18 Febbraio 2020

Contro gli scrittori che contemplano il proprio ombelico e pubblicano romanzi che sono un inventario di banalità, con la prosa di un bambino di seconda media. Ovvero: sul declino della “narrativa letteraria”

Quando prendo in mano un libro del genere “narrativa letteraria” non vi percepisco il rispetto verso quel logos ineffabile che respira dentro di noi. La lingua, di conseguenza, è sterile, a volte apparentemente sintetica, o comunque artificiale. Anni fa Wittgenstein aveva un’influenza così profonda su di me che non riuscivo più a leggere alcun testo, semplicemente perché da nessuna parte rinvenivo il rispetto e la soggezione che la lingua in sé avrebbe dovuto ispirare nel suo autore. Forse tutti gli aspiranti scrittori dovrebbero cibarsi del Tractatus Logico-philosophicus e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein come letture obbligatorie. Se non altro, comincerebbero ad apprezzare alcuni degli aspetti intricati e ambigui della lingua, anche della lingua ordinaria. Hanno capito che la lingua può implicare così tanto e/o così poco allo stesso tempo?

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La glossolalia è antecedente alla lingua. Non è lingua impazzita, o asintattica e asemantica. Può darsi che si debba imparare tutto, e poi buttare via tutto, proprio come fece il poeta e mistico Rumi. La narrazione è cogente solo se basata su una profonda comprensione dell’importanza metafisica del mito. In caso contrario, l’intera arte del romanzo dovrebbe essere dichiarata morta e sepolta. Gli anti-romanzi l’hanno ampiamente dimostrato, con James Joyce e Julio Cortàzar tra i loro più prominenti fautori. Ma le loro opere tradivano un’insoddisfazione per i (non) valori del ventesimo secolo. Tuttavia, non sono stati in grado di offrire alternative, quindi, la morte del romanzo, come i critici decostruzionisti vorrebbero farci credere.

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D’altra parte, peccando di eccesso di modestia e uniformità, la prosa nella maggior parte delle opere di “narrativa letteraria” mi lascia costernato. Viene da chiedersi: tutti questi scrittori non saranno per caso malati? Sono diventati insensibili? Sono addormentati, o catatonici? La loro prosa metronomica e sintetica mi ricorda quell’artificio così squisitamente umano: il prato.

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Non c’è niente come un prato in natura. Tutt’al più ci sono praterie, tutt’altra cosa. Un prato richiede erbicidi, pesticidi, falciatura costante, diserbanti, fertilizzanti, irrigazione se la piovosità è insufficiente, sole, ma non troppo, un modicum d’ombra, o meglio chiazze di luce e d’ombra. È un’aberrazione astratta, assolutamente innaturale. E tale è la prosa a cui mi oppongo. Mirerà anche alla semplicità, ma non potrebbe essere più artificiosa, e insipida, standardizzata, inerte, sintatticamente, semanticamente e stilisticamente sterile. È una conseguenza dell’inerzia del modernismo. La stessa obbrobriosa linearità senz’anima dell’architettura modernistica. Ma la linearità è un’astrazione, è innaturale. Povero disorientato uomo moderno: antropocentrico, Dio-fugo, poi senza Dio, infine senz’anima! La vita è eminentemente non lineare. In un negozio di giardinaggio ci sono in vendita più erbicidi e pesticidi che fertilizzanti. Che cosa è successo all’umanità? Che cos’è la sua ossessione di uccidere e reprimere? Urge, al contrario, fecondare ed essere fecondati! L’ingresso ai campi dell’immaginazione è del tutto libero, e ognuno di noi può esplorarli. Invece, il prato senza vita. Un antibiotico, letteralmente: anti-vita.

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Eppure, intuitivamente avvicinato, il mondo appare vibrantemente vivo – ogni sasso, roccia, albero, sente e vive. Probabilmente siamo tutte cellule di un gigantesco organismo, la Terra, che a sua volta è una cellula della sua galassia, e così via, all’infinito. Più e più volte sono costretto a richiamare l’attenzione sull’ovvio: questo bellissimo pianeta, respirabile, bevibile, commestibile, autoregolante e autosufficiente, è vivo. Marsilio Ficino sosteneva che il mondo sia un animale. Ma il mondo occidentale spiega la presunta coscienza in esseri diversi da quelli umani come “antropomorfica”. A giudicare dalla lingua impiegata per farlo, anche in modo molto convincente. La prosa è stata igienizzata, “funzionalizzata”, strasemplificata.

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Povero lettore moderno – sei sobrio. Immagino che non ti dispiacerebbe essere inebriato, di tanto in tanto, la stessa ebbrezza che si prova quando si è innamorati. Ma sei stato costretto a smaltire la sbornia. Il modernismo non ti ha lasciato scelta. E che dire della tecnocrazia, dell’intossicazione finanziaria, del machiavellismo internazionale? Eppure tu, lettore, stai riscoprendo la maestosa complessità della giungla. Lo spirito cartesiano che vuole eliminare le giungle è lo stesso spettro che affligge la prosa “letteraria” moderna e, in generale, la mente moderna. Eppure tu, lettore, ammiri i capolavori architettonici dei tempi passati, chiese, cattedrali, castelli, palazzi, ville e quant’altro. Hanno tutti un’anima, indipendentemente dal loro stile. E tu, lettrice, ami i gioielli, nelle loro infinite e intricate manifestazioni, e i fiori. Come la prolissità delle sinfonie tardo-romantiche di Mahler era fuori controllo, così è la sterilità della prosa moderna. La sua ossessiva ricerca dell’economia d’espressione l’ha resa acutamente anale ritentiva. Una parte di essa è costipata. Gli scrittori costipati si differenziano da quelli anale ritentivi per il fatto che vorrebbero essere più… produttivi, ma non ci riescono. L’aggettivo “prosaico” descrive appropriatamente, oltre che tautologicamente, la loro prosa.

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Da qui la necessità impellente di una rivalutazione cosmologica. Mentre viviamo nell’Era Caotica e la teoria del caos ci mostra il lato affascinante dell’intricatezza e del’’imprevedibilità (e non più solo nelle microstrutture matematiche), troppi scrittori, imprigionati nei loro compartimenti stagni (Dio non voglia che un romanziere si occupi di cose scientifiche), ignorano la meravigliosamente complessa realtà che li circonda, e si attaccano, per inerzia, pigrizia, incoscienza o semplicioneria, a quell’assioma modernista, “meno è di più”. Chi ama l’avventura deve cercare di riconoscere e di fare amicizia con il lato buono del caos. Solo pochi decenni fa, le giungle erano regolarmente rase al suolo e trasformate in pascoli per il bestiame. Nel giro di pochi anni, però, tali pascoli diventavano un deserto. Gli “imprenditori” allora se ne andavano altrove, lasciandosi alle spalle la desolazione. C’erano altre giungle da trasformare in pascolo e poi deserto, e così via. Il risultato: niente più giungle, niente più pascoli, niente più bestiame. La sterilità più assoluta. S’è capito finalmente che le giungle vanno conservate e anche i profani cominciano ad apprezzare l’ordine intricatissimo, anzi caotico — anche se “armonia” sembra un termine più adeguato — che governa un ecosistema così complesso.

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Gli scrittori non amanti dell’avventura, o meglio pigri e codardi, ci mostrano nei minimi dettagli il lato oscuro dell’ordine. E cioè la loro squallida e vuota non-anima modernista. Il brutto è stato coscienziosamente coltivato e riprodotto per oltre un secolo. Ci ha mostrato il suo fascino subdolo, al massimo sensazionalistico, mai veramente affascinante, e rapidamente déjà vu. L’esistenzialismo, di per sé anti-filosofico, è degenerato in un pretesto per lamentarsi, o per la tossicodipendenza, o per la mancanza di uno scopo. Tutti sono da biasimare: i genitori, la società, il sistema. Mai l’individuo.

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Non molto tempo fa, Sartre scrisse: “La natura è muta”. No, la natura non è muta, lo sei tu, non-filosofo fumatore di Gitanes e indossatore d’impermeabile, ma molti esseri umani in questo mondo guidato dalle macchine sono diventati sordi.

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Jane Austen, Nikolai Gogol’ e molti altri hanno portato alla transizione del realismo letterario del diciannovesimo secolo scrivendo di persone e ambienti con i quali avevano dimestichezza. All’epoca, l’attenzione per la gente comune e le loro realtà deve essere stata una boccata d’aria fresca. Ma ci siamo sorbiti oltre due secoli di personaggi sempre più ordinari che non si possono nemmeno definire “antieroi”. Abbiamo visto le loro radiografie, imparato nei minimi dettagli i vizi e le debolezze delle loro vite insignificanti. È diventato peggio di un cliché – un’ossessione. Chissà, forse si dovrebbero aprire cliniche che offrano riabilitazione per chi ha sofferto di una dose eccessiva di nullità.

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E se il lettore medio avesse un atteggiamento ambivalente? Potrebbero voler leggere nei romanzi ciò che gli è familiare per identificarsi con i personaggi, mentre, d’altra parte, queste stesse persone, quando si svegliano la mattina e si guardano allo specchio, trovano il proprio riflesso sconcertante. È questo l’uomo moderno. Siamo tutti uguali, gli viene detto, e tutti ugualmente insignificanti, quindi esigiamo sempre meno, mai di più, da noi stessi. L’alienazione e l’estraniamento sono presentati come inevitabili e ineludibili. Tutto il resto è “pretenzioso” e “pomposo”, aggettivi che, nel campo della “narrativa letteraria”, equivalgono a “fascista” e “razzista” in politica.

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Nel quinto atto di Cirano di Bergerac, Rostand fa a dire al suo eroe, poco prima della fine:

Astronomo, filosofo eccellente.
Musico, spadaccino, rimatore,
Del ciel viaggiatore,
Gran mastro di tic-tac,
Amante — non per sè — molto eloquente
Qui riposa Cirano Ercole Saviniano Signor di Bergerac,
Che in vita sua fu tutto e non fu niente!
Poco prima di morire dichiara, in modo memorabile:
Ma non si combatte nella speranza del successo! No, no: più bello è battersi quando è invano.

Infine:

(E stasera quando in cielo entrerò,
Fiero l’azzurra soglia salutarne io potrò;)
Ch’io porto meco, senza piega nè macchia, a Dio,
Vostro malgrado….
(Si slancia, la spada levata.)
Ed è…
(La spada gli cade di mano, egli barcolla e cade nelle braccia di Le Bret e Ragueneau.)
ROSSANA, piegandosi sopra di lui e baciandogli la fronte.
Ed è?….
CIRANO, riapre gli occhi, la riconosce, e sorridendo dice:
Il mio pennacchio!

Voilà: il pennacchio, il tanto francese panache, l’antidoto per l’uomo moderno estraniato, alienato e diseredato. Il panache vale anche per la prosa di cui si è scritto. E pensare che, al suo massimo grado di purezza, la lingua è logos, o materia psichica in flusso…

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Per qualche anno sono stato abbonato alla rivista scientifica Nature, la roccaforte britannica della scienza ortodossa cartesiano-newtoniana (mal adattata a questo secolo, ma ancora popolare). Sempre appassionato di lingua e delle sue infinite manifestazioni, leggevo la corrispondenza coprendo con la mano il nome e l’indirizzo dello scrittore. Quasi sempre indovinavo la sua nazionalità. Le lettere scritte dagli scienziati britannici erano inequivocabilmente britanniche; quelle scritte dai loro colleghi americani si distinguevano come esempi involontari di inglese americano. Gli scienziati irlandesi erano più difficili da individuare con la loro prosa, con altri influssi meno identificabili. Poi c’era chi scriveva in inglese non essendo di madrelingua inglese. Non troppo difficile da individuare, però, poiché costoro tendono a conformarsi alle convenzioni linguistiche anche più arrendevolmente di quelli di madrelingua inglese. Una considerazione nel complesso: chi sta pensando? Il loro passaporto?

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Il sassofonista e compositore Ornette Coleman colse il mondo di sorpresa quando irruppe in scena nei primi anni sessanta. Il suo peculiare tipo di “free jazz” era talmente unico che divenne un genere a sé stante. Alcuni, tra cui Leonard Bernstein, lo accolsero come il nuovo messia musicale; i più trovarono la sua musica detestabile, sia visceralmente sia intellettualmente. Coleman si ritirò dalle scene, senza tener conto di nessuna delle due reazioni estreme. Il suo scopo? Voleva insegnarsi due nuovi strumenti, il violino e la tromba. Perché? La sua eccezionale dimestichezza con il sassofono contralto stava diventando sempre più un ostacolo tra la musica pura che sentiva nella sua mente e ciò che le sue dita ne facevano sullo strumento. Due strumenti completamente diversi potevano scatenare la sua creatività; l’ostacolo era, inizialmente, solo la scarsa familiarità, a suo avviso più facile da sconfiggere che la familiarità eccessiva.

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Lo scienziato britannico scrive a Nature in un inglese senza fronzoli, eppure, senza rendersene conto, è abbastanza britannico da consentirmi d’indovinare la sua nazionalità. Il passaporto è il pensatore; il FBI non avrebbe bisogno della “linguistica forense” per rendersene conto. Il sassofonista vuole allontanarsi dal suo strumento preferito per eccesso di familiarità. Si è reso conto che a volte è la diteggiatura abituale, non la sua mente, a suonare.

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È vero, la priorità di uno scienziato non è la propria prosa, ma i concetti trasmessi attraverso di essa. Tuttavia, anche i romanzieri non sono immuni dalla stessa riconoscibilità linguistica. Nel loro caso è spesso, e ancor più palesemente, il passaporto a pensare e, a differenza del jazzista di cui sopra, non ne sono consapevoli. È un problema comune a tutti i monoglotti – la loro lingua si conforma troppo a se stessa, in qualsiasi appercezione locale. Ciò non può che risultare in un giro di frase convenzionale, e lo stesso vale per la scelta delle parole, le espressioni idiomatiche, ecc. Non si tratta affatto di un’espansione mentale, ma piuttosto di una contrazione. Quante volte i romanzi sono pubblicati da uno scrittore che conosce una sola lingua e limita le proprie escursioni tematiche a ciò che conosce in prima persona? Forse nessuno ha detto loro che il monolinguismo è per il ventunesimo secolo ciò che l’analfabetismo è stato per i secoli precedenti.

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A questo proposito, esiste qualche scrittore di “narrativa letteraria” a cui interessino i classici? Qualcuno di loro studia per caso il latino e il greco antico? Ci viene detto che lavorano così assiduamente al loro “mestiere” (cioè la loro prosa da seconda media inondata di cliché e luoghi comuni) molto probabilmente senza rendersi conto che, inter multos alios, i poeti melici e i neoteroi (o poetae novi) sono esistiti e potrebbero insegnare loro una cosa o due. Per esempio, il famoso carme 85 di Catullo, Odi et amo, un esametro seguito da un pentametro, cioè una poesiola ridotta all’osso:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris?
nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse ti chiedi come io faccia.
Non lo so, ma sento che accade e mi tormento.

Il secondo verso è costituito da un chiasmo, una figura retorica che consiste nella reciproca inversione del costrutto in due membri contigui, quindi in un parallelismo inverso. In questo caso una forma verbale attiva è seguita da una forma verbale passiva: nescio (attivo)-fieri (passivo), e ancora: sentio (attivo)-excrucior (passivo). Alla sottigliezza grammaticale si aggiunge il fatto che alcuni verbi latini, sebbene attivi, siano coniugati nella forma passiva. Tanto per illustrare che, anche in una composizione brevissima, Catullo mostra tecnica e controllo magistrali.

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La “narrativa letteraria” mi fa pensare a Thomas Mann, Aldous Huxley, Hermann Hesse e altri autori del genere. Ma oggi per “narrativa letteraria” l’industria editoriale intende quei romanzi ombelicali incernierati sull’angoscia suburbana, una Weltanschauung straordinariamente claustrofobica, ammesso che ci sia, il tutto cosparso di una sostanziale dose di alienazione—dal mondo, dalla propria famiglia e da se stessi. Mentre scrivo, la mia barba si allunga a un ritmo allarmante.

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Gli scrittori non conducono più una vita contemplativa e i loro libri ne soffrono. L’effimero è dannoso per uno scrittore. È troppo contingente. La contemplazione è il primo passo. Contemplare deriva dal latino com-, con; templum, luogo per osservare gli auspici. Precisamente ciò di cui ho bisogno – un tempio di tipo speciale, in cui ricevere rivelazioni. Proprio come uno sciamano che si ritira in una grotta e non ne esce finché non abbia ricevuto le rivelazioni. Una predisposizione – un dàimon – e anni di formazione sono necessari per diventare sciamano – e scrittore? Paleoantropologi e archeologi sostengono, a mio avviso in modo convincente, che durante il paleolitico lo sciamano e il cantastorie erano la stessa persona.

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I materialisti mi possono tacciare di mitomania. Anche se non lo ammetto, non ci vedo nulla di male. Abbiamo tutti bisogno di miti per vivere. Il peccato, secondo i materialisti (che naturalmente sono anche atei e nichilisti), è che la gente si prenda sul serio. Sono “pretenziosi”. Se è per questo, pensate per un attimo alla intrinseca pretenziosità autocelebrativa della lingua inglese, in cui il pronome “I” (io) è sempre maiuscolo. Diranno anche che troppo sapere rende la scrittura ponderosa e pedante – non nelle mani di uno scrittore capace, però, che sa come trovare un equilibrio. Infine, mentre si è in-spira, bisogna darsi, anima e corpo, alle Muse. Perché mai le Muse dovrebbero parlare a chi non le vuole ascoltare? O a chi non sa ascoltare? Scrittori di “narrativa letteraria”, poco istruiti, autobiografici, monoglotti e meschinotti: le Muse non avranno nulla a che fare con voi. Naturalmente, tali scrittori diranno che non ne hanno bisogno. “Muse? Ispirazione? Uno studio, una torre, un sanctum (che diavolo significa?) in cui… contemplare? Sciocchezze! Ma si è sentito, quel trombone pretenzioso? Cosa può esserci di sbagliato nelle nostre modestissime ambizioni? Sono così sinceramente modeste. Scriviamo solo di ciò che conosciamo. È il modo di scrivere migliore, il più genuino. E così soddisfacente, anche per il lettore. Sì, mantenersi modesti è sicuramente la politica migliore.”

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Rilke ha scritto: “Se non riesco a volare io, lo farà qualcun altro. / Lo spirito vuole solo che ci sia il volo. / In quanto chi lo fa, / in ciò ha soltanto un interesse passeggero”. E: “Forse gli uccelli sentiranno l’aria diradarsi mentre volano più profondamente dentro se stessi”. Gli scrittori “modesti” dovrebbero leggere attentamente quanto segue e meditare, sempre di Rilke: “Tutto ambisce a galleggiare. Ma noi arranchiamo come pesi. / Estasiati dalla gravità, ci stendiamo su tutto. / Oh, che maestri fastidiosi siamo per le cose, / mentre prosperano nel loro perenne stato d’innocenza infantile”.

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È un circolo vizioso: gli aspiranti scrittori frequentano, ad esempio, il famoso Iowa Writers’ Workshop presso l’Università dell’Iowa. In modo indiretto, per giustificare i costi della retta universitaria, viene loro inculcato che, A, Meno è di più e, B, Scrivi di ciò che conosci.

Dal punto di vista di un tradizionalista, nulla potrebbe essere più anti-iniziatico: non sforzarti di trascendere te stesso; piuttosto, sguazza nella tua insignificanza. Poiché nella maggior parte dei casi l’aspirante scrittore è molto, molto giovane e conosce molto, molto poco, è fin troppo disposto ad assecondare i dogmi dei suoi insegnanti. Alcuni di questi (non)conoscitori riescono a scrivere un romanzo, aderendo a tali dogmi e utilizzando tutti gli strumenti di non-riflessione che vengono loro alacremente forniti. A volte, ce la fanno perfino a essere pubblicati: un’altra brillante opera di “narrativa letteraria” sul mercato, un’altra brillante carriera inaugurata. Li aspetta una mafia ben affiatata: i diplomati delle scuole di illuminismo letterario diventano non solo scrittori, ma anche redattori, agenti e/o scout letterari, professori e critici/recensori. Essi si posizionano strategicamente all’interno dell’industria editoriale, dove non solo si conoscono l’un l’altro, ma riconoscono facilmente i nuovi arrivati grazie alla loro mentalità e adesione a questi due dogmi. Di conseguenza, lo scrittore non deve preoccuparsi della ricerca. Un celebrato autore di “narrativa letteraria” ha dichiarato quanto segue: “La gente ha questa buffa idea che si debba fare ricerca, poi si mettano tutti i risultati in un frullatore, si mescolino, ed ecco che ne esce un romanzo”. Quindi, non fa mai ricerca.

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Non c’è da stupirsi che i romanzi fantasy vendano decine di milioni di copie: la maggior parte dei lettori vuole qualcosa di più grande della vita; per modestia e mancanza di eventi importanti hanno già la loro vita. E che dire del piacere vicario del viaggiare avventuroso? Il lettore si trova nel bel mezzo dell’azione, partecipando alle avventure più travolgenti, ma senza correre alcun rischio.

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Nei romanzi “letterari” contemporanei ci si nutre di un’infinita campionatura della feticizzazione delle relazioni umane. La tanto sbandierata rivoluzione sessuale ha contribuito a questo, e ora sembra che l’“energia” si trovi solo nelle relazioni tra gli esseri umani. Ma, se si considera il più-che-umano là fuori, quei cento miliardi di galassie nell’universo osservabile, noi esseri umani dovremmo avvederci di non essere poi così importanti.

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La molteplicità nei temi e nella gamma, e la versatilità intrinseca e senza limiti della mente, non devono essere confuse con il barocco, o con un esercizio di sovraindulgenza. L’equilibrio — strutturale, stilistico, semantico e di altro tipo – deve entrare in gioco, e la non-linearità può prosperare con la leggerezza della penna. Il massimalismo e il minimalismo, quando sono felicemente impiegati, sono altrettanto potenti.

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Non sto sostenendo la causa dei romanzi illeggibili, tutt’altro. Lontano da lettres classiques e dalle belles lettres, verso la comunicabilità. Ma la comunicabilità deve nascere spontaneamente come risultato di un approccio “totalizzante”, perché nulla nello scibile è estraneo a noi esseri umani, come ci ricordava Terenzio.

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A tutti gli scrittori che scrivono senza l’umiltà necessaria per studiare e assorbire ciò che è già stato scritto; a tutti gli scrittori che, nati non curiosi e quindi inadatti a essere iniziati, impongono la loro non curiosità a tutti noi scrivendo “di ciò che conoscono” (id est, nihil); a tutti i mestieranti che applicano ad nauseam i due dogmi imparati nei loro costosi corsi di “scrittura creative”, dico: per favore, non scrivete.

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Piuttosto, fate quanto segue: cominciate con l’acquistare gli otto volumi dell’Enciclopedia della Filosofia, pubblicata da MacMillan e dalla Free Press. Leggete e metabolizzate quelle 2165 pagine, tenendo ben presente che non sono altro che un’introduzione. Eppure, almeno vi renderete conto che, toh, esiste una novità, ed è… la storia del pensiero! Che, infatti, nel corso dei secoli, ogni tipo di pensiero è stata formulato e numerosi sistemi filosofici sono stati sviluppati da menti infinitamente superiori alla vostra; e che non avete un solo pensiero originale per salvarvi l’anima (che comunque non possedete, dato che siete dei materialisti pienamente appagati). Quanto scrivete, quei paragrafi ai quali, a sentir voi, lavorate tanto duramente per comporre, sono un inventario di banalità, clichés e luoghi comuni uniti fra di loro in modo arzigogolato con la prosa di un bambino di seconda media.

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Se gli asini non vengono mai a contatto con un cavallo, a lungo andare tali campioni dell’autoinconsapevolezza si convincono di essere dei purosangue. Nel mondo occidentale contemporaneo tale tipo di cecità si chiama “fiducia in se stessi”.

Guido Mina di Sospiro

* tradotto dall’inglese dallo stesso autore; titolo originale: “The Decline and Fall of “Literary Fiction”, pubblicato originalmente su New English Review, cannibalizzato in parte dal suo libro (segreto) “De Anima Mundi”

**In copertina: Aldous Huxley (1894-1963), lo scrittore de “Il mondo nuovo”, da bambino

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