Il 7 gennaio Vitaliano ha tolto in disturbo, per insopprimibile, insopportabile stanchezza di vivere. Abbandonatosi nella sua casetta dai muri bianchi di Contrada Molino, frazione di Campodalbero, a 900 metri d’altitudine in provincia di Vicenza, orientata verso la Lessinia, non casualmente ripopolata da quei lupi di cui l’occhiglauco Vitaliano aveva ereditato lo sguardo penetrante e tagliente.
Una conoscenza non recente, la nostra, fin dalla fine del passaggio del Millennio, in cui mi lasciò un messaggio, alla segreteria dell’assessorato alla Cultura di Vicenza, con cui collaboravo in quel periodo. Al nostro incontro, forse un centinaio di parole, moltissimi sguardi, i suoi, poche sillabe, le mie. Ci rivedemmo a breve nel mio studio, dove chiese di raggiungermi per “sapere di più sul mio lavoro” e condividerne la temperatura d’artista. Incontri strani, distanti, in cui, il più delle volte, si appartava da solo a “farsi una paglia”, seduto in mezzo alla parte più luminosa dello studio. Nessuna empatia, nessuna domanda, nemmeno una particolare attenzione alle tele posate (girate accuratamente verso la parete): una manifesta estraneità, riflessiva, autoreferenziale, muta. Vitaliano faticava meccanicamente a parlare, la mascella irrigidita, presumo non per malformazione fisica, quanto per un’autentica resistenza mentale alla condivisione, per lo sforzo innaturale a rendere sonoro il suo pensiero. Nei nostri incontri, più le cose pensate di quelle dette, spesso interpretabili dal suo sorriso sottile, sbieco, a volte beffardo, impegnativo, assimilabile con facilità all’incomunicabilità beckettiana, autentica personificazione della scrittura di Thomas Bernhard, di cui, non casualmente, assorbirà la temperatura espressiva: Ungenach come Contrada Molino, una vita ritmata da Il Gelo, Perturbamento, dalle tormentate liriche della raccolta Sulla terra e all’inferno.
Anticipando quel che sarebbe stata la sua fortuna editoriale, una mattina mi raggiunse citandomi il numero dei passi che lo separavano dalla sua meta di partenza di quel giorno. Non chiesi chiarimenti, scaturendo da lui un’osservazione apparentemente criptica e quindi compatibile con il suo modo d’essere. Passò l’anno seguente senza condivisioni, solo alcuni, sporadici incontri al bar, dove Vitaliano a volte sorbiva il suo decimo caffè quotidiano. Non parlò mai delle sue precedenti uscite editoriali e l’impressione che ne traggo oggi è che non volesse crearsi preclusioni per qualcosa che avrebbe dovuto chiedermi in seguito. Alla fine del 2001 mi parlò, infatti, della stesura de I quindicimila passi, lo scritto decisivo che lo fece entrare nella scuderia dorata di Einaudi. Avendolo visto camminare a Vicenza su e giù per Corso Palladio come un lupo in cattività per interi pomeriggi – come mi riferiva quasi fosse una prova di resistenza – non mi apparve strano il conteggio claustrofobico delle distanze in passi, dalle più disparate destinazioni della città, esercizio sistematico e ossessivo che impegna la mente nei momenti di estrema difficoltà, sia svolto camminando, oppure, per esperienza diretta, conferendo consapevolezza ad ogni singolo gesto, anche il più banale, come afferrare con cura le chiavi dalla tasca, selezionare quella giusta con accuratezza, infilarla della toppa al primo tentativo con misurata pressione, girarla docilmente in senso antiorario, una, due volte, accompagnando con il pensiero e lo sguardo attento ogni movimento del palmo e delle dita, la leggere torsione del polso, per poi sfilarla con metodo, riponendola. Vitaliano, con la sua postura, il suo sguardo distante, il suo silenzio attivo, in totale assenza di mimica, manifestava la sua difficoltà con il mondo, prima di tutto con quella provincia di Vicenza che attaccherà con ferocia, dalle fondamenta, pur rimanendone un figlio naturale, un prigioniero a vita, un condannato – a morte – consapevole.
Si decise infine per l’anteprima del suo nuovo libro, I quindicimila passi, l’11 aprile 2002, la sua prima istituzionale, ottenendo il supporto del giornale locale con l’intervento del suo direttore, la sala dei Chiostri di Santa Corona in pieno centro storico, la stessa dove avevo presentato Vittoria Marinetti, Mary de Rachewiltz Pound, Giuseppe Conte, Tomaso Kemeny, i compianti Valentino Zeichen e Andrea G. Pincketts e molti altri. Gli piacque l’idea di sparigliare il vuoto pneumatico delle premesse con l’azzardo schioppettante della titolazione della Serata a zampa d’elefante, riproducendo la coloratissima copertina dello storico, primo numero della rivista Frigidaire, frequentata da entrambi. Spezzoni del libro sarebbero stati letti dagli attori di una compagnia teatrale. Ma da quel momento, divenne protagonista assoluto della scena: sulla scelta dei brani, calendarizzando prove per indicare le differenti modalità di recitazione, inflessibile con gli attori sulle pause, i toni, le accentazioni, recitandosi, a sua volta, con voce metallica, monotòna, seppur con la marcata, insopprimibile cadenza veneta. Didatta con gli attori, coordinatore con l’ufficio stampa del Comune cui supervisionava mailing list e contatti, lamentò l’assenza del sindaco, del fotografo ufficiale e delle riprese della tv locale. La sera prima, a sorpresa, mi reclamò il cachet della serata, mai corrisposto ad alcuno dei precedenti ospiti, appena accennato come possibilità, mesi prima e divenuto imprescindibile per la sua partecipazione. Una volta risolto in qualche modo il problema, riuscì una serata collaudata, ma tesa, con sala esaurita e pubblico in piedi. Bei tempi.
In realtà, nulla di quanto reclamato mi parve, in realtà, imprevedibile, nemmeno l’improvvida rivendicazione economica: negli anni, in pressoché tutte le interviste, Vitaliano ribadirà l’assoluta centralità dell’aspetto pecuniario come riscatto dai suoi fallimenti, anzi proprio perché ottenuto grazie al loro racconto. Una delle tante prigioni caratteristiche del Nord Est in cui egli stesso si auto-relegherà, pur criticandole aspramente, senza nemmeno tentare di liberarsene, in quell’auto-fustigazione cui si dedicherà anche come scrittore, alimentandosi a pieni polmoni di quella sofferente prigionia. Parlammo poi di una riduzione teatrale del libro, ma non se ne fece nulla perché non seppi indicare tempestivamente il budget preciso a disposizione.
In un’assolata giornata di quell’estate, trovai nella buca delle lettere dello studio una copia de I quindicimila passi dedicata a mia madre Yvette, che gli avevo citato come accanita ed esigente lettrice. Una sorpresa del tutto inaspettata.
L’ossessività maniacale, sistematica e fredda di Bernhard, con la claustrofobica territorialità di Ungenach, la minaccia terminale e tremenda de La Cantina, il sistema delirante di Correzione, la follia sprezzante delle sue pièces teatrali, le citazioni feroci, sinistre e spietate che evocano l’incesto nazista di Prima della pensione, aggallano circolarmente in Trevisan, alimentate da una dimensione caratteriale affine al suo racconto. Un’Arte-Vita assimilata da numerose esperienze lavorative che risulteranno centrali nella sua produzione letteraria e che esibirà come trofei, dettagliandole nelle 656 pagine del ponderoso testo Works, simmetricamente tentativo di liberazione psicanalitica e conferma di dipendenza coatta. Trevisan citerà frequentemente questo nomadismo lavorativo come “fallimenti”, in verità senza plausibili ragioni: riceverò infatti l’unica parvenza di partecipazione emotiva dal suo racconto proprio come portiere di notte in un hotel in prossimità del casello di Montecchio Maggiore, limitrofo all’indecente Bangkok della strada statale che conduce a Vicenza, costellato da aneddoti scabrosi a sfondo sessuale, in cui ricordo di averlo perfino visto sorridere. Oppure dal racconto del commercio di sostanze psicotrope, rispetto al quale parlammo addirittura di Avvicinamenti di Ernst Jünger, oppure del salottino borghese dello studio di architettura frequentato, da dipendente, per anni, forse laboratorio per quell’evocazione della malvagia ipocrisia della provincia, cui avrà modo di accennare in molte interviste. Anni dopo, in un incontro sbrigativo al bar, gli chiesi perché ritenesse così rilevante l’aver fatto molti mestieri, raccontati come una via crucis priva di espiazione. Sorrise ostile, alla maniera che conoscevo.
Vitaliano, in molti anni, non mi ha mai posto domande e, a mia volta, non mi sono mai dato risposte, nemmeno sulla sua accanita, ostile distanza dal sacro (sancito dalla bestemmia, pur pubblicata da Einaudi), nonostante una visibile, inconsolabile sofferenza, evidente al primo contatto. Sofferenza probabilmente indispensabile all’uomo per la sua crescita autentica, ma che può anche risultare in parte pacificatoria, a volte salvifica. Non in Vitaliano, che ci si macerava dentro per alimentare la sua vena espressiva, pur riconoscendo che dalla scrittura non otteneva nessun linimento, nessun sollievo: una via al successo divenuta dannazione.
Dell’autunno inoltrato l’ultimo incontro, laborioso, pressoché casuale, per un caffè, con un lungo silenzio iniziale e poche nuove riguardo i Tulipani neri, di prossima uscita, o per la sua prima teatrale a Udine, scandite da un deserto espressivo corroso dalla autoreferenzialità e da uno sguardo dominato e concluso, segnale di un tempo scaduto, stritolato dalle spire di una sofferenza alimentata ma ormai insostenibile, definitiva.
Una fine autoimposta che lo situa definitivamente e stabilmente nell’olimpo della letteratura nazionale, in prossimità di vaste, prevedibili celebrazioni, soggetto perfetto anche per riferimenti letterari, minimalismo espressivo, umile estrazione, difficoltà esistenziali, precarietà lavorativa, incomunicabile fragilità, ostilità verso il sacro, sofferente solitudine, instabilità psichica e tragicità conclusiva.
Perfetto, perfino da dichiarato, ostinato, irriducibile no-vax.
Roberto Floreani
Vicenza, 10 gennaio 2022