Io non ci ho mai creduto. Ma poco conta. Conto un cavolo, io. Haruki Murakami. Dico. Non mi ha mai convinto. Mi sembra uno che resta sulla soglia, che scrive come si scriverebbe a New York, ma in ideogrammi, nebbia nipponica su retorica statunitense. Tante ‘trovate’ narrative, spesso seducenti, certo, ma scarso acume nella vertigine. Non mi è piaciuto Norwegian Wood, non mi ha convinto Kafka sulla spiaggia, trovo atrocemente sopravvalutato 1Q84. Eppure, mi dicevo. Murakami è l’autore ideale nell’era della fiction: è superficiale ma sa sembrare profondo.
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Intendo. Preferisco tutt’altro, affari miei. Alcuni libri di Jun’ichiro Tanizaki mi sembrano narrativamente ineludibili; la raffinatezza di Kawabata non s’incrina; a Murakami Haruki preferii Ryu Murakami, ormai fuori moda nel parterre editoriale italico, troppo violento, e penso, su tutti, che Inoue Yasushi sia il giapponese più grande, riguardo alla narrativa contemporanea.
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Ad ogni modo, ho sempre messo in doveroso dubbio le mie banali certezze e ho sempre concesso una ‘seconda volta’ agli scrittori con aureo pedigree. Perciò, quando ho letto la trama de L’assassinio del Commendatore, l’ultimo libro di Murakami, in edicola con griffe Einaudi tra una settimana (così il trailer: “Un pittore che sa intuire i segreti dietro i volti delle persone che ritrae. Un quadro inquietante di un grande maestro ritrovato dopo decenni in un sottotetto. Una casa nel bosco circondata da strani vicini. E una campanella che inizia a suonare tra gli alberi nel cuore della notte…”), mi sono detto, che figata.
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Poi faccio un giro in Albione: lì i libri arrivano prima e i giornalisti, soprattutto, non sono pelosi, non devono lisciare il pelo al prossimo, ma, in cultura, fanno il contropelo a tutti. Sul Guardian è Johanna Thomas-Corr a firmare la corrosiva recensione. In sostanza, si dice, L’assassinio del Commendatore (che è il titolo di un quadro, alquanto inquieto, legato al Don Giovanni di Mozart), “è un omaggio di 674 pagine al romanzo più amato di Francis Scott Fitzgerald, un ‘Gatsby’ tentacolare e surreale nell’era dell’informazione”. Detto così, è pure bello. Murakami ha una ossessione per Il grande Gatsby – che ha tradotto in giapponese, nel 2006, e che continua a trapiantare nei suoi romanzi – che qui si svela, benché al posto del frac ci sia il kimono.
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Il problema, dice Johanna, sta nell’accumulo scriteriato di citazioni – da Alice in Wonderland ai racconti di Ueda Akinari – che costruiscono “un’epica estenuante, più coinvolgente del lecito, ma meno profonda di quanto l’autore desideri”. E fin qui, potrebbe anche andare, tutto ciò che è illecito ha una sua liceità estetica. Il troppo, però, purtroppo, stroppia. “Le cose strane non possono durare a lungo, dice Martin Amis. Ha ragione: ciò che ci confonde, qui, è il modo in cui Murakami ha sprecato tempo nel creare la figura di Menshiki, adagiandosi su una specie di confortevole zona autoriale. Un più puro omaggio a ‘Gastby’ sarebbe stato più convincente. Invece, a Murakami piace spezzare le storie nel momento cruciale. Sparge idee e riferimenti come semi al vento. Non sai quale svolta narrativa possa prendere la storia e sospetti che anche lui ne sia ignaro. Ma forse il più sgradevole aspetto de L’assassinio del Commendatore è il feticismo dell’autore per le tette. Le menziona 80 volte… In assenza di dettagli più solidi, questo minaccia di affermarsi come il tema dominante dell’ultimo romanzo di Murakami”.
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In UK conoscono il livore dello humour. Non perdonano nulla a nessuno – d’altronde, uno scrittore di fama non vuole che gli sia condonato alcunché. Murakami è un grande scrittore, con un grande pubblico, non si discute, non è un bluff – lo avessimo… Ma non è un genio. Attendo l’edizione italiana per confermare l’acido giudizio english. (d.b.)