Serializzato dal 1972, “Lady Oscar” è uno degli anime di maggior successo, capace di fagocitare fan. Ideato da Riyoko Ikeda e Osamu Dezaki, tratto, in parte, dal romanzo biografico di Stefan Zweig dedicato a Maria Antonietta, il film animato mescola ambiguità e grandezza, erotismo ed eroismo. Ai “Cinquant’anni con Oscar” è dedicato un saggio di Silvia Stucchi, latinista, edito da Graphie: “Lady dal fiocco blu?”. Dal libro abbiamo estratto parte dell’ultimo capitolo, per gentile concessione.
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Concentriamoci ora sugli ultimi episodi della serie, e, soprattutto, sull’avvenimento che segna il precipitare degli eventi verso la tragedia, ovvero, la morte di André, su cui è imperniato l’episodio 38, intitolato, nell’adattamento italiano, Addio, André, mentre nella versione originale suona, come sempre, molto più poetico e allusivo: “Il suo sorriso non tornerà mai più”.
La morte di André (…) è sempre e comunque un colpo (…). E, come accade per i personaggi – letterari, filmici o, in questo caso, di un anime – che davvero hanno una grandezza e uno spessore psicologico che li rende quasi reali, che ci sembrano più vivi di tanta gente in carne e ossa, è facile essere turbati dalla insensatezza di certe morti, e dalla apparente crudeltà degli autori che fanno uscire di scena così bruscamente i personaggi che hanno creato.
Tale è la fine di André: il proiettile che lo colpisce e la sua morte mi facevano sempre profondamente adirare, come ogni morte insensata (insensata per me, non nella logica interna del racconto, ovvio!). Razionalmente, si tratta di uno sciupìo, cui lo spettatore si ribella: André abbraccia la causa della Rivoluzione, e si imbarca, ormai quasi cieco, in una impresa rischiosissima. La prudenza vorrebbe che riconducesse Oscar a più miti e razionali consigli, mentre il suo abbracciare la causa della libertà e della rivoluzione diventa un rischio enorme cui, oggi, noi, spettatori adulti, ragionevoli, pacati, vorremmo sottrarci: chi di noi non ha pensato, almeno una volta, che André, dopo una intera esistenza trascorsa cercando di spegnere, con la sua tranquilla ragionevolezza, gli ardori e le fiammate d’orgoglio del carattere di lei, avrebbe dovuto anche in quella mattina del 13 luglio indurla a più miti consigli? Chi non ha pensato, almeno una volta, che André avrebbe dovuto allontanarsi, insieme alla sua Oscar, da una Parigi ormai messa a ferro e fuoco, sposandola, come aveva ammesso di voler fare nel drammaticissimo confronto con il Generale Jarjeyes (cfr. l’episodio 35)? Perché esporsi, insieme, a un rischio tanto grande?
La ragione è che i nostri protagonisti hanno la statura degli eroi: anzi, una generazione e forse due ha incontrato loro come primi eroi, forse prima delle letture dall’Iliade alle scuole medie; e agli eroi, come insegna il mito, non è dato morire di vecchiaia, pacificamente circondati da figli e nipoti. Quella morte solo apparentemente insensata e certo sconvolgente nella logica del racconto è perfettamente logica e razionale, ma lo si capisce – con dolore – solo da adulti; come solo crescendo si comprende che, nella ferrea logica interna di quella perfetta tragedia creata da Riyoko Ikeda, la notte magica del 12 luglio non è “l’inizio di un nuovo corso” della vita dei protagonisti, ma deve essere l’atto finale e il culmine di un amore lungo oltre quattro lustri, per cui arriva alla fine della storia, ed è unica e irripetibile. (…)
L’insensatezza della morte di André colpisce lo spettatore dell’anime ancora più di quanto non accada al lettore del manga: qui, il proiettile fatale raggiunge André perché si è lanciato a proteggere Oscar dal tiro di un fuciliere nemico[1], ed è Alain a uccidere chi ha sparato ad André. L’avvenimento è tragico, ma, in fondo, è perfettamente coerente con il carattere del personaggio, protettivo sino all’estremo sacrificio di sé (…). Nell’anime, la mano di Dezaki carica ancora maggiormente la drammaticità della sequenza: André viene colpito al petto, non in battaglia, ma in un momento di quiete, da un soldato qualsiasi, non certo per proteggere Oscar, ed è lei stessa a freddare il fuciliere che ha sparato ad André. Questa morte, così, appare ancor più casuale e insensata – come banali, casuali e insensate sono le morti di tanti, troppi, caduti nelle guerre di ogni tempo –, e apre il funesto giro di danze della Rivoluzione (…). Ma, in fondo, André qui assurge quasi a novello Protesilao, primo morto a Troia, ucciso non appena messo piede dalla nave sulla terraferma, e dopo una sola nottata trascorsa con la sua amata Laodamia, che lo seguirà presto nella morte: una dimensione mitica e un’aura tragica che si addicono perfettamente a Oscar e André.
La notte del 13 luglio è per Oscar il contraltare della felicità assoluta provata solo ventiquattro ore prima: è una nottata di dolore straziante – che si riverbera anche sullo spettatore – in cui la protagonista vaga per Parigi, in preda non solo all’afflizione più totale, ma anche al rimorso per non essere riuscita a fare prima chiarezza nei suoi sentimenti: “I loved you, André. Probably from long ago. I realized it too late” (Io ti amavo, André. Probabilmente da molto tempo). La consapevolezza tardiva della felicità mancata la tormenta: “If I realized that I loved you sooner, we could have had a much better days together”. You were beside me too quietly and too kindly. So that I didn’t realize my love for you!” (Se avessi capito prima che ti amavo, avremmo potuto vivere molti giorni migliori, insieme. Tu eri accanto a me, troppo silenzioso e gentile. Così non mi sono resa conto del mio amore per te!). E, alla fine, arriva richiesta di perdono accompagnata da una terribile autoaccusa: “Forgive me, André. Not realizing one’s love is more sinful that betraying one’s love” (Perdonami, André. Non accorgersi dell’amore di qualcuno è un peccato più grave che tradire l’amore di qualcuno): una notte terribile, con una sofferenza che è autentica catarsi tragica, quasi la realizzazione del motto eschileo secondo cui pathei mathos, attraverso la sofferenza addiviene un insegnamento, una consapevolezza, per una mente che è stata troppo a lungo offuscata, come annebbiata da ate.
Muore giovane chi è caro agli dèi? Forse. La morte di Oscar e André, moderna riproposizione dell’archetipica coppia omerica di eroi formata da Achille e Patroclo, non può che essere eroica, come si conviene a due personaggi che rivivono, molti secoli dopo, il nobile ideale della kalokagathia. La morte di Oscar il giorno dopo, sotto le mura della Bastiglia, dopo una nottata di dolore disperato, e senza vedere, nell’anime – altro carico da undici aggiunto da Dezaki –, la fortezza cadere e arrendersi – a differenza che nel manga (in cui muore augurando “Lunga vita alla Francia”) –, è solo la naturale conseguenza di quella di André: perché nessuno dei due avrebbe potuto nemmeno immaginare di vivere senza l’altro.
Perché, nonostante le lacrime dei fan, e le innumerevoli fanfiction che, negli anni, hanno immaginato, immaginano e immagineranno una conclusione diversa e una possibilità di sopravvivenza per i protagonisti dopo i fatti del luglio 1789, gli eroi non possono invecchiare, e, secondo la logica interna del racconto di R. Ikeda e di O. Dezaki, il finale non può che essere quello che conosciamo, e che da decenni immancabilmente, ci turba e ci fa piangere.
[1] Cfr. Vol. 5, p. 74, edizione J-Pop, 2021.