
“Consideratemi un sogno”. Il carteggio tra Rilke e Catherine Pozzi
Libri
Giorgio Anelli
Ne parlavano con riverenza, come dall’albume di un sussurro – sarà, anche, per quel nome, silvestre, di regni nella foresta, che trasforma le intenzioni in balzi nel vuoto. Louis-René des Forêts nasce a Parigi nel 1918, percorrendo una vita, per lo più, incardinata nel riserbo e nel verbo. L’esordio alla letteratura accade negli anni in cui è impegnato nella Resistenza: nel 1943 Gallimard edita Les Mendiants; tre anni dopo è pubblico Le Bavard.
Poco allettato dalla fama, dai disordini mondani, Louis-René des Forêts lavora, per un po’, per Laffont, si sposa – con Janine Carré – si impegna nell’elaborare libri incompiuti (Voyage d’hiver). Insieme a Yves Bonnefoy, Paul Celan e Michel Leiris dà vita a una rivista di fatua bellezza, “L’Éphémère”. Protesta, se è il caso – contro la guerra d’Algeria – con la sommessa determinazione di chi dissoda una via solo per sé, isolata dalle palandrane della moda. Di lui scriveranno Maurice Blanchot, Edmond Jabès, Richard Millet; l’idea, comunque, è quella di una maestria soffusa, di chi mina la notte con una cartucciera di candele. Spesso i suoi libri più cari – Poèmes de Samuel Wood e Face à l’immémorable, ad esempio – vengono pubblicati dalle piccole edizioni Fata Morgana; nel 2015 Gallimard ne edita, a cura di Dominique Rabaté, le Œuvres complètes. Quanto a lui, muore nel 2000, alle mura del millennio – amava Gerard Manley Hopkins, di cui aveva tradotto parte dei diari e delle lettere.
Poco c’è da dire del suo lavorio nelle segrete del cosmo: una parola fuori luogo rischia di far debordare questi scritti nella mania dei retori. Louis-René des Forêts, piuttosto, è uno zoologo delle ombre, un cronachista che, con stilo di luce, va miniando i minimi dettagli del mondo – la pioggia e il sole, il bambino e la pietra, il vino e la ragazza… Certo, c’è una tradizione in queste epifanie liriche: le Illuminazioni di Rimbaud, le “foglie” (o fogli) di René Char, gli apoftegmi di Pierre Reverdy, le poesie di Jean Cayrol. Ostinato, uscito da Mercure de France nel 1997, è il libro più potente di Louis-René des Forêts: la chiarezza si esplicita a unghiate, nella precisione di chi vuole conciare Dio, ottenerne il vello; le brevi prose tentano l’impossibile: il linguaggio adamitico, la vocale con le zampe, il punto d’unione tra verbo e cosa, la parola che mette foglie e stagioni, ha le radici, scuote la chioma. Odiare il linguaggio – che dice senza dire, che induce alla ribellione –, insegna Louis-René des Forêts, è atto di celeste dedizione verso il creato. Cioè: scatenare il verbo, che vada in posa di biscia e di leopardo – è ancora possibile?
In Italia, Louis-René des Forêts è pressoché ignoto. Nel 1953 Bompiani traduce I mendicanti, passato inavvertito; nel 1982 ci ritenta Guanda con Il chiacchierone, condito da una ‘quarta’ tonante (“Pubblicato per la prima volta nel 1946, finora inspiegabilmente mai apparso in Italia, questo romanzo di Louis-René des Forêts è senza dubbio uno dei testi che hanno influenzato maggiormente le successive ricerche, in campo narrativo, della letteratura francese”); anche in quel caso, nulla di nuovo sul fronte editoriale. Nel 1996 è la volta di Quodlibet, che stampa La stanza dei bambini (in origine: 1960). Anche lì, grandi elogi (“I quattro racconti che compongono questo volume mettono bene in luce le peculiari qualità della scrittura di Louis René des Forêts, di certo una delle figure più schive e segrete, ancorché sotterraneamente influenti, della letteratura francese contemporanea”) per una resa infine infima. Nessuno ha tradotto le poesie di Louis René des Forêts, le delicatissime prose, di certo la sua più alta vetta. Poco male: alcuni autori – di solito, i più grandi – sono refrattari al grande pubblico come alle speculazioni critiche (spesso risolte in un girotondo di frasi laccate, abili a perorare l’azione del pantano e dell’avvoltoio).
Ci resta questa scrittura fuori dagli schemi, da custodire nella faretra, che dardeggia, nuda, fino a sfigurarci. Si tratta di quella semplicità detta anche assalto e assassinio, l’arma bianca del verbo.
***
Da Ostinato (1997)
Il grigio argento del mattino, l’architettura degli alberi perduti nell’alveare del fogliame.
Il sentiero del sole, il suo apogeo, il suo declino, trionfale.
La collera degli acquazzoni, pioggia bollente che di sasso in sasso salta e profuma i prati.
Le risate dei bambini debordano tra i covoni – a sera, giocano in bolgia attorno a una candela: le palme aperte per il più lungo tempo, sulla fiamma.
Il crepitio notturno della pena.
Il sapore delle more raccolte nel cespuglio dove ci nascondiamo: scemano in nera acqua ai lati della bocca.
Rude voce dell’oceano attutita dalla vertigine degli scogli.
Le carezze penetranti che lusingano l’infanzia senza intaccarne il candore.
Il rigore monastico, le estenuanti cerimonie con le bocche fasciate di vocaboli latini che avviluppano l’esaltante liturgia: celebrano la formidabile assenza del maestro sovrano…
I grandi giochi detti innocenti dove i corpi si cavalcano nella polvere con tenebroso piacere. Le prove dell’adolescente orgoglio che freme all’insulto e alla rastrelliera di scherni.
La bella estate che tiene le bestie alla stanga mentre l’adolescente come un viandante è assopito sulla pietra.
Il vino lordo di malinconia, il primo schianto del dolore, il rovo del repentino pentimento.
L’intimo festino di un’amicizia presa dalla stessa lingua, le marce fianco a fianco sulla via degli stagni dove ciascuno sospende il proprio andare agli amorosi rumori degli Uccelli…
La ragazza pende dallo scampanio come uno rosa canina dalle volute dell’abito nuziale, fuoco pervinca nelle sue civette pupille.
Non sono che figure dell’azzardo, le futili maniere del sentiero, lignaggio di fugaci vie, falsi riflessi e segni dubbi che un linguaggio in cerca di riparo inscrive come per frode e dall’esterno, senza prove, senza scavare a fondo, ritagliando dal corpo oscuro della memoria la parte più elementare: colori, odori, rumori – tutto ciò che a cielo aperto respira della verità della fiaba ed è intimorito dalla profondità.
Senza dubbio sarebbe necessario, per conservare in sé il garante della gioia, non vedere nulla del mondo né capire ciò che proviene dalla sua ombra, nient’altro che la chiarezza delle sommità e una musica che fu a volte d’ineffabile bellezza, ma questo, ancora una volta, è un sognare a voce alta, perché ci pare di aver occultato l’innominabile, che balza come un bolide dall’oscurità per far rientrare il riso in gola.
Nel giorno sospetto, nella stanza dove dici di sentire la morte che freme, questo vecchio corpo posseduto dal dolore, questo sguardo foderato da fitte sopracciglia grige, come se lavorasse con estrema durezza per vedersi morire, le labbra dove si apre in modo delirante il sorriso timido di un appena nato, le dita giunte sul cuore che cedono al fremito desolato, il volto murato, d’improvviso, in un’assenza stupefacente.
Tutto ciò che possiamo dire in un eccesso di parole febbrili, gettate sulla pagina come dadi sfortunati.
*
Di un uccello che si nasconde tra i rami
vorremmo imparare il delicato remare
come di lupi in coro i deliranti richiami
invece di urlare con una gola occlusa
inadatta a produrre la musica nativa
che gioia e fame ispirano alle bestie.
Senza pretendere di eguagliare le loro vocali
prodezze, non corrotti dai desideri del pubblico
cosa rende l’uomo una creatura tanto vana
quanto il cantare su un registro tanto povero?
Non avere altri strumenti che le parole
a cui chiedere più di ciò che possono
conduce a disperare del loro utilizzo
ma esse restano le padrone di ogni cosa:
per investigarle sei costretto al silenzio
istruire loro un processo vuol dire perdere –
così l’odio si allea alla devozione.
*
Una voce da altrove
Capire una voce giunta da altrove
inaccessibile a tempo e usura
si rivela non meno illusorio di un sogno:
eppure, qualcosa in lei dura
dopo che ne abbiamo perso il senso
il suo timbro vibra ancora in lontananza come un lembo
di tempesta – non sappiamo se si avvicina, se se ne va.
*
Non è per fissare nello specchio la nostra vecchiaia che ci è offerta la morte, né per sfidarla con vaste parole; se possibile, dobbiamo accoglierla in silenzio come un bambino nella culla sorride alla madre.
*
Vieni, risorgi, svegliati, scrollati di dosso la vecchia carcassa e senza indugio alzati, altrimenti bada a riaddormentarti per sempre, sepolto da ora in poi, recluso nella notte perpetua, come ti accadrà, è inesorabile, ma evita di affrettarne la maturazione per apatia o insidioso desiderio di perdersi: non mutarti nel becchino di te stesso, coltivando la puerile convinzione di essere l’unico padrone del tuo destino – non è vero, benché flagrante sia l’intenzione.
Louis-René des Forêts