30 Maggio 2018

“Ho tradito il mio comandante, Magellano, nel più abietto dei modi”: ambizione, tracotanza, pietà e tradimento nell’ultimo romanzo di Gianluca Barbera, il nuovo Salgàri

Ferdinando Magellano, secondo quanto si apprende dalle fonti ufficiali, entrò in possesso di una misteriosa carta geografica, di mappe, diari e brogliacci ipotizzando un passaggio verso l’Oceano Pacifico al confine, probabilmente, tra Argentina e Uruguay, potendosi insinuare in un estuario a rientranza. Si convinse di trovare un viatico per l’Asia più breve di quello da percorrere intorno all’Africa. Una scoperta del genere sarebbe tornata utile alla Spagna, che era stata esclusa dalla corsa per le pregiate spezie del lontano Oriente dopo il Trattato di Tordesillas, che concedeva al Portogallo il controllo di più isole. La nuova via navale percorsa da Magellano avrebbe permesso di evitare, appunto, da ponente, l’aggiramento dell’Africa, i cui porti occidentali e meridionali erano tutti in mano al Portogallo. La scoperta di terre da annettere al già cospicuo impero del re di Spagna Carlo I, sarebbe stata fondamentale per acquisire prestigio. Il re mise a disposizione di Magellano cinque navi per trovare le isole passando per il Mar del Sur percorribile, a detta di Magellano stesso, da grossi bastimenti, così da dimostrare la possibilità di compiere il giro della terra da occidente a oriente verso le Indie. Il proposito era di tornare carico di mercanzia aumentando le ricchezze di Sua Maestà annettendo innumerevoli ducati. È questa la premessa del bellissimo romanzo di Gianluca Barbera, imperniato sulla ricostruzione storica, nonché immaginaria, di un grande navigatore, spedizioniere ed esploratore: è a Magellano che si deve la constatazione della sfericità della terra. L’impresa epica, raccontata dall’italiano Antonio Pigafetta (vicentino che viaggiava per apprendere i costumi dei popoli, le lingue, le superstizioni), ha una seconda versione narrata dal personaggio chiave di Barbera: Juan Sebastián del Cano, che fece ritorno in patria a bordo di uno dei cinque velieri partiti da Siviglia nell’anno del Signore 1519, il 10 agosto, giorno di San Lorenzo.

Magellano (Castelvecchi, 2018) è il lungo racconto fornito da el Perro, il Cane (perché da ragazzo aveva contratto la rabbia dalla quale guarì miracolosamente), nocchiero della Trinidad, al fianco di Magellano per un anno e 7 mesi. Un finale scottante, quello che rivela Gianluca Barbera a partire dal prologo del romanzo: “Ho tradito il mio comandante e ammiraglio, Ferdinando Magellano, nel più abietto dei modi, anche se non fui il solo. E per questo tradimento, così abilmente e vilmente occultato, mi sono appropriato della gloria, degli onori e delle ricchezze che a lui solo, Ferdinando Magellano, sarebbero spettati per diritto terreno e divino”. Il romanzo è anche un’amara confessione taciuta per anni. Un’ammissione di colpa che induce Juan Sebastián del Cano a dire la verità in punto di morte, perché la memoria su Magellano non contenga menzogne e contraffazioni. In nome del Re l’impresa iniziò prevedendo di solcare il mare per ben due anni. Magellano era un uomo piccolo di statura, con le spalle larghe, gli occhi neri e incavati, “con l’aria di guardare il mondo da una certa altezza”. Aveva perso l’uso di una gamba in Marocco, durante uno scontro ad Azamor, dove riportò una grave ferita. Declassato e accusato del furto di dodici pecore, fu rinnegato dal Re del Portogallo. Il capitano, salito immediatamente alla ribalta dinanzi alla corona spagnola, esperto di tecniche di guerra, nell’uso della spada e dell’archibugio, della bussola, della vela, capace di entrare in contatto con indigeni di ogni tipo, di non lasciarsi intimorire da animali selvaggi, si riscattò. Magellano era tenacemente superbo, certo di superare ogni avversità a bordo di una nave: il caldo dei tropici, il gelo polare, le bufere, le bonacce, le guerre. Persuaso, soprattutto, di tornare a casa con ori e spezie per il Re di Spagna. Partì con un seguito di timonieri, scudieri, maggiordomi, cappellani, maestri di caccia, schiavi (tra cui il malese Enrique) a bordo della Trinidad, centotrenta tonnellate e sessanta piedi di lunghezza.

libro barberaBarbera si muove come un’onda lunga di mare, procedendo con maestria nel viaggio materiale e dell’anima di questi personaggi refrattari ad un’esistenza da trascorrere nella terraferma, esaltati mentre attorno alle navi, al largo, nuotavano i pescecani, i tonni, le orate. I componenti delle caracche mangiavano i filetti infilzati nel fuoco con le punte dei coltelli. Il viaggio proseguì con attriti acerrimi tra Magellano e i suoi uomini, alcuni pronti a tradire, e interagendo con le popolazioni autoctone, per lo più mansuete. In Brasile la cosa più sorprendente era lo scarso valore che davano alle donne: “per un’accetta o un coltello di grandi dimensioni potevi ottenere una o due delle loro figlie come schiave o da prendere in moglie”. Alcuni indigeni si cibavano di altri uomini e c’era chi si vantava di averne divorati più di trecento. Le isole da raggiungere apparivano un’agognata meta o una puerile illusione, come l’inesistente Atlantide celebrata da Platone. Tra mare, scogliere, silenzio, pioggia e grandine ad ostacolare l’avanzata dei velieri, l’impresa diventò sempre più impervia. Il viaggio registrò la svolta con l’arrivo in un altro mare, stavolta aperto. Era il Pacifico, una distesa sconfinata con onde placide. Ma non tutto andò come previsto. Sbarcato sulle rive sabbiose di alcune isole, l’equipaggio era pronto a sparare con archibugi e balestre, ad usare i verrettoni trapassando il nemico da parte a parte. Ma nelle Filippine l’accoglienza delle tribù sembrò trionfale e si consolidò con lo scambio di doni (cappelli, specchi, pettini ricambiati con pesce, fichi, vino), con il battesimo degli abitanti e la ritualità del Cristianesimo su ordine del capitano generale. “Ormai Magellano dovette sentirsi toccato dalla grazia del Signore, e questo eccesso di confidenza risultò tra le cause della sua rovina”. Chi non volle convertirsi ordinò l’attacco e il comandante cadde nell’isola di Mactan. Juan Sebastián del Cano corse verso i battelli invece di soccorrere il suo capitano. Fu un secondo tradimento, dopo il primo con l’ammutinamento al fianco di chi cercava di soppiantare l’autorità di Magellano. “Mentre correvo trovai la forza di voltarmi un’ultima volta: fu allora che vidi Magellano incalzato da ogni parte e d’un tratto un terciado, che è una specie di scimitarra, calargli addosso e colpirlo di netto alla gamba sinistra; lo vidi cadere in avanti con il volto nell’acqua. E subito gli furono addosso con lance di ferro e di canna e con decine di terciadi finché l’acqua si tinse di rosso”.

Il viaggio si concluse il 6 settembre 1522, quando il Victoria, sola nave superstite, rientrò nel porto di partenza dopo aver completato la prima circumnavigazione del globo in 2 anni, 11 mesi e 17 giorni. A bordo della piccola nave che imbarcava acqua ed aveva una velatura di fortuna, vi erano soltanto 18 uomini dei 234 partiti, tra marinai e soldati. Juan Sebastián del Cano tornò in patria e acquisì i meriti della circumnavigazione. I fantasmi lo perseguitarono di giorno e di notte, dimostrando che il bene e il male sono una cosa sola, se si vuole. La differenza sta nella viltà di chi riferisce, o nella trasparenza di chi tende al perdono di Dio, ammettendo la malefatta. Il narratore propende per la seconda versione.

*

Tra i modelli di Gianluca Barbera ci sono stati Borges, Musil, Gombrowicz, Pasolini. Ama la filosofia, ma con Magellano ha aggiunto il mito, il senso dell’affabulazione. In un’intervista apparsa su Pangea il 15 novembre 2017, ha detto: “Sono tutto il contrario del dogmatico. Se scrivessimo tutti le stesse cose e alla stessa maniera sarebbe la fine. Leggo molta filosofia e saggistica scientifica e storica. Pochi romanzi. Per lo più mi annoiano. Nella letteratura cerco bellezza e intelligenza”.

Stavolta ha utilizzato una scrittura atemporale, che non si accende di un linguaggio calato nel secolo nel quale è ambientato il racconto, pur conoscendo usi, costumi, tecniche e tradizioni dell’epoca. Non cade nel tranello di presenziare al rito della leggenda di Magellano secondo una parola semplificata perché sia più intelligibile. Il viaggio, in fondo, è la scoperta di sé, quindi si esplica, in uno scrittore, con la testimonianza esperienziale. Il mare risulta un’oasi ricostruita nella pienezza dello sguardo, nell’insidia di un contrattempo, nell’esattezza di un attimo concitato e poi superato. Questo romanzo non ha pause, né fasi di stanca. Si mantiene su un ritmo alto, non retrocede mai dal conseguimento di una conquista. Il genere d’avventura è nella metafora del viaggio, appunto, quindi nel desiderio di conoscenza, di attrazione per l’ignoto, per l’impresa eroica. Magellano diventa Ulisse, un’odissea omerica, ma può assomigliare anche al personaggio delle leggende di Artù. Il linguaggio di Gianluca Barbera aderisce al tentativo di sconvolgere il destino, di piegarlo. È l’originalità dell’intenzione di Magellano la virtù che suggella la narrazione, lo scopo di accedere ad un’isola del tesoro tra favola e realtà. La visione di un isolotto accecante, di una sorta di paradiso terrestre, come l’attacco di un drappello di assalitori, o la vista di una donna indigena nuda, dai capelli lunghissimi, di conchiglie, carcasse di lupi marini (le foche), molluschi, anatre, rinvigorisce la stupefazione della meta e il coraggio intrepido degli uomini di mare. La vita e la morte si situano in un doppiofondo, in una regione inesplorata, nello stesso pericolo di non tornare a casa. E’ nell’accettazione del caso che si affaccia la volontà romanzesca di Gianluca Barbera: l’indefinitezza del viaggio abbraccerà un sacrificio cruento o un’epopea fortunosa. Il corpo di Magellano non fu mai restituito e si seppe che l’arcipelago delle Molucche non gli procurò una buona sorte. Il corsaro a capo dei conquistadores, però, rimase per sempre, tramutato in un’icona della mitologia. E dunque vinse la sua battaglia ritagliandosi uno spazio nella storia.

Alessandro Moscè

 

Gruppo MAGOG