Nell’epoca più volte definita come liquida, fluida, precaria, relativista, ecc… qual è la naturale reazione dell’uomo che vuole sopravvivere?
«Vorrei essere un albero, un comune albero…»
Questo è Camillo Sbarbaro, il poeta che agli inizi del Novecento andava «mineralizzandosi», cioè si trovava in quella peculiare condizione per cui, rispetto ai suoi contemporanei amanti dei caffè, delle donne, inebriati dai fervori politici e ideologici, rispetto a loro egli sentiva una maggiore sintonia con sassi e cortecce. In questo inizio secolo tutto in fiamme, Sbarbaro guardava una pietra e sentiva di essere come lei, o meglio, sentiva di dover essere come lei, di avvicinarsi alla sua essenza; non perché si sentisse inanimato, apatico, ma perché istintivamente contrapponeva a quella frenesia che gli altri chiamavano vita, la vera vita ancestrale dei minerali.
Delle sue poesie oggi non v’è quasi più traccia; soprattutto Trucioli, fra i suoi testi forse quello più significativo, è scomparso dalla circolazione: Sbarbaro sopravvive, semmai, nell’immane ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie Poesie e prose, per chi può permetterselo (torna però disponibile in questi giorni Pianissimo per Raffaelli editore: che sia un buon segno?).
Sbarbaro ci parla con una voce peculiarissima, anche al di là della forma, già di per sé molto innovativa, della poesia in prosa. È la voce di chi vive una realtà fatta di «bambole automatiche», di «fantocci», di una «primavera posticcia di tela e cartoni»; e in questo «paese dove tutto è falso e brillante» il poeta vive e partecipa allo squallore.
«Nel mondo che mi son fatto minerale e che rinfrange la luce simile a un caffè di lusso
esasperano le vie eccentriche le terze classi mettono idee di suicidio
vi passo immobilmente le ore come un idolo ma la mia fronte è madida
di esseri viventi tu solo ti movevi
con pose decorative
fanciullo inquietante cui guizza l’ambiguità nella
strettezza del viso…»
La tragedia in Sbarbaro prende forma sotto la consapevolezza d’essere nato proprio da quell’«inferno a buon mercato», di essere parte dello squallore e di non riuscire ad opporvisi in modo efficace, e allo stesso tempo non riuscire a parteciparvi appieno. Anche quella che egli reputa essere una vita più vera, una vita senza l’umano, gli è estranea e irraggiungibile, i monti lontani non gli parlano più. E questa condizione è proprio quella del poeta, del letterato, dell’artista, il non avere una collocazione vera e propria. Da qui nasce il desiderio di annullarsi, di sparire; da qui l’invidia nei confronti degli alberi, delle rocce, di tutto ciò rimasto estraneo all’uomo.
«Assisto alle mute lotte degli squali.
Nelle tenebre rigate da lente forme fosforiche
odo battere il mio cuore d’uomo.Vivo la vita stupefatta della medusa
quella millenaria del banco di corallo
la crepuscolare degli esseri né bestia né pianta…
Ricordo dell’umanità, mi scontro nella nave coricata.Così il gonfio fumator d’oppio elude la desolazione della sua stanza.
Così l’anima si gingilla, bambino malato con bolle di sapone».