La traduzione delle Ten Principal Upanishads non fu per Yeats un capriccio dettato dalla vecchiaia. Come sempre, il poeta era famelico di rivelazioni, di ispirazioni. Nel 1937, in Un’introduzione generale alla mia opera – “scritta per un’edizione completa delle opere che non venne mai realizzata”, raccolta da Ottavio Fatica nella serie di saggi usciti per Adelphi come Magia nel 2019 – Yeats confessa che tema del poeta è “l’amore perduto o la pura e semplice solitudine”; annovera, tra i suoi eroi, Dante, John Milton, Shakespeare, Shelley, William Blake. Alcuni versi incantatori delle Upanishad – “Un saggio cerca nel Sé quelli che sono vivi e quelli che sono morti e ottiene ciò che il mondo non può dare” – fanno da collante alla lista. In uno dei suoi passaggi repentini, Yeats fonde l’epopea irlandese – dove Cú Chulain e Charles Parnell appartengono allo stesso tempo – alla sapienza vedica, Swedenborg ai santi bramani: senza Lady Gregory, scrive, “io forse non avrei parlato con Shri Purohit Swami né gli avrei fatto tradurre i viaggi del suo Maestro in Tibet, né lo avrei aiutato a tradurre le Upanishad”. Lady Gregory muore nel maggio del 1932: Yeats aveva conosciuto il guru da poco e percepì, tra i filari del caso, una continuità, un lecito legame tra India e Irlanda.
Segue il proclama di poetica di Yeats:
“Io sono convinto che in due o tre generazioni sarà generalmente riconosciuto che la teoria meccanica non ha realtà, che naturale e soprannaturale sono uniti, che onde evitare un pericoloso fanatismo dobbiamo studiare una nuova scienza; a quel punto gli europei troveranno forse un che di attraente in un Cristo posto contro uno sfondo non di giudaismo bensì di druidismo, non segregato nella storia morta, ma fluente, concreto, fenomenico”.
Il rapporto tra Yeats e Shri Purohit Swami fu lungo, costante, proficuo: il poeta irlandese lo introduce alla grande editoria britannica, gli introduce una manciata di libri – The Autobiography of an Indian Monk, 1932; The Holy Mountain, testo del mistico Shri Bhagwan Hamsa, 1934; la traduzione dello Yoga Sutra di Patañjali, 1938. Gli esperti diranno quanto si discosti dal vero la versione di Yeats delle Upanishad, tra scelte obbligate, variazioni sul tema, soccorsi lirici. Grazie a Ezra Pound, molti anni prima, dal 1912, Yeats aveva conosciuto la cultura giapponese – in particolare, la tradizione del teatro Nō – e quella indiana, tramite l’opera di Tagore; nessun poeta, prima di lui, aveva fatto ingresso nel sacrario della tradizione induista con tale impeto. Quando Yeats traduce le Upanishad l’esotismo è un ricordo, le ‘giapponeserie’ abbandonate in soffitta da un paio di decenni. Il poeta è sufficientemente anziano e ricco di gloria – cioè: avventato – per l’impresa impossibile; la sua traduzione sigilla il legame della poesia inglese con le suggestioni della religiosità orientale. Nel 1922 Thomas S. Eliot aveva concluso La terra desolata con – parole sue – “la chiusa formale di una Upanishad”, Shantih shantih shantih, che è la formula – “Sia pace pace pace ovunque” – che troviamo, reiterata, proprio nelle Upanishad tradotte da Yeats.
Che poi la traduzione delle Upanishad si leghi, inscindibilmente, con l’amore folle per la giovane, talentuosa (e disperata) Margot Ruddock non è dettaglio buono ai pettegoli. Nella Ruddock, Yeats ravvisa i caratteri della ‘maniaca’, della posseduta: la sweet dancer, la crazed girl – la danza dell’invasata – è figura che troviamo nei culti di Dioniso come nella tradizione d’Oriente. Vita mitragliata di simboli; il tempio, nell’epoca moderna, è sostituito dalla casa dei matti, dove sarà ricoverata la Ruddock, estatica diva – mentre Yeats resta sull’argine dell’estasi, a scrivere.
Naturalmente, Yeats non andò mai in Oriente. Il progettato viaggio in India, da compiersi nel 1937, “ufficialmente per incontrare Shri Hamsa (maestro spirituale dello Swami)” (Anthony L. Johnson), saltò perché la nuova fiamma del poeta, Lady Elizabeth Pelham, trentottenne, aristocratica, single, aveva rifiutato le sue avance. Anche questo è un tratto del ‘personaggio’.
In sostanza, le Upanishad ‘servono’ a Yeats per precisare il proprio linguaggio lirico, sono all’origine della sua nuova, inattesa fase poetica. Yeats – di volta in volta: capriccioso e preveggente, indulgente e spietato – è tra i poeti più potenti di ogni tempo per la capacità camaleontica di mutare; trova un ‘timbro’, per così dire, costante, che non si tramuta mai in ‘stile’; crea una forma senza cedere al formalismo; è classico anche quando sperimenta. Nel Credo che prepara l’ultima, grande poesia, Under Ben Bulben, Yeats scrive:
“Credo come credevano i vecchi saggi che sedevano sotto le palme, i banani o fra le rocce rese irraggiungibili dalla neve, mille anni prima della nascita di Cristo”
riferendosi ai Ṛṣi, gli antichi cantori della religione vedica, predecessori degli aedi e dei bardi, dei druidi e dei profeti biblici, di chi con il linguaggio equilibra gli elementi, istituisce una identità, ‘opera’. Nell’introduzione alle Upanishad, Yeats parla dei “saggi della foresta che hanno pensato tutto”, pensando di indicare una via alla poesia contemporanea. Secondo Yeats, il poeta non deve ‘impegnarsi’ nel sociale, ma ‘operare’ nel mondo, consegnando, semmai, una poetica alla prassi politica, senza lasciare che quest’ultima lo soffochi, lo sottometta. “I giovani poeti inglesi rifiutano il sogno e l’emozione personale” in vece delle “opinioni che li collegano a questo o a quel partito politico”; al discorso sull’anima preferiscono l’analisi psicologica; alla veglia nel tempio il discorso sulla fabbrica; al tremore della danza i profani ardori del ballo. Nella sacra orbita di Yeats ruotavano poeti come Herbert Read e Dorothy Wellesley, W.J. Turner, T. S. Eliot e i ‘cattolici’ Francis Thompson e Lionel Johnson; gli sembrava naturale che ogni poeta dovesse aderire a un proprio sistema simbolico, trovarsi una tradizione.
Naturalmente, una figura come Yeats – che agli illuministi preferiva gli illuminati – ambiva a essere fraintesa. Ebbe dei seguaci – Robert Graves, ad esempio, e Ted Hughes, teorico dell’astrologia come pratica lirica e di una mantica ubriaca – e diversi detrattori. A George Orwell lo legava il disprezzo verso i poeti che si danno, ipocritamente, alle questioni politiche, partitiche. Quanto al resto, divergevano su tutto. In un articolo apparso su “Horizon” nel gennaio del 1943, Orwell parte da un saggio di V. K. Narayana Menon – indiano, musicologo, imparentato con Tagore –, The Development of William Butler Yeats, per mettere in chiaro, provocatoriamente, il pensiero di Yeats. Intanto, Orwell ci dice un paio di cose di scaltra intelligenza. Primo: “le convinzioni politiche o religiose di uno scrittore non sono bizzarre escrescenze, ma idee che lasciano il segno anche nel più piccolo dettaglio della sua opera”. Il concetto rilancia la consueta polemica di Orwell: l’opera poetica di Eliot è marchiata dalla fede anglicana e dal credo reazionario del poeta; quella di Rudyard Kipling è macchiata dalla logica colonialista. Secondo: è troppo facile, oggi, rimpiangere il bel tempo che fu; “se è vero che lo scemo del villaggio, il folle, l’idiota, è più saggio del filosofo, non si capisce perché abbiamo dovuto inventare l’alfabeto. I poveri non lodano la povertà. Prima di disprezzare la macchina, la macchina deve liberarti dal bruto lavoro”.
L’attacco a Yeats è conseguente:
“Tradotta in termini politici, la tendenza di Yeats è fascista. Per la maggior parte della sua vita, e molto prima che sentissimo parlare di fascismo, Yeats ha perseguito la prospettiva di quelli che raggiungono il fascismo per una via aristocratica. Yeats odia la democrazia, il mondo moderno, la scienza, le macchine, il progresso e soprattutto l’idea dell’umana uguaglianza. Gran parte del suo immaginario riguardo al lavoro è feudale, benché sia chiaro che ciò non sfugga a un certo ordinario snobismo… Yeats, il poeta, comprende a colpo d’occhio che fascismo significa ingiustizia: proprio per questo lo acclama. Ma allo stesso tempo non riesce a capire che la nuova civiltà autoritaria, se mai arriverà, non sarà aristocratica. Non avremo, cioè, un governo di nobili con le facce ritratte da Antoon van Dyck, ma di anonimi milionari, di burocrati dal deretano aureo, di banditi assassini”.
Orwell compara l’esoterismo di Yeats – che però si traduce, in A Vision, in un sistema occulto e simbolico scritto per sé solo – al fascismo ‘magico’, la fascinazione dell’occulto con la visione contro-democratica: “Chi teme la prospettiva del suffragio universale, dell’educazione popolare, della libertà di pensiero, dell’emancipazione delle donne, predilige i culti segreti”.
Al di là delle opinioni personali del poeta, Yeats ha consolidato l’identità irlandese fondando una casa editrice – la Dum Emer Press, poi Cuala Press – e un teatro – il mitico Abbey Theatre – cioè autentici luoghi di agone poetico e dunque politico, spazi di accoglienza. Il primo presidente della Repubblica d’Irlanda – non una tirannia, una monarchia, tanto meno una teocrazia –, Douglas Hyde, pubblicava per le case editrici di Yeats.
Non amava gli uomini del suo tempo, Yeats, quelli di oggi, their unremembering hearts and heads (cuori e crani senza memoria), preferiva “i contadini e i gentiluomini di campagna/ la santità dei monaci e anche/ il riso fragoroso dei bevitori di birra”. Non possiamo dargli torto – sapeva che il poeta è di passaggio, un passeggero, tra spirali di cenere e vetrate di vento.