19 Aprile 2019

Ecco perché non sono mai riuscito ad amare Vladimir Nabokov, il romanziere della mera voluttà estetica, che non poteva capire Dostoevskij

Disprezzo coloro che, essendo nessuno, mai raggiunto vette di potente e incontestabile bravura, mai entrati in gioco, si permettono di scoccare giudizi sferzanti su coloro che al contrario si sono rivelati qualcuno e non chiunque. E penso a quello che sto per scrivere, e rido di me, prefigurando il meritato boato di una risata cosmica. Sussurro, lo dico piano e sotto voce.

Confido se non altro nella comprensione del movente del mio attacco… la mia delusione.

Lo ammetto a malincuore. Sono afflitto da un atavico, plateale e, in parte, ingiusto pregiudizio nei confronti di Vladimir Nabokov. Uno scrittore dall’innegabile grandezza che fatico ad amare davvero. Malgrado la migliore delle disposizioni.

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Qua e là vengo rapito da frammenti, immagini vorticose e mirabili gioielli di prosa. Ecco tutto. Frammenti e nulla più, per me. Dopo decenni, più maturo e sgamato, provo a rileggerlo. Il risultato non cambia. Non dimentico l’incontestabile bellezza de La difesa di Luzin, Il dono, Invito a una decapitazione – eppure Un mondo sinistro e altro, non mi seducono mai del tutto, come a suo tempo, inconsciamente, fece Lolita. Suggestione della mia tenera età di allora? Fu una sincope alle vene gettata in faccia come un pugno tirato a bruciapelo. Potenza stilistica unità a frasi micidiali: “e grazie alla sua biancheria pro forma sembrava che nulla potesse impedire al mio pollice muscoloso di raggiungere il caldo alveo del suo inguine – proprio come si può carezzare e solleticare un bimbo che ride… e per poco la mia bocca gemente non raggiunse quel collo nudo, signori della giuria, mentre spremevo contro la sua natica sinistra l’ultimo spasimo dell’estasi più lunga che uomo o mostro avessero mai sperimentato”.

Talvolta ho tiepidamente apprezzato – immagino già la levata di scudi, e gli occhi socchiusi a lama di rasoio – i suoi saggi sulla letteratura. Degni di nota quelli sulla letteratura russa, nonostante alcune sue discutibili tesi e benché, non di rado, anche questi non manchino di annoiarmi. Perfino il lungo e bel saggio Gogol’. Non sono mai saltato sulla sedia. Brutto segno. Mai un azzardo, un grido, una sorpresa. Non una gioia o una sofferenza, un tono davvero personali, una nota extra letteraria, in questo universo tutto letterario, che non dà mai l’impressione di superare la parola, anche quando accorda il suo favore all’irrazionale… ridotto, dopo tutto, a mera fiction letteraria. La mia prima delusione.

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“Non un grande scrittore, e un mediocre”, scrive Nabokov su Dostoevskij, con una lettura sprezzante e dissacrante, in Lectures on Russian Literature (una silloge di scritti composti come dispense universitarie per i suoi corsi, privi di un’autentica conversione letteraria), dove rimprovera ai personaggi dello scrittore russo la mancanza di “evoluzione”, come accade in quelli che lui al contrario considera i “veri romanzi”: “But Dostoevski’s world, despite topical allusions, is the gray world of mental illness where nothing can change”. Tanta disinvolta cecità mi fa tornare in mente la lettura analoga, altrettanto miope, di A. Huxley in Do what you will che, nel 1929, definisce le vicissitudini dello scrittore russo e quelle di Baudelaire: “idiotic tragedies”! Così, una voce giusta, destinata a una grande solitudine, un tempo tragica e filosoficamente onorevole, sembra diventare solo un fatto medico o una bizzarria letteraria. La mia seconda delusione.

Ma esiste un’altra lettura, opposta: “considero I Demoni il più grande libro dell’Ottocento. Anche il più grande romanzo in assoluto. E Dostoevskij è il più grande scrittore di tutti i tempi, il più profondo… In ogni nostro atto c’è un retroscena, e proprio questo è psicologicamente interessante, noi non conosciamo che la superficie, il lato superficiale. Si accede a ciò che è detto, ma l’importante è ciò che non è detto, ciò che è implicito, il segreto di un atteggiamento o di una frase. Per questo tutti i nostri giudizi sugli altri, ma anche quelli su noi stessi, sono parzialmente sbagliati. Il lato meschino è camuffato, ma il lato meschino è profondo, e direi quasi che è quanto di più profondo ci sia negli esseri umani, e di più inaccessibile per noi. È la ragione per cui i romanzi sono un modo di camuffare, di esporsi senza dichiararsi. I grandi scrittori sono proprio quelli che colgono il ‘retroscena’, soprattutto Dostoevskij. Lui rivela tutto ciò che è profondo e apparentemente meschino; ma è più che meschino: è tragico; questi sono i veri psicologi”. Cioran

Nabokov, come molti altri scrittori, non ha voluto avere orecchio per il ruggito di Dostoevskij.

Tutto il limite del saggio su Dostoevskij di Nabokov, in fondo, è condensato in queste poche righe: “when dealing with a work of art we must always bare in mind that art is a divine game… it’s a game because it remains art only as long as we are allowed to remember that, after all, it is all make-believe… that we are, as readers and spectators, in an elaborate and enchanting game”. Quello che conta, per Nabokov: “the feeling of pleasure and satisfaction and spiritual vibration… the delight does not derive from the fact that we are glad to see people perish, but merely our enjoyment of Shakespeare’s overwhelming genius”. L’arte e la grande letteratura sono solo un gioco, mera voluttà estetica, per il nostro piacere e la nostra vibrazione spirituale, intellettuale! E i lettori… semplici spettatori!  La mia terza delusione.

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Ecco l’“irrazionale” di Nabokov. Mera “estetica letteraria”, come la chiamava Landolfi. Letteratura come pura fiction. Una finzione euristica. Un fottuto “come se”. Dove la vita è trasfigurata in quell’ambiguo territorio immateriale in cui la forma letteraria è messa al primo posto, rispetto all’attualità e alla vita vissuta in sé. In cui si riesce a sopravvivere e a descrivere – trasfigurare – la vita con un particolare stile letterario. Con l’esasperante insistenza nel preziosismo simbolista, e il rimando continuo a sofisticate allusioni, con cui infarcire le proprie creazioni.

The last nail on the coffin, la mia ultima delusione.

Mi ricorda quella lucida verità, scritta da Cioran, su l’“avventuriero immobile” di Buenos Aires: “Borges – un facitore, un Paulhan riuscito. Tutti i suoi punti di partenza sono letterari; peggio ancora: libreschi. Era fatto per avere successo in Francia, dove si ama sopra ogni cosa l’espediente, il trucco, il falso. Borges o l’astuzia universale”. A questa breve ma dissacrante verità, apparsa nel Taccuino di Talamanca, composto nell’estate del 1966, durante un breve soggiorno a Ibiza, dieci anni dopo succederà un altro ritratto, sostanzialmente positivo – uno splendido esercizio di ammirazione, intitolato semplicemente Borges… una lettera di sole quattro pagine.

Sono veri di un’esattezza micidiale entrambi i ritratti. È la simultanea coincidenza degli opposti.

Lo stesso vale per il grande Nabokov.

Luca Orlandini

*In copertina: Vladimir Nabokov nel 1959, a Parigi,  fotografato da Marc Riboud

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