“L’invisibile non è da qualche parte lontano da noi: ci circonda”. L’arte come obbedienza
Sacro
Isabella Bignozzi
In una delle sue frasi rapinose e senza appello, Abelardo Castillo ha detto una verità eloquente quanto una spada – ovvero: che sanguina – cioè che “Horacio Quiroga è stato, per l’America Latina, l’inventore del racconto”. La frase – usata come ‘quarta’ per l’edizione dei Cuentos escogidos di Quiroga pubblicata da Alfaguara nel 2014 – richiede indagine sommaria.
Horacio Quiroga è stato un pioniere – è stato uno che ha portato il racconto in luoghi fino ad allora inauditi. Prima ha scelto di praticare l’arte del racconto come personale compito, con la stessa marziale dedizione con cui costruiva canoe; con la stessa, canonica, allucinata coerenza con cui un maestro ripercorre gli stessi gesti, ogni giorno, fino ad alienarsi da sé, allenandosi al nulla. Poi, ha dato al racconto magistero di enigma. Ogni addestramento è compiuto per dismetterlo, per deporre corona e corazza.
Ma qui sto andando per ortiche.
Diciamo così. Horacio Quiroga, nato a Salto, Uruguay, l’ultimo giorno del 1878, amante dei simbolisti francesi e di Nietzsche – da qui il “Consistorio del Gay Saber”, cenacolo letterario nato a Montevideo –, barba folta, vestiti giusti, un dandy, insomma, preferì le giungle di Misiones, nell’alto Paraná. Un colto cittadino, che aveva pubblicato il diario del suo viaggio, canonico, a Parigi, volta le spalle alla metropoli per fuggire tra i penetrali della selva. Quiroga porta la letteratura aldilà.
Prima di Abelardo Castillo, è stato Julio Cortázar ad eleggere Quiroga a proprio totem, a piccola, violenta divinità domestica. Diceva che Quiroga scriveva tensamente, che descriveva intensamente. Gli aggettivi, forse fuorvianti, raddoppiano l’intensità, senza transizioni, senza trattative. Tensione e passione. Amore e morte. Quiroga non va nella selva perché la selva è un buon ‘tema’ di cui scrivere, con l’ansia apatica del documentarista. Quiroga è uno scrittore: nella giungla argentina scopre l’esatta porzione – più breve, quasi edenica, direi – della propria giungla interiore.
C’è un altro fatto, però, che mi obbliga a ripetermi. Quiroga porta la letteratura aldilà. Cioè – ripeto – Quiroga è uno che sconfina. Sconfina perfino nella sconfitta. La sua barba era leggendaria, il suo carattere – brusco – pure.
Il paesaggio, come dire, però, non basta. Julio Cortázar, letteralmente – perché la letteratura, a volte, ha affinità con l’avventura scientifica – non esisterebbe senza Quiroga. Quiroga, nell’arte del racconto, ha scoperto la meccanica quantistica. Alcuni racconti di Bestiario o di Tanto amore per Glenda, faccio per dire, non potrebbero essere scritti se prima non fossero stati scritti Il macchinista, Il puritano, La sua assenza, racconti estremi, che Quiroga assembla nella sua ultima raccolta, Aldilà, appunto (ora edita da De Piante, 2023). Questo è l’incipit de La sua assenza:
“Con lo stesso passo con cui fino a un momento fa stavo andando in ufficio, con gli stessi vestiti e le stesse idee, cambio bruscamente rotta e vado a sposarmi. Sono le tre del pomeriggio di un giorno d’estate. A quest’ora, sotto il sole infuocato, sorprenderò la mia fidanzata e la sposerò. Come spiegare questa inaspettata e terribile urgenza?… Quale impulso improvviso mi porta con questo passo, sotto il sole del 24 febbraio 1921, a sposare fatalmente e urgentemente una donna che ha mai sentito dalle mie labbra la più remota proposta di matrimonio?”
Quiroga dirotta continuamente la logica del racconto, il suo senso, smobilita l’arte narrativa fino al sortilegio, al luogo d’incanto. In questo racconto il crescendo ha a che fare con gli aggettivi che Cortázar usa per recintare il genio di Quiroga. Tensione, intensità. Nei suoi racconti, Quiroga parla del cinema e della giungla, del crimine e del frainteso: ciò che ha a cuore, però, è la massa psichica, il disguido della mente, i tentacoli della follia.
Voglio dire. Horacio Quiroga non è un ingenuo. È uno scrittore superconsapevole, che conosce i propri padri, li elenca – “Poe, Maupassant, Kipling, Čechov” – e che si permette di superarli; meglio: di percorrere altre strade. Quando arriva tra le mani di Quiroga, il racconto, in quanto genere, ha già un lignaggio, una sequela, una geometria euclidea. Lui lo porta da un’altra parte. Aldilà. Anche riguardo alla tecnica di scrittura Quiroga sposta l’oriente del racconto: le stesse mani che foggiano un paragrafo sanno levigare la pancia di una canoa. Non è casuale. Scrivere come si addomestica una piccola bestia della selva.
Spesso intorno all’opera di Quiroga ricorrono due parole. La prima è perfezione, per via del Manuale del perfetto scrittore di racconti che Quiroga pubblica nel 1925 sulla rivista “El Hogar”. Quiroga è un perfezionista. Cioè, è il contrario di chi insegue ordine, pulizia, decoro. Quiroga è un perfezionista nello sprofondare nei propri abissi. Un’anima, a volte, balbetta, e non possiamo che scriverla con il suo informe, fiammante balbettio.
L’altra parola è inquietudine. Perfezionista dell’inquietudine. Abelardo Castillo, che a Horacio Quiroga ha dedicato un saggio esemplare, ora raccolto in Ensayos reunidos (Seix Barral, 2023), scrive che i racconti di Quiroga sono “infernali”. Scrive che “nei suoi racconti migliori resiste ancora come uno degli scrittori più grandi in qualsiasi lingua”, ma che è proprio quella sorta di afasia, di irresolutezza, di sfasatura dall’ordine costituito a evitargli di essere semplicemente un avatar sudamericano de Edgar Poe. È l’aldilà di Quiroga – aldilà dalle istituzioni del successo, aldilà, perfino, dalle proprie concezioni, dalla propria idea di “racconto perfetto” – a fare di Quiroga uno scrittore inafferrabile, ancora pericoloso.
In Aldilà – che non ha forzosamente l’accezione de “l’aldilà”: è come se fossimo nell’aldilà dell’al di qua – alcuni racconti hanno la nitidezza di un cammeo. La signorina leonessa, ad esempio, è un racconto levigato come pietra preziosa, che giunge nei precordi del tabù. Si racconta, appunto, di una “giovane leonessa” che impara a esibirsi nei teatri d’opera, cantando, davanti a un pubblico di umani, con grazia divina:
“Adesso è impossibile farsi un’idea esatta del fascino, dell’eleganza e della grazia di una giovane leonessa che, vestita come una figlia degli uomini, debutta in un salotto arrossita di timidezza… la più intima delicatezza del cuore umano non aveva mai trovato un simile organo di espressione vocale”.
Naturalmente, all’idillio segue il disastro e la leonessa ritroverà la propria indole selvaggia, indomita. La signorina leonessa – un racconto dalle ascendenze kafkiane, di un Kafka cresciuto in Amazzonia – ha diretti legami con Juan Darién, uno dei racconti più noti di Quiroga, la historia de un tigre que se crió y educó entre los hombres.
Aldilà, l’ultima raccolta pubblicata da Quiroga – esce a Buenos Aires nel 1935 –, si pone dunque come l’atto finale di uno scrittore oscuro e infinito: in quei testi Quiroga si rilegge, si rifà, emenda i tenui lucori della purezza, fa scempio di sé. Si prepara, con enfasi, a morire.
Le mosche, per dire, racconto breve di spaventosa bellezza, è, nelle intenzioni dell’autore, una “replica a L’uomo morto”, un testo di molti anni prima, del 1920, assemblato in Los desterrados, raccolta edita nel ’26. In quel racconto, scritto in terza persona, si narra di un uomo che, mentre pulisce un bananeto, incidentalmente, cade; l’accetta gli ha spezzato la schiena; il tizio ha tempo di pensare, mentre muore, alla propria morte. “Morto! Ma è mai possibile? Non è questo uno dei tanti giorni in cui è uscito di casa all’alba con l’accetta in mano? E proprio lì, a quattro metri da lui, non c’è forse il suo cavallo, il suo baio, che annusa con parsimonia il filo spinato?” (cito dalla traduzione di Fausta Antonucci, in: Horacio Quiroga, Anaconda, Editori Riuniti, 1996). In Le mosche, Quiroga fa parlare l’uomo che sta morendo (“In quell’istante acquisisco la certezza capitale e definitiva che lì, raso terra, la mia vita sta aspettando i pochi, fulminei istanti necessari a spegnersi una volta per tutte. Questa è la verità”). Con un rapinoso gioco di visioni ed elusioni, un prestigio in cui la gabbia verbale si muta in belva, Quiroga ci fa vedere l’uomo che va morendo e “le mosche che hanno avuto, non so come, il sentore di una preda sicura nelle vicinanze”; poi vediamo le mosche che si assembrano sul corpo che spira, e l’anima di quell’uomo – “sento sorgere in me la vita stessa, la volubilità dell’odore della terra, la luce del sole, la fecondità dell’ora” – che si muta in mosca, e vola, tra le ronzanti consorelle. Il gioco è magnetico: Quiroga non racconta semplicemente la morte, ma la vita che nasce dalla morte, nella sua atroce ciclicità.
“Possiamo essere a Montevideo o a Buenos Aires, nella giungla, in una locomotiva, su una canoa o al cinema; il protagonista può essere inglese, belga, brasiliano: non c’è storia di Quiroga che non si focalizzi sulla morte. Il dilemma tra la transitorietà dell’uomo e la sua ricerca di un assoluto – l’amore, un luogo nel mondo –, la fascinazione e il terrore della morte, sono i grandi temi di Quiroga”.
Abelardo Castillo
Anche Lev Tolstoj era ossessionato dalla morte, fino a farne il tema centrale dei suoi racconti. La morte di Ivan Il’ič e Tre morti, però, hanno la risoluta precisione dei testi ‘perfetti’. Tolstoj ci mostra il cuore – non i polmoni. Quiroga è perfetto, all’opposto, quando lascia le imperfezioni: rompe con la consuetudine narrativa, e noi vediamo, dietro il paravento del racconto, il corpo decomposto, la putrescenza, le uova dei vermi, ma perfino le anime ingiudicate, il loro ingiudicabile pellegrinaggio. Il respiro. I polmoni.
A dirla secondo i canoni narrativi – è ancora Castillo – “Quiroga scrive la parola deserto, e noi leggiamo selva: popoliamo quella parola di paludi e di araucarie. Scrive laconicamente rovine e noi ricostruiamo le misiones dei Gesuiti, e le abbattiamo nella nostra mente perché risaltino quelle rovine. L’economia verbale di Quiroga non è poetica, bensì ontica. Le cose appaiono, si manifestano proprio là dove non le si nomina”. Mi sembra un’osservazione geniale: Quiroga non dice, accenna; non nomina, mostra. Sa che ciò che si nomina sparisce. I suoi racconti appartengono per diritto all’arte divinatoria.
Quiroga può parlare di morte perché era una creatura vitale. Da ragazzo praticava il ciclismo, amava le sfide sportive; nelle fotografie a San Ignacio risalta il suo corpo magro, scattante, muscoloso. È certamente più energico dei colleghi scrittori assisi su scrivanie di città. Amava le giovani donne, le ragazze: María Elena Bravo, l’ultima fiamma, era compagna di scuola della figlia di Quiroga, Eglé. Una vita voluttuosamente dettata dalla morte – il patrigno che si suicida sparandosi in bocca; lui che uccide, per errore, l’amico Ferdinando Ferrando mentre prepara il revolver che gli sarebbe servito per andare a un duello; la prima moglie, Ana María Cires, che si ammazza a venticinque anni, sfiancata dalla vita nella giungla – recluta Quiroga tra i segnati.
Tutto, in Quiroga, converge verso la morte – che per lo scrittore, paradosso di tenebra, è il dono della chiarità, della visione. Ricoverato nei primi giorni del 1937 a Buenos Aires, costretto a uscire dalla sua amataodiata selva, lo scrittore fa amicizia con un ‘mostro’, Vicente Batistessa, afflitto da grave deformità, abbandonato nei sotterranei dell’ospedale. Fu il suo ultimo confidente. Quiroga si ammazza il 19 febbraio del ’37, col cianuro. In un articolo, La tragedia de Horacio Quiroga, così Elías Castelnuovo racconta gli ultimi istanti dell’amico:
“Voleva tornare a Misiones, intraprese il viaggio senza ritorno nelle regioni infernali. Acquistò una dose di cianuro e verso l’alba, nella solitudine della sua stanza, senza testimoni, si è avvelenato. A forza di sperimentare, in vita, l’orrore e la morte, una strana gioia attraversò quell’uomo al momento del trapasso. Morì con il sorriso sul viso… il suo volto bianco, solido, denotava una tranquillità assoluta. Lo osservai così, disteso, magro, duro, con lo stesso rispetto che mi ispirava in vita. Con la stessa serietà. Con la stessa distanza”.
Distanza è una parola importante per chi si approssima alla letteratura, a una certa umanità. Secondo John A. Crow, autore di uno studio, La locura de Horacio Quiroga, pubblicato su “Revista Iberoamericana”, Aldilà, “l’ultima raccolta di racconti, che denota con più forza la propensione verso l’anormale, la follia, la morte”, prefigura la fine dello scrittore, è il suo passepartout per l’altro mondo.
Borges non sopportava Quiroga. Diceva che era un imitatore di Kipling, uno scrittore di racconti di belve per bambini. Nel suo pantheon, fitto di Stevenson e di H.G. Wells, di Kafka e di Walt Whitman, di Thomas Browne e di Valéry, era impossibile contemplare Quiroga. Borges sapeva praticare la maldicenza: Quiroga, al di là della ‘quinta’, eguale e opposta – la giungla indiana vs. la selva latinoamericana – non ha nulla in comune con Kipling. A Kipling interessa raccontare una storia, Quiroga vuole distillare un’anima. Da un lato, ci sorprende la perentorietà di JLB: come lui, Quiroga è colto e controllato, scrive intorno a déjà vu e fraintesi cronologici, impone – senza mai nominarli – i principi del labirinto e dello specchio, solletica gli spettri (leggete Aldilà, il racconto che dà il titolo alla raccolta). Certo, in Borges la belva feroce – la tigre, ad esempio – è sempre un simbolo, una cifra di ceramica, in Quiroga, anche quando si veste con abiti umani, il selvaggio fa male, la senti alle spalle. La scrittura di Quiroga, poi, non è cartesiana e men che mai enciclopedica: avverti torrioni di terra, odore di polvere nelle narici, il fruscio del fiume con teoria di colibrì e coccodrillo tra le canne. Eppure, Borges ha ragione. Capisce, cioè, che Quiroga porta la letteratura in luoghi che non devono essere colonizzati. Una volta che con le parole riusciremo a circoscrivere la morte, non sapremo più morire: e bisogna morire perché la letteratura esista. In Quiroga, voglio dire, la verità del testo è pari alla verità del mondo, lo stile – involuto, a volte, nell’introibo del delirio; cristallino, altre volte, come una lama schietta – è l’uomo. Questo equilibrio senza pori è il principio della fine, il punto di non ritorno. Dopo Quiroga, il racconto non potrà che essere un’arte: c’è chi predilige la cultura – Borges – chi la tecnica – Cortázar – chi il denso afrore della vita – Castillo. Tuttavia, resta pur sempre un’arte. Quiroga va ucciso perché porta il lettore aldilà del fiume: non si accontenta di dipingere un paesaggio, di mostrargli dov’è l’imbarco, di fargli fare una gita tra i fermenti feroci. Di fargli desiderare di andare dall’altra parte. No. Quiroga lo porta dall’altra parte. Poi se ne va. E al lettore non resta che impazzire: come farà, ora, a tornare in sé, ad accontentarsi della letteratura?
Folgorata dalla morte di Quiroga, Alfonsina Storni improvvisò una poesia:
“Morire come te, Horacio, ragionevolmente,
come accade nei tuoi racconti, non è brutto;
un lampo nel giusto tempo, e la festa è finita…
Diranno così, di là.
Non si vive impuniti nella selva
al cospetto del Paraná.
Sia onore alla tua mano ferma, grande Horacio…
Così diranno, al di là”.
Per uccidersi, poco dopo Quiroga, Alfonsina Storni preferì il mare.