Nacque, si direbbe, entro l’orda di una profezia.
Oakland, California, una settimana dopo il primo dell’anno, è il 1919. La madre, Marguerite Pearl, muore nel metterlo al mondo – è al decimo figlio. Il padre, Edward Howard, non può occuparsene. Robert Edward Duncan, così, viene adottato dalla famiglia Symmens, d’onorata stirpe – il patriarca è architetto, traffica in lingue scomparse. Robert è atteso da costoro come una sorta di Messia: devoti teosofi, i Symmens, prima di adottarlo, consultano le carte e i referti astrologici. Le date devono quadrare affinché il futuro del figlio coincida con una qualche gloria. Da lì, forse, proviene la poesia di Robert Duncan, dai finimenti sciamanici, dove tutto è una costante lotta tra luce e tenebre – e quello sguardo, da Sibilla californiana, teso all’invisibile, coi tratti dell’allucinato.
Quanto al resto, Robert Duncan percorse la via lirica della rivolta. Studiò a Berkeley, imparò a dilatare la propria percezione lirica presso il Balck Mountain College, leggendario istituto dove transitarono Charles Olson, Robert Rauschenberg, John Cage. Ogni istituzione lo fiaccava. Si nutrì della musa anarchica: nel suo gergo, per capirci, il genio dionisiaco di Jackson Pollock si lega allo studio, acerrimo, di Pindaro e di William Blake, di Coleridge e degli alchimisti del Rinascimento. In una delle poesie più belle, Duncan ritrae la madre “come falconiere”; i versi hanno la ferma ferocia di un diorama, con la belva che, all’infinito, si mostra in assalto, la bocca spalancata, irta di dardi-denti.
Diventò celebre tra i nuovi poeti di San Francisco, pubblicò qualcosa per la City Lights di Ferlinghetti: mai schiacciate sull’oggetto, sull’elemento mondano e bruto, sul diktat sociale, su una poetica della politica (in cui precipitarono molti imitatori detti beat), le poesie di Duncan mantengono una sorta di oscura chiaroveggenza, le stimmate di un Emmanuele del verso. Kenneth Rexroth disse che era “uno dei più apprezzati e influenti poeti del dopoguerra”; lui spiegava il suo dire in questi termini:
“Lavoro al linguaggio come una sorgente d’acqua lavora la roccia, levigandola, per perpetuare il suo corso, ciecamente. In questo senso, io non creo ma costruisco una via”.
Dichiaratosi omosessuale, non lo imbarcarono nella Seconda guerra – dal ’44, s’imbarcò in una tormentata storia con Robert De Niro Sr., il papà del grande attore, artista dal talento certo ma sfortunato. Lo aveva conosciuto nell’elitaria ‘comune’ allestita da Anaïs Nin al Greenwich Village. Si unirà, più tardi, a un altro artista, Jess Collins. Sul settimanale culturale del “New York Times”, Jim Harrison scrisse che “per leggere Duncan con grazia e immediatezza bisognerebbe conoscere gli arcani di Norman O. Brown e la poetica di Ezra Pound”. Non è inesatto associare il sommo ‘Ez’ al pensatore psicanalista di Corpo d’amore, che riteneva la poesia un’arma di emancipazione del sé, anzi, di resurrezione dal pantano contemporaneo.
In sostanza, la poesia di Duncan, pur a graffi, resta fattura d’alto intelletto. Forse per questo in Italia ha avuto sostanzialmente scarso appeal e pochi alleati: nel 1981 esce una edizione delle Poesie per Newton Compton, a cura di Attilia Lavagno, che presenta Duncan come “un ‘classico’ tra gli ultimi americani”. Succubi di Kerouac & Co., non uscì più altro. All’epoca, per altro, Duncan era impegnato in una sua personale lotta contro il sistema editoriale statunitense, a suo dire asfittico, prono alle nuove mode poetiche. Dopo Bending the Bow (edito da New Directions nel 1968), non pubblicò altro – si ritirò a scrivere. Dal 1984 la stessa New Directions pubblica la serie Ground Work: Before the War e Ground Work: In the Dark (1987). Odore di testamento emanano quei versi, che come sempre costringono la mente a farsi aquila e nube, lupo e lume: Robert Duncan morì nel 1988, nei primi giorni di febbraio.
Scrisse una trentina di libri in versi, ottenne, tra l’altro, un Guggenheim Fellowship e un National Poetry Award. La Library of Congress custodisce parte dei suoi materiali, compreso un libro ‘mitico’, The Book of H.D., scritto tra il 1959 e il 1964, scomparso, pubblicato postumo, nel 2011. Cominciato come “un omaggio alla poetessa H.D., è divenuto una immane meditazione sulle radici del modernismo, una possente indagine nei lavori di Ezra Pound, William Carlos Williams, Edith Sitwell e molti altri, uno spaccato unico per comprendere la labirintica poetica di Duncan” (il libro è edito dalla University of California Press, a cura di Michael Boughn e Victor Coleman). “The New Republic” ne scrisse, senza mezzi termini, come di un – così il titolo del pezzo firmato da Jed Perl – Magnus Opus, “opera assoluta, selvaggia, abbagliante, idiosincratica”.
Ciò che resta, di questo poeta nato sotto feroci influssi astrali, sono alcune immagini indimenticate: la madre falconiere; la poesia come alce; il ragazzo che diventò satiro; il fiume che mette le trappole. Versi che fiammeggiano di una gioia piena: poco importa se ciò che ci ha abbagliato era un’effimera – tra fuoco e ghiaccio, tra sole e specchio, la differenza non è in gradi di luce ma nel genio dell’abbandono.
***
Mia madre come falconiere
Sarebbe stata un falconiere, mia madre
e io il suo falco, avvinghiato al polso,
che vola per consegnarle
dall’azzurro cielo un premio che sanguina,
solo per lei: sogno ancora un cappuccio con i campanelli
che tintinnano quando ruoto il cranio.
Sarebbe stata un falconiere, mia madre
mi avrebbe spinto ovunque, secondo il suo volere.
Mi lascia trottare fino alla fine del suo marciapiede
dove cado ancora, come sempre, nell’angoscia.
Temo che voglia abbandonarmi
perché cado, sbaglio, fallisco la missione che mi ha assegnato.
Farebbe crollare i piccoli uccelli
farei crollare i piccoli uccelli.
Quando mi farai crollare i piccoli uccelli
trafitti in volo, con il collo spezzato
le teste come fiori che si afflosciano sullo stelo?
Stringo il polso di mia madre, saprei farla sanguinare.
Oltre il mio cappuccio, incappucciati occhi.
Torno al mio incappucciato silenzio
nel cappio della solitudine – e dormo.
È lei ad aver disfatto i sogni del cappuccio
con i campanelli cuciti intorno, che tintinnano quando mi muovo.
Ora va in giro con un piccolo falco al polso
manovra una lancia che mi fa tremare.
Mi ha inviato all’estero per dar prova delle mie ali
e ora torno da lei. Vorrei empirla
di piccoli uccellini, li vorrei
strappare e che il mio volo sia perfetto.
Le strappo il polso con il becco e lei sanguina
è il suo occhio a imprigionarmi: terribile e pieno di dolore.
Ma è lei a fissare i termini del volo:
mai oltre il mio sguardo, dice.
Mi addestra a portarle le prede, mi pone dei limiti.
Mi compensa con la carne:
non posso mangiare ciò che mi ordina di catturare per lei.
Sarebbe stato bello se mi avesse sempre con sé
con il cappuccio con i campanelli che tintinnano
assiso sul suo polso, se mi invitasse
alla grande caccia al falco e io
volteggiando dal bordo del mio cuore al suo
costringerei l’azzurra allodola ai suoi piedi
forzando e liberando il suo volo.
Sarebbe stata un falconiere, mia madre,
e io il girifalco obbediente ai suoi voleri
inviato in volo, come se fossi
il suo orgoglio e il suo orgoglio
non avesse limiti, come se la sua mente
cercasse in me il volo oltre ogni orizzonte.
Ma sono volato troppo in alto
lontano, oltre la soglia della sua volontà
dove nidificano i falchi, tra onde di colline blu.
Vidi il sole che moriva, a ovest
e la mia umana anima era un fuoco.
Le strappai il polso, mi strappai dalla sua presa:
il sangue diventò caldo e lei gridava – ero
lontano, oltre il limite del suo volere
verso orizzonti di stelle, oltre i colli dove nidificano i falchi:
le strappai il polso con il mio becco selvaggio.
Volai, come se la vista volasse oltre la sua angoscia
come se fossi l’esito del crudele colpo al suo polso
e quel sangue fosse la mia libertà.
Sarebbe stata un falconiere, mia madre
e anche adesso, anni dopo,
ora che le ferite sono guarite
e la donna è morta
i suoi occhi feroci sono chiusi e il cuore
è spezzato, ed è immobile
sarei un falco e sarei libero.
Le strappo il polso, indosso il cappuccio
parlo da solo, la buco fino a far uscire il sangue.
*
Poesia come Cosa Naturale
Né vizi né virtù
forgiano il poema. “Vennero
e morirono
come fanno ogni anno
sulle rupi”.
Poesia
si ciba di pensiero, sentire, istinto
per procreare
urgenza dello spirito di saltare per oscure scale.
Bellezza: interiore persistenza
verso la fonte
che lotta contro un fiume che scende
chiamata che udimmo, a cui rispondemmo
nell’ultimo mondo
barrito primordiale
da cui sorge un mondo virgulto
salmone che non è allevato
nel pozzo dove s’incastra la nocciola
ma che lotta contro le inarticolate
cascate, cieco.
Ecco un’immagine che si adatta alla mente.
La seconda: un alce dipinta da George Stubbs
il palco stravagante dello scorso anno
giace ancora a terra.
Misera poesia dal volto di alce
polline per nuove corna
le stesse
“troppo pesante, troppo contratta”
la sua bellezza?
diventare alce.
*
Passaggio sulle acque
Siamo usciti di notte, in barca, sul mare,
perduti, mentre le vaste acque si chiudono come trappole.
Le barche si allontanano e siamo finalmente soli
sotto l’incalcolabile cielo, fiacco, lebbroso di stelle.
Lascia i remi, amore mio, dimentica
che il nostro amore è un coltello
che definisce confini che non sapremo superare
né distruggere mentre il cuore è alla deriva, nel sogno
e taglia il silenzio, furtivo: pioggia avvelenata sulle
nostre bocche, oscure ferite alle nostre spalle.
Dimentica le granate subacquee, la morte e le promesse
i giardini devastati nelle terre desolate, a ovest,
le stanze dove ci siamo entrambi bombardati.
Mentre andiamo, il tuo amore ritorna. Sento
la tua assenza come campane sotto un panno. Sale
nei tuoi occhi, proiettili di sale ci trafiggono. Ora
passi senza difficoltà nel mondo che incenerisce.
C’è soltanto crollo e cemento. La luce si spegne
si sparge tra le rovine della città, a riva:
in questa notte indistruttibile sono solo.
*
Riti di passaggio
Sta accadendo qualcosa.
Corna germogliano dalla fronte.
Zoccoli impazienti dov’erano piedi un tempo.
Figlio mio, la giovinezza sul tuo viso è allarmante.
L’innocenza del tuo sguardo mi affascina, ora.
Rabbia ti irradia ma la mia mano non vuole
che accarezzarti la guancia. Non oso.
Metri irregolari dividono il tuo cuore dal mio.
Annusi l’aria e prendi calore, scalci
tra gli ostacoli e mi raggiungi.
Dove appena ieri ho versato il vino
c’è un essere bestiale che diventa uomo.
Pace, pace. Ne ho abbastanza. Cos’altro
devo dire se non desidero altro che una canzone?
Il mio desiderio di cantare è tutto. Il tempo mi svuota.
Dov’era la mia giovinezza, ora il Sole ti rende bronzeo:
è giovane il tuo giorno, entra in trionfo nel mio ruolo. Per te
si è messa nell’atto di abbassare le corna. Una sfida. Non ha permesso
che il mio spirito in lotta se ne liberasse.
*
Spesso mi è permesso tornare al prato
come se fosse una scena forgiata dalla mente
che non mi appartiene, ma è un luogo creato
ed è mio ed è così prossimo al cuore
un eterno pascolo ripiegato in ogni pensiero
con una sala al suo interno
che è un luogo creato, creato dalla luce
dove le ombre che sono forme cadono.
Da cui cadono le architetture che io sono
che sono a somiglianza del Primo Amato
dove i fuori sono le fiamme della Signora.
Lei è la Regina Sotto il Colle
i suoi ospiti sono un fastidio di parole dentro parole
come un campo di ripiego.
È solo un sogno dell’ebra che sbuffa
verso est, alle fonti del sole
un’ora prima del tramonto
il cui segreto scorgiamo in un gioco di bimbi
nel ring di racconti rosati in competizione.
Spesso mi è permesso tornare al prato
come se fosse proprietà della mente
confine che argina il caos, luogo
delle prime concessioni
presagio eterno di ciò che è.
*
Che ne sapeva il dotto Coleridge
della fortezza del cuore
che lo ha allontanato dal mondo
dello spirito dopo anni di chiacchiere?
Chi ha seguito Christabel
e la ha attesa sulla soglia?
Quale lucore avrebbe preso l’aria
se avesse scritto di più?
Un dottore angelico a guardia
della splendente pioggia
gli ha dato dell’occhio per allentare
la pena immortale.
(1955)
*
Lascia che i miei versi siano alti e secchi
finché la tua mente non scorrerà in queste acque.
Lascia che le rime diventino fiume
finché non s’infiamma il sentire intendo
dire che tutto brilla! Questo è un canto di lode
in cui la ferita scorre nel suo rio
e le sue spire accendono di tanto in tanto
l’oscurità e la luce del giorno che rifulge
con scintille di una rima che sempre risuona.
Null’altro che un ritratto dell’effimero:
ciò che credemmo acqua ci abbaglia
e il cuore vampa come uno specchio solare.
(1980)
Robert Duncan