo dei sogni dei popoli aborigeni dell’Australia. Questo salto, dicevamo, è un accogliere lo spirito di contraddizione che abita il linguaggio. Qui sono le immagini a guidare la narrazione, in un vortice che annulla la temporalità, e la protagonista è una bambina donna Balena Farfalla, abitata dallo spirito di metamorfosi.

Dunque, viene da chiederti, che postura deve avere uno scrittore, quale hai tu?

Non penso, non credo che uno scrittore debba avere una postura. Uno scrittore lavora alle proprie opere come un viandante che in una radura di notte accenda e nutra un fuoco. Un fuoco che riscalda la sua anima. E così facendo lo porta a continuare il viaggio, e ad accendere nel tempo altri fuochi. Homo viator, pellegrino. E qui dico un’altra cosa che farà sorridere qualcuno – gli impenitenti teologi, i professori, i critici sempre inadempienti nei confronti della poesia – noi viviamo nell’ultimo dei mondi. Nostro compito in questa vita è custodire il luogo che abitiamo e le creature che con noi lo popolano, di ogni specie, e di aprirci, sin da ora, già da qui, agli altri mondi, che ci sovrastano senza pesare, che ci passano accanto, sfiorandoci, ma dei quali non siamo coscienti. Torna Pasolini – ma senza farne una figura agiografica – che fa dire nella Medea al centauro Chirone:

«Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tientelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito – e comincerà qualcos’altro».

…e ora, cosa ti metti a scrivere?

Per la prima volta in vita mia sto scrivendo direttamente al computer (cosa che odio), invece dello scrivere a matita nei quadernetti di musica. È un esperimento dettato dall’angoscia, si tratta di un romanzo, apparentemente normale, ma dove cerco di esorcizzare nella narrazione l’ansia che questa guerra sta creando in me. È diviso per capitoli, ma dentro questi capitoli si agitano varie voci narranti, dentro una narrazione continua. Non so dove sto andando, ma il libro lentamente prende forma. Si chiama, ecco un’immagine: Il Nido della Notte Arcipelago. Ma tornerò a scrivere nei quadernetti di musica, a matita. Più vicino al disegno, assecondando un ritmo lento. Un movimento.

Ti ringrazio per questo dialogo, comprese le domande pungenti, sempre necessarie.

In fondo nei miei libri cerco di sanare attraverso la parola – dentro di me – le dicotomie occidentali. Detronizzare la ragione raziocinante, non attraverso un colpo di stato dell’inconscio, ma con la pratica non violenta dell’immaginazione, dell’emotività, della ricerca di un sentire aurorale. Lontano da stereotipi, orientalismi di maniera, falsificazioni del sacro (attraverso l’erudizione), tecnicizzazione di pratiche e riti orientali. Questo abitando il linguaggio, la parola, come una lucertolina, la sua tana, in un prato abbagliato dal sole. Dalla luce che è una forma, la più pura, di amore.

Per giungere, come diceva Etti Hillesum, laddove:

«Tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita».

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