20 Maggio 2020

Analisi chirurgica dell’opera della Cavaliera Mazzantini, quella della “letteratura con la L maiuscola” e delle “polluzioni fuori programma”

«Guardi, io faccio letteratura con la L maiuscola», Margaret Mazzantini.

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A livello generale, sull’alta caratura artistico-letteraria di Margaret Mazzantini non c’è stata discussione. Subito vincitrice del Premio Campiello (Selezione Giuria dei Letterati) al suo esordio narrativo nel 1994, poi assegnataria del Premio Strega e del Premio Grinzane Cavour per il romanzo Non ti muovere (Mondadori 2002), ha avuto un’importante carriera come attrice, nel cinema e in teatro, e ha scritto diverse sceneggiature felicemente trasposte nel grande schermo.

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La fase più significativa della sua ascesa si può far risalire al 2003, quando viene nominata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. Di conseguenza, come per Silvio Berlusconi si è ritenuto naturale l’appellativo di Cavaliere, qui riteniamo corretto menzionare lo stesso titolo, sia per parità di genere sia come giusto riconoscimento.

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Del romanzo Non ti muovere si è parlato molto all’epoca, come anche della sua trasposizione cinematografica. Resta interessante l’attività di sceneggiatrice della Cavaliera Mazzantini, che vede molti suoi script portati sul grande schermo: oltre a Non ti muovere, diretto e interpretato da suo marito, abbiamo Libero burro, diretto nel 1999 dal marito e interpretato da lei stessa insieme al marito; poi La bellezza del somaro, diretto e interpretato dal marito; poi Venuto al mondo, tratto da un suo romanzo e trasposto in film da suo marito, che vi ha recitato una parte; Poi Nessuno si salva da solo, anch’esso tratto da un suo romanzo e portato al cinema da suo marito; infine, Fortunata, un film diretto dal marito, premiato con un David di Donatello.

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Molti hanno parlato di “impresa familiare”, in cui la moglie scrive raccogliendo appoggi e premi, e il marito provvede a fare i film raccogliendo appoggi, finanziamenti e premi. Ma su questo punto dissentiamo: non si tratta d’impresa familiare, bensì di impresa familistica, perché mentre l’impresa familiare funziona per produrre con risorse e strumenti propri, in un contesto dato e accessibile, l’impresa familistica funziona sostanzialmente per raccogliere privilegi in un contesto chiuso e condizionato.

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Ma la celebrità più significativa della Cavaliera Mazzantini resta quella letteraria, di cui ci vogliamo occupare. Pare che il suo consolidamento sia seguito alla famosa affermazione che fece davanti alle telecamere, quando al microfono di un giornalista mise subito in chiaro: «No, guardi, io faccio letteratura con la L maiuscola». Una dichiarazione tanto chiara e perentoria che non fece nemmeno sensazione, ma suonò come un dato programmatico acquisito e insindacabile: un modo per stabilire a priori il primato di fronte a qualsiasi realtà alternativa, che evidentemente venne preso sul serio da molti. Ma qui intendiamo valutare le cose senza preconcetti o intenti programmatici.

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Nel romanzo Nessuno si salva da solo (Mondadori 2011) si descrive la pesante crisi di una giovane coppia contemporanea, narrata nell’arco di una serata trascorsa al ristorante per riallacciare i discorsi rimasti in sospeso e analizzare le cause della separazione. Lì l’autrice ripropone – prevedibilmente – gli stilemi dei romanzi precedenti, che tanto successo avevano avuto, calcando però la mano sulla crudezza del linguaggio e sulla velocità e brutalità espressiva, nell’evidente tentativo di dare spinta all’effetto sul lettore.

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«Durante i primi baci con la lingua gli aveva fatto sentire i denti consumati dall’acidità del vomito».

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L’incompatibilità maturata fra i due personaggi, che è al centro dell’impianto narrativo, viene dispiegata e descritta con espressioni forti, a tratti volutamente scabrose, in una sorta di “esibizione dello sgradevole”, che vorrebbe puntare a un estetismo letterario originale: «lo esaltavano le deformità, le macroscopie, le gravidanze plurigemellari dove i feti sembravano formiche nei buchi». Ma questa corsa alla mimesi del narrato, al realismo spinto, alla ricerca della verosimiglianza a tutti i costi porta a eccessi che, alla resa dei conti, rivelano una debolezza di fondo che si fa sentire: «diarrea da diluire in sei puntate»; «anche le lingue erano piene di rabbia, due spade medievali. Come si fa a fare l’amore con il ferro? Ci vorrebbe il cazzo di Iron Man».

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Dunque, la letteratura con la L maiuscola. Che qui, purtroppo, si riduce a una rozza ricerca di originalità e finisce per produrre l’effetto opposto. Sembra di rivedere le prodezze della cosiddetta letteratura “cannibale” che fu brevemente in voga vent’anni fa; ma neanche questo paragone può reggere, perché l’esperienza pulp di allora era comunque permeata da un distanziamento ironico, qualcosa che invece in Mazzantini è assente. Qui l’autrice s’impegna credendo davvero nella drammaticità di queste performance, rendendole pesanti, come se stando chiusa nella sua camera creativa non si rendesse conto di scivolare nel grottesco: «polluzioni fuori programma per sogni bagnati»; «Ore di baci. (…) Vermi caldi, incollati di torpore, che si lasciano cadere, scivolare. Lui s’infilava in quella bocca e ci cadeva, muoveva la lingua come una pala nella polenta». Come una pala nella polenta. Sembra quasi di leggere passi del noto montanaro che scrive libri e va sproloquiando nella tv di Stato, il cui cognome – in questi tempi di pandemia – si fatica a pronunciare perché infausto.

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In sostanza, abbiamo una storia d’amore che viene analizzata nel suo naufragio attraverso una scrittura che vuol essere “corporale” a tutti i costi, con un’ansia di realismo “impattante” che, purtroppo, non riesce a trovare una naturalezza espressiva. Che è fondamentale per fare letteratura. In più, a differenza delle prove narrative precedenti, qui la psicologia della coppia non riesce ad assumere spessore, ma si appiattisce nella volgarità di due persone che si ripiegano sull’ombelico dei loro bisogni e dei loro fallimenti, apparentemente ciechi verso tutto ciò che è stato il loro terreno di coltura.

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L’altro titolo apparso lo stesso anno, Mare al mattino (Einaudi 2011), non è migliore. Lì si offrono due storie a confronto, che provengono da due mondi diversi, uno al di qua e l’altro al di là del mare, con il dramma dell’immigrazione clandestina a fare da nerbo all’impianto drammatico. Il libro, molto breve, risulta un insieme di pennellate sparse, più che un quadro compiuto. La sensazione è che l’autrice si senta ormai un’artista affermata che non necessita più di dare organicità all’opera, essendo sufficienti i suoi pochi gesti – non necessariamente coordinati – per creare una legittimazione creativa riconoscibile e riconosciuta.

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«La gente privata di se stessa perde i confini, messa al muro può confessare un omicidio che non ha commesso».

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Ogni pennellata, qui, sembra intendersi come gesto artistico in sé, al di là della plausibilità letteraria, che si dà per assodata (si veda la nota dichiarazione programmatica). In questo, sembra che Mazzantini tenda a scimmiottare – forse inconsapevolmente – alcuni criteri espressivi di Erri De Luca, del cui minimalismo spinto d’impronta ideologica ci siamo già occupati. Il problema è che qui l’effetto ricercato nelle parole – frasi brevi, stile asciutto e sorvegliato – prevale sulla sostanza della storia, quasi dissolvendola. La brevità, esercitata programmaticamente, non dà modo di costruire e compiere un percorso, e somiglia più a un esercizio stilistico-estetico fine a sé. La storia narrata, pur struggente nella concezione, rimane frammentata e poco approfondita, con i personaggi che restano nell’aura del diafano.

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«Gli anni passarono in quella lotta vana. Perché vane diventano le parole ripetute troppe volte. I pensieri sono un gas cattivo».

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L’argomento della mamma e del bambino fuggiti dalla Libia su una carretta del mare sembra scelto per essere struggente e per colpire; ma ciò che essi provano durante il viaggio viene narrato per sprazzi visionari, che appaiono mere proiezioni dell’autrice. Cosa più che legittima, trattandosi di un’operazione somigliante a un esperimento artistico, che è fatto – appunto – di pennellate.

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Quanto all’ultimo romanzo della Cavaliera Mazzantini, Splendore (Mondadori 2013), così è stato definito in una vetrina promozionale: «un libro che fa male, come un taglio in bocca, un’afta che non si riesce a fare a meno di stuzzicare con i denti». «Un romanzo che è un grande, trionfale, omaggio all’amore omosessuale. Una superba prova di scrittura da parte di un’autrice che ha saputo cogliere le sfumature di un sentimento ibrido, violentemente maschile eppure intensamente femmineo». «La scrittura forbita di Margaret Mazzantini, ricca di iperboli e grandi volute, si asciuga e si affina in questo suo ultimo romanzo, diventa liscia, cristallina eppure rovente come piombo fuso».

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Bastano le ultime note – scrittura forbita, iperboli, grandi volute, cristallina, piombo fuso – per arguire che i carri della promozione avevano ben armato i loro cannoni. E le ambizioni restavano alte, a cominciare dalla trama: uno dei due protagonisti, figlio del portiere dello stabile in cui l’altro protagonista abita al quarto piano, vive nel tanfo di cavolo e di fumo, ovviamente al piano terra. Già si vede un’apertura immediata al luogo comune della condizione sociale modesta rapportata a quella medio-alto-borghese; e a questo luogo comune si aggiungono quelli successivi, imperniati sulla condizione dell’omosessualità sofferta e celata. Una complessa storia d’amore che si dipana «lungo quarant’anni e mezza Europa», con i protagonisti che sono innamorati riluttanti da ragazzi e diventano amanti clandestini per tutta la vita, fra mille traversie, allontanamenti e riavvicinamenti.

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Anche qui la scrittura vuol essere colta e forbita, fatta di ricerca estetica, ma risulta – quasi inevitabilmente – fredda e slegata dalla consistenza della storia. E anche qui, per dare robustezza all’operazione, si esercita una crudezza espressiva che a tratti sconfina nella volgarità: non in considerazione di una “convenienza” stilistica, ovviamente (all’arte non si comanda), ma per l’insufficienza della resa estetico-espressiva messa in rapporto con l’autenticità e l’urgenza di ciò che si narra. Quando l’autenticità e l’urgenza sono carenti, la resa espressiva non può essere all’altezza, soprattutto se condizionata da intenzioni artistico-estetiche che preesistono e non s’incardinano nelle istanze di base. Qui, l’unica “urgenza” che si lascia intravedere è quella di confezionare un nuovo prodotto narrativo da inserire nel segmento “letteratura”, per non lasciar trascorrere troppo tempo fra una pubblicazione e l’altra e non rischiare di veder appannare l’appeal e la trazione commerciale di cui era capace l’autrice. In altre parole, il racconto appare calato dall’alto, anziché scaturire da queste istanze, cioè da un ribollire artistico che viene dal basso. Così, il libro parte con buone intenzioni ma si arena in questi condizionamenti artificiosi, richiamando il già visto, al punto che a molti sono tornati in mente, nel dipanarsi della storia, i due cowboy omosessuali del famoso film I segreti di Brokeback Mountain.

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Concludendo, la produzione narrativa di Margaret Mazzantini risulta ferma a sette anni fa; ciò può far supporre che l’auto-attribuzione della letteratura con la L maiuscola abbia dato appagamento sufficiente per potersi mettere a riposo. Anche perché mantenere alto il livello artistico è spesso difficile e, a quanto dicono, sono soprattutto i geni a poterselo permettere.

Paolo Ferrucci

 

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