Nel 1909, quando Gandhi scrive a Tolstoj, in inglese, Dear Sir, compie quarant’anni, è in Sudafrica, ha fondato da tempo il National Indian Congress, ha fatto voto di castità, vive come un monaco, e ha teorizzato il satyagraha. Legge, tuttavia, da tempo, i saggi di Tolstoj, “uno dei miei insegnanti per molti anni”, dirà. Nel 1890 Tolstoj aveva scritto un saggio, Perché la gente si droga?, in cui sviscera il tema determinante: la menzogna dell’esistenza contemporanea, cittadina, ineguale, tesa al consumo, proiettata verso ambizioni fatali, fallaci (“La vita che si conduce non è così come dovrebbe essere secondo le esigenze della coscienza”). Nel 1901 invita all’obiezione di coscienza rivolgendosi ai soldati dell’esercito russo (“Cosa devi fare? Che tu abbassi il fucile e ti rifiuti lì per lì di sparare sui tuoi, non vuol dir nulla… Dio ti comanda di non uccidere”), poi si rivolge allo zar, lotta contro la pena di morte. Nello stesso anno subisce la scomunica da parte della Chiesa Ortodossa; “mi sono convinto che la dottrina della chiesa è, dal punto di vista teorico, una menzogna perfida e dannosa”, scrive nella sua tonante Risposta alla deliberazione del sinodo. Tuttavia, è la Lettera a un indù, pubblicata nel 1909, a convincere Gandhi di rivolgersi a Tolstoj. Lo scrittore russo aveva risposto a un appello rivoltogli da Tarakuatta Das, direttore di “The Free Industan”: come reagire all’ingiustizia perpetrata in India, dove “l’umanità soffre fino al limite estremo”? Tolstoj propone, come sempre, la “legge dell’amore”, “naturalmente propria del cuore dell’uomo”, scagliandosi contro i falsi miti del progresso, le “università per l’insegnamento di innumerevoli scienze, il moltiplicarsi dei libri e dei giornali, le costituzioni, le rivoluzioni, o qualsivoglia conferenza o i congressi o le nuove astruse invenzioni per la navigazione subacquea, per il volo aereo, o per gli esplosivi più potenti” (i “saggi su società, politica, religione” di Tolstoj sono raccolti come Perché la gente si droga?, Mondadori, 1988). Gandhi, che in Sudafrica aveva fondato un ashram secondo i dettami del tolstoismo, traduce alcuni passi della lettera su “Indian Opinion” e inaugura un breve carteggio con Tolstoj (reperibile con difficoltà in: Pier Cesare Bori-Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino, 1985). Lo scrittore, come sempre, risponde in modo alato, aureo, infine da distanza siderale; occupato, da tempo, a costruire una certa immagine di sé: quella del maestro spirituale. Ingabbiato da quella immagine; crocefisso, forse. “Gli debbo molto, certo, e lo vanto come uno dei miei maestri. Ma con tutta umiltà posso dire che Tolstoj non mi ha arrecato qualcosa di nuovo, ma egli mi ha fortificato in certe cose confuse in me. Io non debbo interamente a Tolstoj la dottrina della resistenza nonviolenta, ma è ai suoi scritti che debbo la forza maggiore”, dichiara Gandhi nel 1931. In effetti, neppure Tolstoj corrispondeva ai propri proclami: l’animo di quell’uomo, di fragorosa, bellissima ingenuità, arde di inquietudine. “Ho voglia di scappare, di scomparire per sempre”, scrive nel suo diario, è il 1906. E poi, nel 1910, poco dopo aver scritto a Gandhi la lettera che ricalchiamo, “Sono sempre più e sempre più oppresso da questa vita”. Infine, scapperà – per morire. In un quadro di Il’ja Repin, Tolstoj ha la solita camicia bianca, la barba oceanica, e tigri negli occhi. Tiene le mani nella cinta; è a piedi nudi, in un bosco. A piedi nudi. Ecco. Eccolo, Tolstoj.
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Al Mahatma Gandhi
7 settembre 1910, Koĉety
Più vado avanti nella vita, più desidero dire agli altri, specialmente adesso che mi sento vicino alla morte, ciò che sento in modo particolarmente vivo e che, secondo me, è di un’importanza enorme, e cioè quel che si chiama la non resistenza, ma che, essenzialmente, non è altro che la dottrina dell’amore non svisata dalle false interpretazioni. Che l’amore, cioè l’aspirazione delle anime verso l’unione e verso l’attività che ne deriva, costituisca la somma, l’unica legge della vita umana lo sente e lo sa nel profondo dell’anima ogni uomo (come si vede più chiaramente nei bambini); lo sa finché non viene confuso dalle false teorie mondane. Questa legge è stata proclamata da tutti i saggi del mondo, indiani, cinesi, europei, greci, romani. Penso che sia stata espressa più chiaramente da Cristo, che ha detto apertamente che solo in ciò consistono tutta le legge e tutte le profezie. Ma non basta: prevedendo lo svisamento al quale questa legge è stata sottoposta, e al quale può essere sempre sottoposta, egli ha indicato chiaramente il pericolo di questo svisamento, che è proprio delle persone che vivono per gli interessi mondani, e precisamente il pericolo di permettersi una difesa di questi interessi per mezzo della forza, cioè, come egli disse, di rispondere ai colpi con i colpi, di togliere con la forza gli oggetti appropriati eccetera eccetera. L’uomo sa, e qualsiasi persona ragionevole non può non sapere, che l’uso della coercizione è incompatibile con l’amore quale legge fondamentale della vita, che non appena viene permessa la coercizione, qualunque ne sia l’occasione, viene riconosciuta l’insufficienza della legge dell’amore e quindi viene negata la legge stessa. Tutta la civiltà cristiana, che sembra splendere così tanto, è cresciuta su questo malinteso e su questa contraddizione manifesta e strana, a volte coscientemente ma, nella maggioranza dei casi, inconsciamente.
In sostanza, non appena fu permessa la resistenza con l’amore non ci fu più né ci poté più essere l’amore quale legge della vita e non ci fu legge dell’amore oltre la violenza, cioè l’imposizione del più forte. Così l’umanità cristiana ha vissuto durante diciannove secoli. È vero, in ogni tempo gli uomini si sono lasciati guidare nell’organizzazione della loro vita dalla sola violenza… Tutta la vita dei popoli cristiani è una lampante contraddizione fra ciò che professano e ciò su cui fondano la loro vita: la contraddizione fra l’amore, riconosciuto quale legge della vita, e la violenza, riconosciuta addirittura come necessità sotto diversi aspetti tutti riconosciuti e esaltati, come l’autorità dei regnanti, i giudici e l’esercito. Questa contraddizione è cresciuta continuamente insieme col progresso degli uomini del mondo cristiano e, in questi ultimi tempi, è arrivata all’estremo. Adesso la questione si presenta evidentemente così: o ammettere il fatto che non riconosciamo alcuna dottrina religiosa e morale, e ci lasciamo guidare nell’organizzazione della nostra vita unicamente dalla violenza del più forte, oppure ammettere che tutte le nostre istituzioni, i tributi ottenuti con la forza, i tribunali, la polizia e soprattutto l’esercito, devono essere abolite…
Il socialismo, il comunismo, l’anarchia, l’esercito della salvezza, la criminalità in aumento, la disoccupazione, l’insensato e crescente lusso dei ricchi e la miseria dei poveri, il numero terribilmente alto dei suicidi sono tutti segni di questa contraddizione interiore che deve e non può non essere risolta. S’intende, essere risolta nel senso del riconoscimento della legge dell’amore e del rinnegamento di qualsiasi violenza. E perciò la vostra attività nel Transvaal, che a noi sembra in capo al mondo, è pure un’opera centrale, la più importante delle opere che vengano svolte adesso nel mondo. Penso che vi farà piacere sapere che anche da noi in Russia questa attività si sta diffondendo rapidamente sotto forma di rifiuti al servizio militare che aumentano ogni anno. Per quanto insignificante sia il numero dei vostri uomini che rigettano la resistenza e di quelli che da noi, in Russia, rifiutano il servizio militare, sia gli uni sia gli altri possono dire coraggiosamente che Dio è con loro. E Dio è più forte degli uomini.
Nel riconoscimento del cristianesimo, anche nella forma svisata nella quale viene professato fra i popoli cristiani, e nel riconoscimento, nello stesso tempo, della necessità degli eserciti e delle armi per uccidere con enormi masse di soldati, c’è una contraddizione così chiara, così lampante, che prima o poi, probabilmente molto presto, deve venir fuori, e bisognerà abolire o il riconoscimento della religione cristiana, che è indispensabile per appoggiare l’autorità, oppure l’esistenza dell’esercito e di qualsiasi violenza da esso sostenuta, e che non è meno indispensabile all’autorità…
I governi sanno dove sta il loro pericolo principale e proteggono con vigilanza i loro interessi: si tratta di essere o non essere. Con perfetta stima,
Lev Tolstoj
*Il testo è tratto da: “Le lettere di Lev Tolstoj. 1876-1910”, scelta, traduzione e note di Lubomir Radoyce, Longanesi, 1978