Diversi anni fa – dieci, credo – sono andato ad ascoltare Michael Nyman. Mia figlia, semiaddormentata, nel cesto della bici, orde di vampiri per le strade. Michael Nyman suonava, all’alba, d’estate, sulla spiaggia di Riccione. Non proprio la cruda spiaggia neozelandese su cui approda Ada McGrath, scozzese, afflitta da mutismo, in un giorno imprecisato di metà Ottocento. Il concerto – mentre il sole sorgeva ricacciando fate e sogni in un antro della mente, frenando le fughe e gli esperimenti di una vita puramente onirica – fu quasi indimenticabile. Michael Nyman è per lo più monotono, uguale a se stesso: la colonna sonora di The Piano, anche per questo, è un piccolo capolavoro. La monotonia, quando si trova il giusto tono, porta a uno stato di incantamento, di beata ebetudine.
Ancora oggi, ascolto le musiche di The Piano pensando a una vita arcana, reclusa tra tende, nel privilegio della contemplazione, dove ogni singolo ticchettio – la pioggia sulla finestra, il cucchiaio nella tazza, l’ombra che si spezza tra una variazione di bianco, in un lebbrosario di nostalgie – è il singolare riassunto di un cosmo.
Ad ogni modo: trent’anni fa, nel 1993, The Piano – da noi ha un titolo più lezioso: Lezioni di piano – esce al cinema, fa scorta di premi, tra cui la Palma d’oro a Cannes e tre Oscar su otto nomination. La storia, che rischia ad ogni istante di cadere nel patetico – ménage à trois su sfondo esotico con pianoforte come convitato di pietra – mantiene un pathos esatto, grazie alla regia micidiale di Jane Campion, che alterna violenza e candore, verità e pettegolezzo, squarci selvaggi e intimi dettagli.
Cinta da personaggi un po’ troppo scheggiati – l’onesto, ruvido, puritano Alistair Stewart/Sam Neill; l’inselvatichito, tatuato, buono George Baines/Harvey Keitel –, è Ada il cardine della vicenda. Donna affascinante per effrazione, bella per eccesso di oscurità, mutilata, depositaria di un dono che la fa mostruosa, innaturale, non nata al suo tempo. Nel nome, Ada detiene una nobiltà screziata: in ebraico Adah è ciò che adorna – amuleto, sigillo, ferita-feritoia. Un dono che non perdona. Ada o ardore è il titolo di un romanzo di Vladimir Nabokov. Naturalmente, Holly Hunter – la muta Ada, continuamente mutilata, martire d’arte e d’amore – fece incetta di riconoscimenti: non le riuscì più film di simile altezza – ed è bene che le cose siano uniche, irreparabili.
Il pianoforte è l’altare e il dio cavo, la bocca e la porta, la culla e il pozzo.
La sceneggiatura di Jane Campion – di radiosa riuscita: ne traduciamo alcune parti, in calce – deriva, secondo alcuni, da un libro di Mary Jane Mander (1877-1949), The Story of a New Zealand River. Pubblicato nel 1920, quel romanzo – finora inedito in Italia – è centrato su una donna, Alice Roland, che con la sua bimba è catapultata a Pukekaroro, in una foresta di kauri, nella nuova casa del marito, Tom. Oltre ai paesaggi, dal magnetismo claustrofobico – “Il fiume non era che un esile spago sul fondo della valle, murata da colline a precipizio, che impedivano la luce fino a mezzogiorno. Dai banchi di mangrovie al cielo, svettava una inquietante quantità di alberi: il colore primaverile della foresta era sfrenato, passava dall’oro lascivo al rosso, a ciuffi gialli e cremisi, alle clematidi bianche, le pallide felci su cui si riposava l’occhio, saturo” –, c’è anche un pianoforte, il lusso di Alice, “la sola cosa che le interessasse”. Quasi subito, la vediamo mentre suona Chopin, “un notturno e un preludio, interpretati con sentimento, con una tecnica brillante”. Tuttavia, nel romanzo di Mary Jane Mander – una vita passata per lo più nel giornalismo, con sortite a Londra, senza eccessive soddisfazioni – il tema “sociale” ha la prevalenza su quello sentimentale, e il pianoforte è infine un accessorio di costume. Alice è donna solida e inquieta, lontana dalle ossessioni di Ada: tra le due non c’è confronto.
Quanto alla Campion, disse di aver scritto The Piano sommando Cime tempestose a La mia Africa. Non credo sia un caso che tre anni dopo la regista abbia portato sullo schermo Ritratto di signora, film tratto dal romanzo di Henry James, con indimenticabile Nicole Kidman. Ada, forse, è il demone di Isabel Archer, il suo negativo.
La sceneggiatura della Campion ha un fascino letterario, nudo. Ecco alcuni passi dalle scene finali:
Le mani di Ada si muovono sui tasti del pianoforte. Il dito di metallo brilla nella luce semplice, fioca. Ada cammina su e giù nel piccolo salotto. Le luci sono spente; resiste la patina blu della sera. La donna ha un panno scuro in testa, ripete le vocali. Ada (voce fuori campo): “Di notte! Penso al mio pianoforte nella sua tomba oceanica, e a me, che fluttuo sopra di lui. Laggiù tutto è così immobile e silenzioso da cullarmi, fino al sonno. È una strana ninna nanna, una strana mania. Ma è la mia”. Il pianoforte di Ada sul fondo del mare, sopra di esso galleggia Ada, le braccia tese, i capelli che ondeggiano, in segno di resa. Il corpo si muove lentamente, legato all’estremità della corda.
Se il miracolo resta, è il sacrificio che non si compie. Quando Ada riacquista la voce, qualcosa si scioglie per sempre: un nodo, un voto.
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Da “The Piano”, Jane Campion
Ada: La voce che ascolti non è la mia voce: è la voce della mia mente.
Non parlo da quando ho sei anni. Nessuno sa perché – nemmeno io. Mio padre dice che è un dono, un dono oscuro, e che il giorno in cui deciderò di smettere di respirare sarà il mio ultimo giorno sulla terra.
Oggi mi ha dato in sposa a un uomo che non conosco. Presto io e mia figlia lo incontreremo, nel suo paese. Mio marito dice che il mio mutismo non lo infastidisce. Dio ama le creature mute, amerà anche voi, ha scritto.
Deve essere buono, deve possedere la pazienza di Dio perché il silenzio, alla fine, infesta ogni cosa e ogni cosa corrode. La cosa strana è che io non sento il mio silenzio, grazie al pianoforte. Il pianoforte. Mi mancherà durante il viaggio.
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Scozia
Una donna in abiti vittoriani, scuri, è seduta, appoggiata a un albero. Le mani le coprono il viso, al collo ha un taccuino. Attraversa un campo fitto di alberi spogli: sullo sfondo, lontana, la casa di pietra a tre piani. Siamo in Scozia.
Una bambina sui pattini, lungo un corridoio scarsamente illuminato. Una cameriera la insegue: la bimba è scomparsa.
Tre uomini, con lunghi camici grigi, preparano l’imballaggio per il pianoforte. Sul braccio di un uomo, il tatuaggio di una balena, nell’oceano.
La bambina con i pattini è a cavallo di un piccolo pony nero. Un vecchio lo tira, ma la bestia non si muove. Sullo sfondo, la casa di pietra.
La donna solleva le lenzuola dal fondo del letto: la bambina indossa ancora i pattini. La donna taglia i lacci, toglie i piccoli stivali. Un pattino rotola lungo la stanza.
La donna è in piedi, davanti a una finestra illuminata dalla cruda luce lunare. La pelle è bianca, lattea, lucente. Tocca il telaio di legno della finestra, la tenda, gli oggetti sul bordo della finestra: con le mani esegue un atto di addio. Voltandosi, si porta presso il pianoforte, circondato da scatoloni. Nella penombra, suona. Il viso teso, totalmente coinvolto, inconsapevole dei suoni inquietanti provocati dalla musica. Una vecchia la sorprende. Di colpo, la donna smette di suonare: il viso, ora, si fa solido, duro, come un muro.
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Nuova Zelanda, spiaggia.
Da sott’acqua vediamo il movimento di una barca, i remi che rompono la superficie.
In mezzo al mare, una donna, Ada, portata a riva sulle spalle di cinque marinai. L’ampia gonna vittoriana si allarga sulle braccia degli uomini: la donna indossa una cuffia nera, al collo il solito taccuino. La donna sembra un’offerta sacrificale deposta sulla baia, totalmente disabitata. Blocchi di sabbia nera contro la radura.
Ada è sulla spiaggia. I piedi affondano nella sabbia bagnata. Confusione di felci e cespugli di fronte a lei. L’oceano fragoroso alle spalle. Alcuni marinai, in gruppo, pisciano sulla spiaggia. La figlia è piegata, sta male. Ma l’attenzione di Ada è catturata dall’enorme scatola a forma di pianoforte. I marinai la posano sulla sabbia, ma Ada ordina che devono immediatamente metterla in un luogo più solido. La donna si avvicina al pianoforte, ora in uno spazio sicuro: con una mano lo tocca, dall’altra mano si libera la figlia.