“Scrive nella febbre, come nella febbre pensa e nella febbre vive”. Soli, di fronte a Dostoevskij
Letterature
Riccardo Peratoner
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Da quando è stato pubblicato, nel 1925, è al centro del dibattito letterario. La questione intorno alla quale critici ed esperti del settore si arrovellano è se siamo di fronte al tanto favoleggiato “grande libro” della letteratura americana o no. Per intenderci, il testo fondativo e alla base di una letteratura nazionale. Quello che I promessi sposi rappresenta per l’Italia, o il Don Chisciotte per la Spagna. Confesso che il dibattito mi lascia del tutto indifferente. Una cosa però non me la toglie nessuno dalla testa, soprattutto dopo avere riletto il romanzo a distanza di parecchi anni dalla prima volta: Una tragedia americana è un romanzo così americano che più americano non si può. Il suo autore, Theodore Dreiser (1871-1945), in quelle mille e passa pagine ha messo dentro veramente tutto quello che caratterizza e marchia a fuoco, nel bene e nel male, un grande Paese come gli Stati Uniti. Anche lo stile in cui è stato scritto, contraddittorio, farraginoso, a volte arruffato, è l’immagine sputata dell’America, con il suo sviluppo impetuoso e spesso brutale, generoso e selvaggio, così diverso e lontano dalla vecchia paralitica Europa.
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La trama del romanzo è presto detta: il giovane protagonista, Clyde Griffths, che sogna ricchezza e prestigio sociale, dopo aver lasciato la propria famiglia di predicatori, si trasferisce prima a Kansas City e poi in una piccola città dello stato di New York per lavorare in una fabbrica. Si lega a una giovane operaia, Roberta, ma contemporaneamente si innamora di Sondra, figlia della buona borghesia e che gli appare quasi irraggiungibile per la posizione sociale che occupa nella piccola città. Quando Roberta gli rivela di essere incinta, Clyde teme che la ragazza possa impedirgli di realizzare il suo miraggio di ascesa sociale e così decide di ucciderla; la porta in barca sul lago, ma al momento decisivo esita a mettere in pratica il suo piano. Però la barca si rovescia e mentre Clyde si salva la ragazza annega senza che lui muova un dito per salvarla. Accusato di omicidio, viene processato e condannato a morte. L’ultima parte del libro segue la sua lunga agonia nella cella della morte, nella vana e tormentosa attesa di una grazia che non arriverà mai.
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Nel romanzo c’è veramente tutto: il puritanesimo bigotto, la ferocia del capitalismo, l’insopprimibile individualismo, la sfrenata ambizione sociale, il sistema giudiziario ottuso, i miti del denaro e di un Paese dalle mille opportunità. Leggerlo è come fare un corso accelerato sulla società americana. Quella che abbiamo imparato a conoscere a spizzichi e bocconi attraverso tanto cinema, dai film western a quelli sulla malavita, con quei personaggi e quelle avventure che non potrebbero essere ambientate da nessuna altra parte.
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Poi, come in tutti i grandi libri, ognuno ci trova anche quello che vuole. A me, per esempio, è piaciuta in modo particolare tutta la ricostruzione del processo al protagonista. C’è il presidente in toga seduto nel suo scranno con il martelletto, l’imputato, i vari testimoni chiamati alla sbarra, le personalità degli avvocati dell’accusa e della difesa. “Vostro onore mi oppongo alla domanda”, “Opposizione accolta” oppure “Opposizione respinta”. Quante volte abbiamo sentito queste battute. Confesso che a un certo punto non capivo più se stavo leggendo un romanzo o stavo vedendo uno di quei telefilm ambientati nelle aule di un tribunale degli Stati Uniti.
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Una tragedia americana è stato interpretato quasi sempre come una critica spietata al sistema americano e non c’è dubbio che uno degli obiettivi di Dreiser era quello di tirare fuori i mali di una società per molti versi spietata. Ma, a mio parere, sarebbe un peccato utilizzare il libro solo per confermare o meno i nostri pregiudizi. Molto meglio prenderlo come uno straordinario viaggio nell’America profonda, con i suoi grandi orrori e i suoi grandi ideali, multiforme e caleidoscopica, sogno e incubo. Io l’ho fatto e quando sono arrivato al termine mi è venuto spontaneo sulle labbra un semplice commento: That’s America!
Silvano Calzini