04 Novembre 2024

VelimiRipellino, ovvero: sul Chlebnikov di Ripellino

Con una parola-attaccapanni, nata dall’incontro tra un nome e un cognome (Velimir Chlebnikov e Angelo Maria Ripellino), forse si riesce sinteticamente, e un po’ maccheronicamente, a concentrare in un titolo l’essenza dell’operazione che sta dietro il volume (in due tomi) apparso di recente per Einaudi nella «Collezione di Poesia» (la cosiddetta «Bianca»), ossia Velimir Chlebnikov, Poesie (a cura di chi scrive e di Riccardo Mini). Si tratta, propriamente, della ristampa dell’edizione 1968, uscita sempre per i tipi della casa editrice torinese (nella collana «Supercoralli»), ma che allora balzava all’occhio per la singolare distribuzione dei ruoli: «Angelo Maria Ripellino, Poesie di Chlébnikov»; come a dire che su un medesimo piano stavano il curatore-traduttore-introduttore-annotatore (Ripellino) e l’oggetto della sua amorevole cura (Chlebnikov). Nessuno dei due protagonisti di questo libro, s’intende, avrebbe bisogno di presentazioni, ma va detto che Chlebnikov – gigante della poesia russa del primo Novecento – è praticamente scomparso dal radar degli editori italiani (le 47 poesie facili e una difficile, curate da Paolo Nori per Quodlibet, risalgono a quindici anni fa). In attesa che all’orizzonte si affacci un nuovo e coraggioso “chlebnikovologo”, che si misuri cospicuamente con i testi del poeta, non è sembrato inutile riproporre una delle fatiche più titaniche di Ripellino, slavista – ma lui non sarebbe stato felicissimo di questa incamiciante definizione – che all’altezza del 1968 aveva già regalato al lettore di poesia russa imprese traduttive “monografiche” legate ai nomi celeberrimi di Pasternak (Poesie, Einaudi 1957), Blok (Poesie, Lerici 1960) e Majakovskij (con un inopinato Lénin – accento ripelliniano – Einaudi 1967).

Alle traduzioni chlebnikoviane di Ripellino, che non appaiono offuscate dal tempo e hanno l’invitante bouquet di un ottimo vino d’annata, è stato affiancato, per questa nuova edizione, il testo russo a fronte, ossia gli originali a cui Ripellino aveva attinto per il suo lavoro (disponibili, per chi volesse, anche sul meritorio – e quasi miracoloso – sito-maremagnum «ImWerden. Ėlektronnaja biblioteka Andreja Nikitina-Perenskogo [ImWerden. Biblioteca elettronica di Andrej Nikitin-Perenskij]). Ai due curatori non sfugge che, testualmente parlando, questi originali sono “superati” e che il volto delle poesie di Chlebnikov ne risulta talvolta modificato, ma lo spirito dell’operazione non prevedeva tanto la fedeltà “assoluta” al Chlebnikov così come lo si legge in edizioni più recenti e filologicamente accurate (anche queste, peraltro, reperibili su ImWerden), quanto la fedeltà “relativa” a un prodotto splendidamente (e necessariamente, visti gli strumenti esegetici a disposizione allora) imperfetto che, una volta corredato della controparte russa – si ricordi che Poesie di Chlébnikov 1968 non aveva il testo originale a fronte! – avrebbe permesso al pubblico di specialisti, cultori e curiosi non solo di gustare la perizia di Ripellino, ma anche di confrontarsi con una nutrita rappresentanza dell’arte chlebnikoviana nelle due lingue. Al lettore del 2024, insomma, si chiede di situare idealmente questo volume in una sorta di territorio “franco”, – intimamente coeso e scolpito in un tempo non irredimibile – dove convivono, in acrobatica armonia, autore e traduttore/coautore.

Come Ripellino sia giunto a concretizzare un progetto editoriale su un autore, a cui si era mostrato affezionato fin dalla seconda metà degli anni ’40 del secolo scorso (è del 1949 un suo dotto articolo su Chlebnikov!), è principale argomento della introduzione al primo tomo della presente edizione, dove chi scrive ha cercato di fornire un diagramma non effimero del progressivo avvicinamento dello studioso all’oggetto del suo interesse scientifico e – me lo si lasci dire – affettivo. Avvicinamento che sfocia in un’idea di edizione già nel 1960, quando Ripellino, in una lettera a Italo Calvino dell’8 novembre, ipotizza, appunto, un lavoro su Chlebnikov, che tra l’altro, inizialmente, sembrava dovesse andare a occupare uno spazio nella nascente «Collezione di Poesia» (che esordì comunque con un russo nel 1964: Poesie di Fëdor Tjutčev, prefazione di Ripellino, trad. di Tommaso Landolfi). Che appunto si trattasse di un lavoro su Chlebnikov fece davvero la differenza nel prosieguo della realizzazione degli intenti dello slavista, che concepì il volume con un elevatissimo grado di personalizzazione, tanto che in una lettera a Guido Davico Bonino (30 ottobre 1966) scrive di considerarlo, anziché una traduzione pura e semplice (quindi un florilegio di Chlebnikov recato in italiano), un poderoso saggio sul poeta, a cui va ad aggiungersi una folta campionatura di traduzioni. Non – beninteso – che le poesie tradotte (più di quaranta, alcune molto lunghe) ricoprissero un ruolo meramente ancillare, ma senz’altro venivano incalzate dallo squisito – anche sul piano della ricercatezza lessicale – saggio introduttivo ripelliniano Tentativo di esplorazione del continente Chlébnikov, e dalle altrettanto doviziose Congetture sui testi, che andavano a costituire un tutt’uno paritario – anche per estensione – con le poesie. Dove, quindi, finiva Chlebnikov e iniziava Ripellino, in un volume che davvero sembrava già allora – complice la già richiamata assenza del testo russo – quasi pienamente suo?

L’edizione che qui presento rimette, apparentemente, le cose al loro posto, almeno dal punto di vista tipografico: a Ripellino è riservato il ruolo di autore del saggio, dell’antologia e del commento (come già figurava, peraltro, nella ristampa del 1989 delle Poesie); a Chlebnikov la paternità dei testi russi; ai due curatori, rispettivamente, un “dossier” su Chlebnikov-Ripellino e una nota bio-bibliografica e redazionale. Ma, per qualche strana alchimia, anche in questa distribuzione “logica” Ripellino, anziché recedere sullo sfondo, occupa la scena, quasi giustificando l’onda lunga dell’accoglienza quasi unanimemente positiva della stampa di allora (se ne possono leggere alcuni estratti nel summenzionato dossier), la quale apprezzò sia la qualità artistica (e quasi romanzesca) degli apparati, sia – non meno importante – l’osmosi profonda fra traduttore e tradotto (esemplare, in questo senso, il responso di un poeta e critico come Beniamino Dal Fabbro su «Il Gazzettino» di Venezia). Se, infatti, un traduttore (o anche un traduttologo) d’oggi, si volesse concentrare “solo” sulla caratura delle versioni, scoprirebbe, una volta calcolata l’ineludibile tara di un certo effetto retrodatazione provocato dal tempo trascorso (Ripellino amava peregrinare nelle regioni alte dell’italiano) e anche volendo muoversi con coordinate traduttive diverse, di non poter non fare i conti con il senso di tornito e rotondo che alita dalle versioni chlebnikoviane, che a loro modo ancora “fanno scuola”, pur se punteggiate da qualche libertà e da qualche licenza. La felice e ispirata adesione alla lettera (non priva di persuasive, talora necessarie, scelte interpretative qua e là), rafforzata da cadenze che richiamano la tradizione metrica italiana, ma sanno anche affrancarsene, dà quasi sempre l’impressione – parafrasando il Valéry della Caccia magica – di un tradurre sapientemente dosato tra le sollecitazioni del suono e quelle del senso.

Alessandro Niero

Gruppo MAGOG