13 Febbraio 2023

Sanremo è il Gulag dell’Immaginazione di Stato

Sanremo è un grande amore e un treno. Più il secondo che il primo. Il treno del film Il ragazzo di campagna di Pozzetto. Paesino sperduto, tramonto arancione, ci si porta le sedie. Passa il treno. Qualcuno si lamenta. Qualcuno dice “ah, il treno è sempre il treno” Si va a casa. 

Sanremo è un treno quindi: ogni canzone di Sanremo di ogni epoca, più quelle a Bpm lento, ma anche le altre, sono un treno, un treno merci lunghissimo, che passa tra pancia e apparato riproduttivo su intestino crasso, gonadi, salpingi, tube, vescica, prostata, utero e tutto quel che in basso c’è.

Ma Sanremo oltre a essere un treno è una successione di Fibonacci, una forma che cresce a spirale logaritmica. La singola serata di Sanremo ha la stessa morfologia poli-vagonale dei brani: un convoglio lento lunghissimo e le presentazioni e l’“emozione” e la scenografia e il monologo e l’ospite e la predica e lo “scandalo” e la “polemica” e dieci blocchi pubblicità dieci, e in mezzo ci sono, pure, delle canzoni, qualche canzone, qualche frammento di canzone.

Un convoglio che tremola, perde pezzetti, rallenta, indugia. Sempre su tutto l’apparato in basso. Ridiamo sulle gaffe, ci incazziamo sulle polemiche, non perché ce l’abbiamo con Egonu, o Fedez-Rosa Chemical, o con Amadeus. È che ci fa male là sotto.  

Anche la settimana santa di Sanremo è tutta un convoglione che passa e sappiamo dove. Anni fa si guardava per farsi quattro risate. Chi “capiva di musica” lo disprezzava, tornava ai suoi Area, poi ai suoi gruppi Indie. I giornalisti ne scrivevano con uno strano sentimento, nelle cronache c’era sempre aria di mal di pancia. Dolori comprensibilissimi. Ma limitatamente alla possibilità di fare i dritti con una discografia ricca e potente. Risultato, chi scriveva usava un doppio registro, molto colto come da tradizione del giornalismo italiano, in bilico tra sarcasmo e emotività: si sfotteva Mino Reitano, o Albano, si acclamava un qualche presunto capolavoro. 

Ora la modalità della frustrazione da addetti ai lavori è cambiata. È stata interiorizzata, non accetta quelle che Freud chiamerebbe “formazioni di compromesso”. Il mainstream ha assorbito tutto, quindi si prendono le sedie e ci si sta nella luce incerta del tramonto paesano. E dato che del trash non si può più ridere e bisogna prenderlo seriamente, si entra nel mood di considerare Sanremo una cosa importante, perfino emozionante. La politica del resto ha sempre considerato Sanremo importante, ci stiamo per tornare. Comunque l’espressione: “e anche quest’anno se lo semo levati dalle palle” non nasce a Natale, nasce a Sanremo. Inventata dal maestro Razzi, primo direttore artistico del festival, e anima non troppo candida della musica italiana. Stiamo per spiegare perché. 

Intanto bisogna aggiungere che anche la storia di Sanremo è isomorfa alla singola serata, alla canzone, alla settimana. Sanremo è un treno scassone che arriva puntuale (i treni arrivano in orario, in certi casi) da 73 anni. Fa pink slime delle parti basse. Lento, malmesso, zoppicante, penoso, epocale, sovra-temporale, l’immagine traballante di un’eternità rompicazzo. Immagine immobile: la fenomenologia di Sanremo sottintende la prova ontologica di Anselmo d’Aosta: la sua essenza ne postula l’esistenza. Solo a pensarlo ci sei già dentro. 

Ma come la prova ontologica di Anselmo Sanremo è un’illusione. Sanremo è un sogno gramsciano/zdanoviano di collettivismo proiettivo. Sanremo è un treno sì, ma di deportati. Non è un Train De Vie. Non se ne esce suonando il violino con una corda di violino. Sanremo deporta sette decenni di cultura italiana verso un ectoplasmico Gulag dell’Immaginazione di Stato. Costituisce una appartenenza politica, non artistica. 

Perché è chiaro: la pink slime traballante e inesorabile sanremese non è musicale. Sanremo svolge la funzione politica che durante il Risorgimento era stata data all’Opera: costruire un canone musicale nazionale. L’Opera c’è riuscita, con metodi culturalmente violenti: ha “normalizzato” le musiche secondo canoni razionalisti (un libro di Lorenzo Santoro, Musica e politica nell’Italia Unita, il Mulino, lo spiega), ha ridotto gli esotismi a macchietta, nei libretti ha fatto a pezzi Shakespeare con Boito. Ha inventato il pop della presunta alta borghesia italiana, che non è mai esistita ma voleva disperatamente esistere. Gli ultimi risentimenti politici su quello che è successo nell’Ottocento si vedono nelle contestazioni ad ogni prima della Scala: i contestatori non sanno bene cosa stanno contestando ma non importa: le irritazioni sono sintomi, vanno interpretate. Anamnesi. 

Sanremo nasce nei primi anni Cinquanta con la stessa intenzione dell’Opera: stabilire il canone musicale, questa volta non solo borghese, ma nazionale e popolare. Per farlo deve per prima cosa far fuori le musiche regionali. Ci riesce benissimo. L’ho scritto altre volte – unico in Italia, credo – ma la storia non è abbastanza nota. Nel ’53 Alan Lomax, il più grande musicologo del mondo fa un viaggio in Italia. Raccoglie e registra canti e suoni dalla Sicilia al Piemonte. È felicissimo di aver trovato la musica popolare più bella d’Europa. Detto da uno che aveva scoperto il Flamenco e i bluesman nel sud degli Stati Uniti fa testo. Si presenta dal maestro Giulio Razzi con le sue scoperte. Razzi, nipote di Puccini, direttore dei programmi Eiar durante il fascismo, passato indenne allo stesso incarico alla Rai, che manterrà fino al 1965, poi iscritto alla loggia P2, è il direttore artistico del festival dei fiori. 

Razzi ride in faccia a Lomax che aveva proposto di valorizzare la musica popolare italiana. Orienta Sanremo verso un suono americano, la canzone derivata dalla tradizione di Tin Pan Alley. Ci sono momenti storici che decidono le cose, e la risata del maestro Razzi è uno di questi. Il pop italiano nasce, crescicchia, vivacchia con le radici di altri. Se vi chiedete perché qualsiasi brano pop italiano (vi sono eccezioni) suona come una scopiazzatura di produzioni estere (di solito in ritardo, vale anche per i Maneskin e il loro stanco Rush, che non ha vinto il Grammy) ora sapete perché è successo: tutto il pop di tutto il mondo nasce da radici popolari forti. Il treno Sanremo, sgangherato lento ma puntuale, ha evirato –oltre che noi – la musica italiana. 

I risultati li abbiamo visti e li vediamo ogni anno. Un festival della canzone italiana che ha prodotto in una settantina di anni un numero di hit decisamente basso: il detto “primo a Sanremo, ultimo in classifica” è statisticamente valido, come risulta da questa infografica del Sole 24 Ore. Qui si spiega che nelle 72 precedenti edizioni due sole volte è accaduto che il brano vincitore del festival chiudesse l’anno in cima alla classifica annuale dei singoli. Sanremo, oltre che un treno è anche un festival che ha masticato, digerito ed espulso un numero enorme di artisti originali, il cui suono, per i brani sanremesi, era quello di Sanremo. Pink slime sound. 

E alla fine della lunga e lenta settimana santa sanremese 2023 notiamo l’atmosfera frizzante dietro le quinte, dopo due anni di clausure e incertezze pandemiche, l’assenza grazie a Dio di polemiche sui plagi, che sono la quintessenza della idiozia musicale (tutta la musica è un plagio). La cosa più bella, come da decenni, è l’orchestra. Con gli episodi dei batteristi che correggono direttori fighetti ma cani, o semplicemente terrorizzati, si potrebbe scrivere una storia alternativa di San Remo. Una storia dell’artigianato musicale italiano, di grandissimi professionisti che non hanno una musica loro, veri ebrei erranti della cultura. 

Il resto è politica. Torniamo a noi, al pubblico di Sanremo. Sanremo è come quei concerti che si davano in Russia ai tempi dell’Urss. Si entrava col biglietto che arrivava a casa, per posta, dal Pcus. Non presentarsi per troppe volte a iniziative di partito voleva dire almeno fare brutta figura. Quindi alla le sale concerti erano piene, ma tutti e in platea facevano altro: chiacchieravano, fumavano, litigavano, bevevano.

Proprio perché Sanremo non ha niente a che fare con la musica, la noia e la stanchezza di Sanremo sono il punto forte di Sanremo. Sanremo non è intrattenimento, è sacrificio. Sacrificio politico, secondo modalità antropologiche note. Sanremo esercita un effetto sacrificale: non è vero che ogni devozione è una sofferenza, ma spesso la sofferenza alimenta la devozione. I devoti mitraici si autoeviravano, gli gnawa si tagliano il petto, i vattienti si battono, i sottoni nelle relazioni tossiche non fanno caso alle corna, mentre prenotano vacanze per due. A loro spese.  

Da Sanremo a Mitra, dai vattienti agli gnawa e alle corna comprendiamo che il legame è tanto più potente quanta più sofferenza riusciamo ad auto-infliggerci. Aver investito con dolore su qualcosa ci fa ipso facto adorare quella cosa: piccolo sacrificio/piccolo legame, grande sacrificio/grande legame. Sacrificio epocale, intergenerazionale, legame profondo.

Sanremo è un amore la cui struttura è un’intenzione politica basata sulla sofferenza, sulla noia. Sul treno lento, barcollante, scassone, che ogni anno puntualmente torna per la macerazione rituale. Anche quest’anno ce lo siamo levati dalle palle. Ma torna. 

Bruno Giurato

Gruppo MAGOG