12 Gennaio 2023

“Dopo tutto, la guerra ci ha reso liberi”: conversazioni con i poeti ucraini

Ostap Slyvynsky, Lviv

Il tempo si è fermato. In molti lo credono. I giorni sono diventati uno simile all’altro e si diversificano solo in qualche notizia speciale dal fronte o nel numero delle sirene antiaeree. A Lviv, per esempio, un giorno senza sirene antiaeree è come un giorno di riposo. A Kyiv si può dire lo stesso di un giorno senza attacchi missilistici. Non ci sono giorni di riposo a Mariupol o Kharkiv. Da quando sono ricominciate le lezioni all’università dove insegno (a distanza naturalmente e con frequenza facoltativa), ho ricominciato a distinguere tra i giorni della settimana.

Una volta ho letto un racconto dello scrittore polacco Tadeusz Borowski, prigioniero a Auschwitz, dove lui chiama la realtà dei campi nazisti “straordinaria”, “incredibile”, e “mistica”. E mi ero chiesto: come si possono usare parole così?

E adesso che c’è una guerra brutale nel mio paese, quando qui si verificano omicidi di massa, vedo davvero le cose in quel modo. Come qualcosa di straordinario o incredibile. Tutto questo avviene da più di un mese, la guerra sta sempre di più trascinandoci dentro, tutti noi che siamo rimasti qui e ancora non riesco a credere che tutto ciò stia veramente succedendo.

E un’altra cosa: ho la sensazione che tutto l’ambiente qui stia soffrendo. Pensavo di essere l’unico esageratamente sensibile ma molti dicono la stessa cosa.  Più che mai abbiamo cominciato a sentire il paese come un singolo organismo. Le ferite sono a Mariupol o vicino a Kyiv, il dolore si sente a centinaia di chilometri di distanza, a Lviv, dove io sono adesso.

E non solo perché molti rifugiati dall’est e dal centro dell’Ucraina che hanno provato l’inferno sono venuti qui e hanno a poco a poco cominciato a parlarne.

Questo viene sentito a un altro livello.

L’intero paese è diventato un paesaggio contaminato, un’espressione coniata da Martin Pollack per indicare un paesaggio macchiato dal crimine.

È diventato una continua ferita aperta.

Sentivo così per la Bosnia o la Siria. E ora molte persone al mondo lo sentono per l’Ucraina e, francamente, è insopportabile. Perché il nostro desiderio più grande era quello di essere un paese normale.

Fin dall’infanzia, dalla scuola, ci avevano insegnato il concetto che l’Ucraina è una vittima che ha sempre subito una storica ingiustizia e il processo della mia crescita e maturazione è coinciso nel tempo con l’emancipazione del mio paese, con l’abbandono di quell’immagine di vittima che si aspetta simpatia.

E ora quello stigma è tornato. Siamo di nuovo la vittima. Questa espressione ora è diffusa in tutto il mondo ed è molto più diffusa dell’espressione degli ucraini come una comunità che si difende eroicamente, che è in grado di far valere sé stessa e allo stesso tempo proteggere qualcun altro.

Si parla più di rifugiati che di guerrieri. Mi sembra che nel mondo di oggi la gente abbia paura del discorso militare e lo rifugga a favore di un sano umanesimo. È un punto di vista naturale ma distorto e, per quanto riguarda l’Ucraina qui e ora, anche ingiusto.

Quanto ai cambiamenti osservati in tempo di guerra… Nella relativa sicurezza di Lviv, città di retrovia, raramente raggiunta dai missili, si può vedere più che altrove quanto affamata di vita sia la gente durante la guerra. Dapprima fui sorpreso, perfino offeso, che i rifugiati dalle città bombardate venissero qui e si comportassero da normali turisti: osservano l’architettura, prendono il caffè al bar, ridono. Ma c’è una guerra là fuori – che vuol dire prendere il caffè e scherzare?  E poi capii che questa è una necessità psicologica ed è bene che ci siano luoghi e momenti in cui ci si può lasciar andare. È la nostra vita, irreversibile, non rinnovabile e non li puoi biasimare.

Ti abitui anche a cose che prima ti facevano paura.  Abbiamo smesso di preoccuparci delle sirene antiaeree. Meccanicamente, senza panico, facciamo ciò che è necessario fare: andiamo al rifugio o ci nascondiamo a casa tra due muri portanti. Non esco quasi mai di casa senza uno zaino in cui porto medicine, acqua, cibo secco e un power bank carico. Questa è la nostra nuova normalità.

Non riesco quasi a scrivere poesia o qualsiasi altra cosa che abbia in qualche modo a che fare con l’immaginazione. L’unica cosa che riesco a scrivere al momento è non-fiction. Il secondo o terzo giorno dell’aggressione russa cominciai a scrivere Il dizionario della guerra. L’idea mi è stata suggerita dal poeta polacco Czeslaw Milosz che nella Varsavia occupata dai nazisti scrisse il ciclo poetico The World, dove la maggior parte delle poesie spiegano concetti semplici come ‘fede’, ‘percorso’, o ‘finestra’. Cercava di spiegare come il significato delle parole cambi o diventi più chiaro in circostanze impossibili come la guerra. Io cerco di fare la stessa cosa ma non con la poesia. Scrivo monologhi di persone che stanno vivendo la guerra – rifugiati, volontari, dottori – e li trasformo in una specie di voci del dizionario dove frammenti di monologo diventano definizioni. Ne ho già più di trenta. Ma solo non-fiction a cui io do forma. Forse col tempo la mia immaginazione si risveglierà e riuscirò a scrivere poesie e racconti. Al momento è qualcosa di esagerato, o al contrario di insufficiente. Perché ciò che sta succedendo ora è impossibile da immaginare.

Quelli di noi che hanno vissuto la guerra tra il 2014 e il 2022, che sono stati costretti a fuggire dai territori occupati di Crimea o Donbass, non si sentiranno più soli tra noi. Perché ora noi condividiamo quell’esperienza. La sento come una specie di ombra. E finalmente capisco gli amici che sono sopravvissuti alla guerra in Bosnia e dicevano che chi non ha vissuto l’esperienza della guerra non capirebbe mai chi invece l’ha vissuta. Allora mi sembrava un’esagerazione, una sproporzionata separazione di un certo tipo di esperienza. Ora capisco che stiamo parlando della vicinanza della morte: non la si può semplicemente descrivere. In qualsiasi momento ora potrei ricevere una chiamata alle armi e dovrei andare al fronte, ma non provo né paura né panico. Provo piuttosto una sensazione di inevitabilità.  Non so perché sia così o come sia perfino possibile. In questi giorni penso anche: è bene che possiamo lottare per un certo futuro ma non abbiamo alcun modo di vederlo.

*

Andriy Lysenko, Lviv

Il primo giorno di guerra cerco senza successo di portare la moglie di mio fratello e la sua bambina di due anni al posto di blocco Shehyni al confine ucraino-polacco. Nella coda lunga 10 miglia, mentre le sirene antiaeree ululano e i bambini piangono, d’un tratto capisco che tutto questo non è nuovo per me: per quanto mi ricordi, il mio mondo pacifico è sempre stato un luogo di guerra.

Mia bisnonna, Paraskeva Dmytrivna, ha vissuto tutta la Rivoluzione e la Guerra Civile. Nata a Radziwill, è cresciuta nella tenuta dello stesso nome vicino a Poltava. Subito dopo la Rivoluzione fu costretta a cambiare il cognome e trasferirsi da parenti vicino a Nikopol. Assistette all’uccisione tramite sciabola del suo primo marito. Per quanto mi ricordi, i suoi occhi erano i miei occhi.

Mia nonna Alla Ivanivna è sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale.

Suo fratello minore morì davanti a lei, ucciso da una mina. Per quanto mi ricordi, i suoi occhi erano i miei occhi.

A quell’epoca lei era abbastanza vecchia per diventare membro dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini / Esercito insurrezionale ucraino, che difendeva la libertà dell’Ucraina sia dagli invasori nazisti sia sovietici.

Per la mia famiglia, e per la grande maggioranza delle famiglie ucraine, la guerra non è finita nel 1945. Il KGB rintracciò mia nonna e la condannò a 15 anni di prigione per aver fatto parte di una organizzazione antisovietica. A quell’epoca era incinta di mia madre.

Tetiana Volodymyrivna, mia madre, è nata in prigione.

La prima cosa che vide quando aprì gli occhi furono le sbarre alle finestre.  Per quanto mi ricordi, i suoi occhi erano i miei occhi.

Mentre mia nonna scontava quella che era fondamentalmente una condanna a morte – nessuno sopravviveva a 15 anni di lavori forzati abbattendo alberi nei ‘campi Potminsky’ in Mordovia (distretto Zubovo-Polyansky) – mia bisnonna con mia madre, il suo figlio maggiore, la moglie di lui, e il marito di mia nonna dovette trasferirsi il più lontano possibile da Kyiv e Mosca, alla città Kazakh di Lenger vicino a Shymkent.

Il fratello di mia madre, Vsevolod Ivanovych si ammalò di tubercolosi in quel clima rigido e pochi anni dopo morì. Non l’ho mai conosciuto ma mi hanno sempre detto che gli assomiglio molto. Ho visto la guerra con i suoi occhi – dal primo all’ultimo giorno.

Non ho mai conosciuto neanche mio nonno perché i suoi parenti lo convinsero a divorziare da mia nonna e sposare un’altra donna in modo che sua figlia potesse “avere una madre”. Quando il nuovo Segretario Generale dell’URSS, Nikita Khrushchev, annunciò improvvisamente un’amnistia per i prigionieri politici, mio nonno in ginocchio pregò mia nonna di perdonarlo, ma lei non lo perdonò e non lo rivide mai più. Lui visse a Kyiv per il resto della vita.

Alla ricerca di un clima migliore per la tubercolosi del mio prozio, l’intera famiglia, compresa la nonna appena rilasciata, si trasferì in Crimea – prima vicino a Yalta, poi a Yevpatoria. Nonostante l’amnistia, nessuno si sentiva al sicuro.

Non so cosa mi abbia influenzato di più, i racconti delle guerre e dell’esilio o il silenzio che avvolse la maggior parte della storia familiare.

La storia della mia famiglia è la regola, non l’eccezione.

Diverse generazioni di ucraini sono cresciute con la guerra sull’uscio di casa.

Così quando questa ha bussato alla porta di ogni casa ucraina il 24 febbraio di quest’anno, la maggior parte di noi ne ha riconosciuto la faccia.

Ci ha indignato, riempito di rabbia, dispiacere e dolore per tutte le vittime, ma per noi non è diventata una nuova esperienza.

Dopo tutto, per la maggior parte degli ucraini, il mondo pacifico non ha mai smesso di essere guerra.

“La guerra è padre di tutti e re di tutti; alcuni li ha mostrati come dèi, altri come uomini; alcuni li ha resi schiavi, altri liberi”, scriveva Eraclito nel VI secolo a.C. Questo filosofo una volta veniva chiamato “l’Oscuro”, ma per la regione che lo storico Timothy Snyder chiama “terre di sangue”, l’affermazione del vecchio saggio è la quintessenza della chiarezza. 

Dopo tutto, la guerra ci ha reso liberi e ha trasformato in schiavi i Putiniani, perché la guerra ci rende umani, e alcuni di noi quasi dèi, mentre i Putiniani vengono trasformati in zombie che sparano a donne e bambini, buttano bombe sulle aree residenziali e lanciano razzi a ospedali e scuole d’infanzia.

La guerra ci ha reso liberi, perché non siamo stati noi a cominciarla. Ci ha liberato dalla paura di morire sotto il fuoco nemico, perché sappiamo cosa vuol dire non dormire di notte per il terrore che “loro” – gli zombie in KGB, FSB o qualche altra uniforme – vengano per te o la tua famiglia.

Nessuno di noi vuole che altre generazioni di ucraini crescano con lo stesso terrore.  Non vogliamo che il mondo pacifico dei bambini che ora hanno l’età della mia nipotina Victoria rimanga un mondo di guerra. Se sarà necessario che ci gettiamo sotto i carri armati russi per creare un mondo davvero pacifico per la nuova generazione ucraina indipendente, lo faremo. O meglio, gli invasori cadranno sotto il loro stesso fuoco – tutti quei carri armati, aerei, e soldati che sono entrati nella nostra terra per fare della nostra pace una guerra.

*Compilato e curato da Ilya Kaminsky e Katie Farris.

Tradotto da Katie Farris, Oleksandar Fedienko, Helen Ferguson, Ilya Kaminsky, Marina Palenyy, Julia Sushytska e Alisa Slaughter. Tradotto dall’inglese in italiano da Giorgia Sensi e Mattia Tarantino. Originariamente apparso su “Los Angeles Review of Books”.

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