09 Settembre 2019

Monte Sant’Angelo, dove il cherubino è un bimbo con la spada scintillante. Gita in un luogo fuori dal tempo, un’utopia, tra boschi da “Signore degli Anelli” e desideri di rinuncia

Questo paese si raggiunge attraverso due strade. Una è più veloce e diretta, l’altra è più lenta e attraversa la suggestiva foresta umbra. Prendete quest’ultima e percorrete i chilometri di curve che, sempre all’ombra di alberi nodosi e antichi, in un paesaggio che sembra letteralmente scaturito dalle pagine del Signore degli Anelli (o di qualsiasi altra saga medievale). Non a caso, perché questa zona della Puglia è ancora considerata una terra di magia, punteggiata di miracoli e percorsa dalle note di canzoni popolari che rievocano le leggende della corte federiciana. Una terra in cui il sacro e il profano si mischiano all’ombra dei campanili, camminando mano nella mano in processione; una terra di santuari, ormai più popolati di turisti che di pellegrini.

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Monte Sant’Angelo in una fotografie di Daoine Sidhe. Le altre immagini sono scattate dall’autrice, Ilaria Cerioli

Monte Sant’Angelo, arroccato a 800 metri, domina dalla sua sommità l’orizzonte. Da una parte si staglia il Tavoliere e la Foresta umbra, dall’altra il celeste brillante del mare aperto. La sensazione predominate è quindi quella di trovarsi in cielo, intento a volteggiare nell’aria calda dell’estate. Quando vi si arriva quel che colpisce immediatamente è la presenza di antiche architetture in pietra, massicce e arcaiche, megalitiche. Case altissime si alzano nella parte vecchia di Monte, ma pure nella zona nuova; più defilate, quasi sperdute tra i muri intonacati che nascondono più umili e moderni mattoni rossi, eppure orgogliosamente sull’attenti. Inutile dire che non si può non provare una grandissima invidia per coloro che possono godere, dai balconcini in ferro battuto che si vedono lassù, del panorama.

Monte Sant’Angelo non è solo una bella cartolina. Monte Sant’Angelo è per esempio un centro importante per i culti Micaelici, ben inserito all’interno di un percorso sacro che collega i santuari dedicati all’arcangelo Michele. Dal celeberrimo Mont Saint-Michel normanno giù giù, fino al cuore pulsante del Mediterraneo. In un documento datato tra VII- IX secolo, il Liber de apparitione Sancti Michaelis in Monte Gargano, si narra ad esempio della sua miracolosa apparizione al vescovo Maiorano. In un altro anonimo del X-XI secolo, la Vita Sancti Laurentii episcopi Sipontini, dedicato alla narrazione della vita di San Lorenzo, vescovo di Siponto, si riporta invece l’epoca delle prime apparizioni. C’è un salto temporale tra le date di questi primi testi e le precoci notizie di miracoli, le quale paiono attestate a partire dal V secolo d.C. Che sia una dimostrazione del fatto che la grotta era nota già ai primi cristiani, agli albori del Tardo Antico? Oggi Monte Sant’Angelo e la sua grotta vantano numerosi visitatori, provenienti da tutte le parti del mondo. Alcuni arrivano in auto, altri in pullman. Qualcuno a piedi, riscoprendo gli antichi percorsi della via Langobardorum (o via Francesca) e della via Franchigena. Proprio quest’ultima era, nella prima metà del IX secolo, la strada più frequentemente scelta dai devoti, che vi giungevano dai territori longobardi e da quelli posti al di là delle Alpi (J.M. Martin, Le culte de Saint Michel en Italie méridionale daprés les actes de la pratique. VI-XII siècles, in Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo, a cura di C. Carletti e G. Otranto, Bari, 1994, p. 378). Non è quindi un caso che ancora oggi una spartana “Casa del pellegrino” sia posta a guardia dell’ingresso del paese, e che nelle botteghe artigiane si possa acquistare oggetti e simboli di questo turismo spirituale.

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Una tradizione secolare, questa, tanto che in Puglia giunsero San Tommaso d’Aquino, Santa Caterina da Siena e San Francesco d’Assisi. Anche per questo Monte Sant’Angelo è entrato a fare parte, il 25 giugno 2011, del Patrimonio culturale mondiale, tutelato dall’UNESCO. Nel gennaio 2014 è giunto poi il riconoscimento della National Geographic Society, che ha classificato la grotta di San Michele Arcangelo all’ottavo posto nella speciale classifica delle grotte più belle del mondo. Che tutto ciò sia una conferma della predilezione dell’arcangelo Michele all’apparizione nelle grotte, meglio se splendide come quella di Monte Sant’Angelo? Che Michelino ami il buio misterioso degli anfratti è testimoniato dalla tradizione agiografica, ricchissima di spazi bui e notturni, ricchi di acque e di pietre scintillanti. Tutti elementi che, a ben pensarci, rappresentano una rilettura in chiave cristiana di culti assai più antichi (S. Laddomada, Frequentazioni di grotte naturali nell’antichità, in Riflessioni Umanesimo della pietra, Martina Franca, 1983, p. 83- 86).

Non è neppure casuale che sia proprio l’arcangelo Michele, e non il leggiadro Raffaele o il rassicurante Gabriele, a scendere tra i comuni mortali: nei secoli bui, quando il cristianesimo si confrontava ancora con culti pagani, ma soprattutto con l’arianesimo dei barbari, il cherubino che doveva far sentire ai fedeli il battito d’ali di Dio, riecheggiante nella grotta garganica, non poteva infatti essere altri che un angelo guerriero; un milite di Dio abituato a lottare con Satana, in grado di simboleggiare la concreta e sanguinosa vittoria del Dio dei cristiani sui falsi Dei pagani. Guardiamolo bene questo cherubino.

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Nonostante venga definito bonariamente col nomignolo di Michelino, l’arcangelo non si propone affatto con l’immagine di un santo umile e pacifico. Al punto che, nella solenne processione del 29 settembre, un bambino lo impersona sfilando vestito con piccole ali e grande spada scintillante. Michele è del resto una divinità importante, tanto da essere riconosciuta anche nella cultura araba (Mīkāʾīl in arabo: ميخائيل‎, o Mīkīl ﻣﻴﻜﻴﻞ‎ è infatti citato nel Corano come “colui che non ride mai”, di pari rango rispetto a Jibrīl (Gabriele). Dunque, altro che piccolo e paffuto angioletto michelangiolesco; qui siamo alle prese con un pezzo da novanta della tradizione cristiana.

Mentre scendo le scale, procedendo verso il cuore del santuario, mi diverto a leggere le numerose epigrafi impresse nella pietra (per le iscrizioni si veda San Michele e il suo santuario. Via sacra Langobardorum. Ed. Bastogi Foggia 1997). Alcune sono mani o impronte di scarpe, altre sono simboli universali e globalizzati come il Tao, altri ancora sono i nomi (qualcuno in alfabeto runico, tanti in latino, in lingua germanica e longobarda). Inoltrandosi nel reticolo di strade che dal santuario portano al quartiere medievale si incontrano poi diverse testimonianze architettoniche “strane”, che raccontano dell’inesausto processo di passaggio di potere: dalle dinastie longobarde al regno normanno, dagli svevi agli angioini e agli aragonesi. In una successione di genti che ha lasciato tracce evidenti del passaggio, non solo nella tradizione culturale ma anche in quella culinaria. Se capitelli, chiese e castello definiscono le tappe di questa lunga storia di dominazione, il quartiere Juno, con le abitazioni in grotta, racconta invece la vita di chi passava con indifferenza da un padrone a un altro. Per loro non c’era alcun problema. Del resto, come ci insegna il Manzoni, per gli umili una lingua straniera significa sempre sopruso.

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Rimango colpita dal fatto che anche i turisti, di solito chiassosi e ingombranti, con zaini e macchine fotografiche, bambini e cani al guinzaglio, aste per i selfie e telefonini in mano, sembrano condizionati dal silenzio, che è la vera particolarità del luogo. Nessuno osa alzare la voce, chiamare un famigliare o chiedere insistentemente un rinfrescante gelato; pure i cani paiono temere di disturbare troppo con i loro guaiti. Su tutti e tutto la presenza muta e severa delle suore clarisse, con i loro volti tutti quadrati e terreni incorniciati dal velo. Così, mentre a pochi chilometri si brinda in spiaggia negli happy hours, a Monte Sant’Angelo si riflette sul valore della preghiera, dell’umiltà e della rinuncia. Sto per partire e tornare verso il mare, ma negli occhi rimangono gli stralci di Paradiso di questa terra. Scampoli di cielo appaiono e scompaiono magicamente, tra tetti e terrazzini, schiaffeggiando con il violento azzurro del palmo il mio viso.

Sto percorrendo gli ultimi metri e mi sento stanca. Del resto questo paese è faticoso da visitare, con la sua planimetria sfalsata sembra di percorrere le strade del castello dei destini incrociati. Il suo centro storico è infatti un alveare di botteghe artigiane nascoste, di laboratori e abitazioni private; un vero labirinto, punteggiato da piazze assolate, odore di piscio di cane e murales con l’immagine di Falcone e Borsellino. No, Monte Sant’Angelo non è un luogo facile da visitare; e nemmeno da abitare. È un paese di montagna, con gente dura e abituata al capriccio delle stagioni, alla carenza di acqua e al destino della migrazione. E in fondo tale e quale al passato rimane, nonostante gli impianti moderni finalmente costruiti, che permettono una qualità della vita dignitosa eppure come estranea alla realtà di questo mondo.

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Monte Sant’Angelo è oggi una sede universitaria, con tanto di campi sportivi, di scuole, di teatro e di auditorium. Con tutto questo armamentario di edifici e di contemporaneità ci si illude di contrastare le forze profonde, le stesse che da sempre trascinano via lontano centinaia, migliaia, di compaesano. Tanti cognomi di qui si ritrovano in Sud America, tanti altri nelle grandi città del Settentrione. Probabilmente vi rimarranno, e altri se ne aggiungeranno. Anche per questo è significativa una targa che scorgo su di un muro scrostato. Vi leggo: Sì come sa di sale lo pane altrui. Proprio il pane a forma di ruota è una delle specialità della zona insieme alle orecchiette e alle cartellate, o alle ostie con miele e mandorle. I dolci grezzi, simili a quelli della tradizione araba, ricordano che siamo pure sempre frutto di una contaminazione culturale. Monte Sant’Angelo è un’utopia, una scommessa. Una prova di resistenza verso il futuro perché ai freddi inverni di Monte ora i giovani preferiscono il clima mite della pianura e la confusione al silenzio. o un lavoro alla disoccupazione. Oggi, infatti, come un tempo le nuove generazioni progressivamente lasciano la loro terra, i loro affetti. Non sono più uomini con valigie di cartone, contadini o gente povera, ma ragazzi e ragazze che, nonostante lauree e tutoli di studio, sono costretti a emigrare in cerca di migliori opportunità.

Ilaria Cerioli

*In copertina: Raffaello, “San Michele sconfigge Satana”, 1518

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