31 Gennaio 2019

Serotonina è un pugno allo stomaco. Anzi, no, MH farebbe meglio a rileggersi Camus! Matteo Fais raccoglie l’opinione di quattro scrittori intorno all’ultimo libro di Houellebecq

Uno scrittore non può non avere dei modelli. Il mio è Michel Houellebecq. Il che non vuol certo dire che abbia la vocazione dell’epigono. Ricordo troppo bene Nietzsche, in Così parlò Zarathustra: “si ripaga male il proprio maestro se si rimane sempre allievi”. Eppure, il romanziere in questione mi risulta un passaggio obbligatorio. In buona sostanza, se si vuole fare letteratura oggi come oggi, credo che non si possa prescindere da ciò che lui ha scritto.

Ritengo altresì che la più grande lezione dei suoi romanzi sia come descrivere anche un’esistenza priva di avventura, di epica, di tragedia. Il mio secondo libro, Storia Minima, riflette proprio su questo tema e cerca di dargli sostanza in una narrazione che è una non-storia. Certo, potrei citare anche Osamu Dazai e il suo Lo squalificato, ma Houellebecq, per appartenenza culturale, mi è più vicino e affine – il Giappone, anche quello americanizzato del post Seconda Guerra Mondiale, è pur sempre un altro mondo.

Ho letto Serotonina, quest’ultimo romanzo del Maestro, con la solita passione, sospendendo nei giorni immediatamente successivi all’uscita qualunque altro tipo di attività. Vi ho trovato dei difetti, ma i pregi erano troppi e così travolgenti che mi sono innamorato anche questa volta. Houellebecq è comunque una spanna sopra gli altri, perfino quando non dà il meglio di sé.

In verità non ritengo che il suo testo appena uscito sia fiacco, come tutti vorrebbero far credere. È diverso! Vorrei proprio capire, quelli che lo trattano con sufficienza, che accidenti di autori abbiano in mente come termine di paragone. Non certo un italiano. Il branco di donzelle politicamente corrette che ci sono in circolazione, e fanno classifica, non mi pare degna neppure di aprirgli l’ennesima bottiglia del giorno. A ogni modo, vi sono certamente dei connazionali che stimo e che, come dimostrano i seguenti interventi, hanno tratto in qualche modo ispirazione dal francese. Purtroppo, la maggior parte di questi romanzieri sono semisconosciuti – se fossero francesi, forse la sorte sarebbe stata meno avversa nei loro confronti.

Pertanto, ho pensato di raccogliere le loro impressioni a caldo, dopo la lettura di Serotonina – sapevo bene che anche loro non avrebbero resistito alla tentazione di leggerlo. Credo sia importante comprendere la ricezione di un testo, che volenti o nolenti risulta essere così importante per la narrativa europea, da parte di chi a sua volta ha la passione per la scrittura. Così ho posto loro la seguente domanda: “Rispetto all’influenza che può aver avuto l’opera di Michel Houellebecq sulla tua scrittura, ritieni che Serotonina possa costituire un modello per i tuoi prossimi lavori?”.

La speranza è, infine, quella di far scoprire ai lettori di Houellebecq che esistono scrittori i quali, pur differenti dal noto autore di Le particelle elementari, potrebbero avere qualcosa da dire a chi cerca narrativa di valore, al di là dei brand imposti dal mercato.

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Matteo Fais è nato a Cagliari, nel 1981. Ha scritto su diverse riviste. Al momento, è collaboratore fisso di “Pangea.news” e “VVox Veneto”. Il suo esordio letterario è avvenuto con L’Eccezionalità della regola e altre storie bastarde, Robin Edizioni. Per lo stesso editore ha pubblicato di recente Storia Minima.

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Seguo Houellebecq e lo rispetto molto come scrittore, ma non ho mai pensato di imitarlo. Trovo molto interessante la sua scrittura ma la sento lontana da quello che, attualmente, è il mio universo narrativo. In particolare Serotonina mi è sembrato un romanzo fuori fuoco, abbozzato, non al suo livello. Se dovessi usarlo come modello, sarebbe un modello negativo. Insomma: se persino Houellebecq può commettere simili leggerezze (vorrei dire errori) di verosimiglianza e plausibilità è perché la stesura di un romanzo è davvero una brutta gatta da pelare per chiunque.

Cristò (1976), barese, ha pubblicato Come pescare, cucinare e suonare la trota (Florestano), L’orizzonte degli eventi (Il grillo), That’s (im)possibile (Caratterimobili e Intermezzi), La carne (Intermezzi), Restiamo così quando ve ne andate (TerraRossa).

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La risposta è no. Houellebecq è unico. Siamo molto differenti nello stile di scrittura. La sua è saramaghiana in certi momenti, con frasi lunghe, senza punto, le virgole a fare un po’ d’ordine al flusso di pensieri dirompenti. Contenutisticamente lui è il presente – io, finora, ho scritto solo del passato – e lo racconta come nessun altro. È devastante. Serotonina è un cazzotto in un occhio e un pugno alla bocca dello stomaco dei sentimenti, della nostra condizione miserabile di razza umana destinata al dolore e allo stordimento per cercare di dimenticare la sofferenza inevitabile. Nemmeno Dostoevskij era riuscito a sviscerare tanto il male di vivere. Ho letto non so dove che qualche scrittorino italiano lo avrebbe definito “populista”. Che pena noi scrittori italiani: abbiamo sempre e solo da criticare per via del senso di inferiorità che ci è connaturato. Peccato, la nostra è la lingua più bella del mondo e ci sentiamo i più sfigati. Serotonina, comunque, non mi può influenzare, perché io non so scrivere come lui e perché le mie tematiche sono lontane. Solo Houellebecq può dire certe cose del presente e sul presente. Perché le sa dire. Vorrei però aggiungere che il romanzo in questione, secondo me, non ci azzecca nulla né con i gilet gialli, né col populismo. Piuttosto, è una frustata sull’amore impossibile tra uomo e donna. Sulle “coincidenze che sono le strizzatine d’occhio di Dio”. Sulla devastazione delle nuove generazioni che si ubriacano di assenzio, come nell’Ottocento i minatori e i sottoproletari – e i ricchi borghesi nascenti –, per dimenticare una condizione lavorativa e sociale spaventosa (la stessa che viviamo noi oggi). Serotonina è la Francia socialista che ha ucciso l’amore e la speranza, ma soprattutto i desideri. Quella Francia socialista che non ha mai saputo essere liberale e liberista, ma solo un mix di niente. Filo araba, fastidiosamente filo araba. Antisemita. Fascista nel suo socialismo d’accatto della ricca gauche caviar. La Francia stronza che guarda ai suoi interessi di grandeur e fa fuori Gheddafi (e crea il casino di Ustica) e si mangia l’Africa a fettine di cannibalismo tagliate a misura col franco travestito da euro. Houellebecq e Serotonina non possono essere un modello per me, perché io non scriverò mai sul e del presente. Questo mi fa orrore, così come mi fa orrore la nuova Europa musulmanizzata, queste periferie – e non solo – rovinate dalla presenza di tribù di donne velate e maschi da monta con barba e occhi da avvoltoi, le moschee che vorrebbero innalzarsi sulle mie, anzi sulle nostre, chiese e sinagoghe. Il presente è guerra del Capitale contro gli esseri umani – scusa la divagazione. Il Capitale che non si regge più sul complotto giudaico massonico – magari lo rifacesse –, ma sulla finanza islamica e islamizzante che non conosce diritti sociali ma solo schiavi e devoti, ciò che stanno tentando di farci diventare tutti quanti. No, Serotonina non sarà un mio modello, perché ho rispetto per le grandi opere e detesto gli epigoni.

Adriano Angelini Sut, romano, traduttore e scrittore. Ha pubblicato nel 2009 101 cose da fare a Roma di notte (Newton Compton). Nel 2015 esce Jackie (Gaffi Editore), un romanzo biografico su Jacqueline Kennedy. Nel 2017 Mary Shelley e la Maledizione del lago (Giulio Perrone), la biografia romanzata su Mary Shelley. Nel 2018 è presentato allo Strega con il romanzo L’ultimo singolo di Lucio Battisti (Gaffi Editore). Ha collaborato con “Il Foglio” e “Radioradicale.it”. Collabora con www.atlanticoquotidiano.it. Fra le sue traduzioni, Ogni Cosa è Maschera di Janice Galloway (Gaffi); Sex Trafficking di Siddarth Kara (Castelvecchi); Il programma di  James Dashner (Fanucci).

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Ed eccoci di nuovo a tu per tu con il Maestro. Ci tengo a precisare fin dall’inizio che a me, quest’ometto che raramente vien bene in foto – una rapida ricerca su Google non può che confermarlo –, con quella faccia da pervertito etilista, sta proprio simpatico. E forse neanche troppo per qualità letterarie od originalità di una voce che si sta permutando in marchio. A me sta simpatico perché la sua faccia dice tutto. Ad andarci di fisiognomica ci si legge il disastro in atto, un senso di frana, di caduta libera, una scapigliatura – in tutti i sensi – flaccida e imbolsita. Le stesse caratteristiche che si ritrovano appiccicate ai suoi personaggi, dal Bruno Clèment di Le particelle elementari al protagonista di Estensione del dominio della lotta fino ad arrivare al Florent-Claude Labroust di questo nuovo Serotonina. Detto in estrema sintesi, il buon vecchio Michel inizia a mostrare la corda, ripetendosi in cliché, situazioni e narcisismi vari che rimandano a quel gusto di èpater un po’ fine a se stesso. Lo stesso gusto che può starci nei primi lavori, sorretto da una tensione metafisica che fa da contraltare a un certo decadentismo fuori moda. Quindi va bene il nichilismo esasperato, figlio a sua volta di un consumismo fuori controllo – simpatiche, in questo senso alcune situazioni serotoniniane, Yuzu, la ragazza giapponese letteralmente ricoperta di diciotto lozioni per la pelle, e vien da immaginare, altrettanto facilmente ricoperta di sperma canino in un filmato scovato fra le sue mail. A voler fare i sociologi da strapazzo rieccoti la solita equazione fra sessualità e consumo, la marxistica reificazione del corpo, del desiderio, eccetera eccetera. Simpatico, quindi, il buon vecchio Michel, che però pare non riuscire ancora a sganciarsi da un certo maledettismo da banchi di scuola – la stessa Yuzu è maestra di “sorprendenti” pugnette in aereo, ma davvero, apro parentesi, a quasi cinquant’anni ci si deve ridurre così? Insomma, se il nostro vuol farsi interprete di un disagio, lo stesso che fu di suoi compatrioti come Céline, Sartre o Camus, e mi par di capire che la sua ambizione sarebbe quella, gli consiglierei di metter da parte le frettolose chiacchiere con il suo agente sul tipo di pubblico a cui rivolgersi – l’editore francese è la potente casa Flammarion – e farsi una rilettura, che tanto fa sempre bene, ad esempio del suo amato Lo straniero. In esso, anche un nichilista dell’ultima ora capirebbe che le conseguenze dell’angosciante rapporto di Meursault con la madre non erano questione da risolvere con due pugnette in aereo.

Andrea Campucci nasce a Firenze, nel 1983. Qui si laurea in Filosofia e inizia a collaborare con vari editori. Nel 2009, tramite il sito ilmiolibro.it, esce il suo primo romanzo, Naive. È poi la volta di un saggio filosofico, Nietzsche, la fine della ragion pura, 2011, per l’editore Mimesis. Nel 2012 pubblica, per Arduino Sacco, la raccolta di racconti Cupio dissolvi, per poi arrivare, nel 2013, al romanzo La scampagnata, sempre per l’editore Arduino Sacco. Nel 2016, approda alla Leone edizioni con il romanzo Plastic shop. Per lo stesso editore, nel 2018, pubblica infine il romanzo Porn food.

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Quando uscirono Le particelle elementari (il secondo romanzo di Houellebecq, che però l’Italia scoprì per primo) e, di seguito, Estensione del dominio della lotta, mi colpì l’andamento saggistico incistato nella narrazione con cui, tra cinismo e dolente ironia, questo scrittore smascherava le pecche del mondo contemporaneo e l’inettitudine – l’inesorabile perdita di libido compresa – del maschio bianco occidentale. Parlo delle leggi del liberalismo applicate alla competizione sessuale tra individui, impegnati in una strenua lotta; del sesso che, una volta svincolato dalla procreazione, non sussiste più come principio di piacere, ma è veicolo di differenziazione narcisistica, ecc. E qui vengo all’impatto che queste narrazioni possono aver avuto nella mia formazione di scrittore: quando nei romanzi Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004, Terrarossa 2016) e La gente per bene (Terrarossa 2018) ho scelto di raccontare le vite di operai o di disoccupati – quasi mai protagonisti nel panorama letterario italiano –, tratteggiando gli ambienti in cui vivono e gli stanchi rituali aziendali, ho tenuto ben presente una delle sue massime, valida ancora oggi: “Affondate il coltello negli argomenti di cui la gente non vuole sentire parlare. Il contrario del decoro. Insistete sulla malattia, l’angoscia, lo squallore. Parlate della morte e dell’oblio. Della gelosia, dell’indifferenza, della frustrazione, dell’assenza di amore. Siate abietti, e sarete veri”. Non so ancora dire se Serotonina saprà suggerirmi degli spunti interessanti, anche perché in questo romanzo c’è quello sguardo a cui Houellebecq ci aveva già abituati (le cosiddette massime, ad esempio, le ho trovate un po’ annacquate e di maniera, meno ficcanti che in passato), ma è comunque apprezzabile e vitale il tentativo di confrontarsi con la realtà e il presente. Lasciamo stare l’Italia letteraria o che si ritiene tale, ben inteso, narrativamente ferma all’analisi storica del fascismo e alla musealizzazione della Resistenza, o persa in contorti sperimentalismi, o che ciurla snobisticamente nel manico della distopia, incapace di dire pane al pane e vino al vino – un modo per schifarla, o scansarla, questa realtà. Concedetemi: conoscete altre voci europee che, al giorno d’oggi, si occupino di queste tematiche con altrettanta virulenza? Ho trovato interessanti quei passaggi in cui il protagonista, totalmente alla deriva, in preda a meditazioni suicide e ossessionato dai ricordi della sua Camille (il perduto amore di gioventù che forse avrebbe potuto salvarlo), per ignorare i festeggiamenti di Natale e Capodanno, si immerge nella provincia rurale francese. Sì, mi sono piaciute le descrizioni dei luoghi, in particolare. Un momento caustico del romanzo è quello in cui il personaggio, irrimediabilmente depresso, si stona di trasmissioni televisive, quasi sempre a carattere culinario, e afferma che l’Occidente – e con essa l’umana libido – sta regredendo allo stadio orale: nella città in cui vivo, ad esempio, è l’unica cultura che resiste, non si parla d’altro che di cibo.

Francesco Dezio è nato ad Altamura nel 1970 e ha esordito nel 1998 con un racconto nell’antologia Sporco al sole. Racconti del sud estremo (Besa). Nel 2004 ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo Nicola Rubino è entrato in fabbrica, opera che inaugura una nuova stagione della cosiddetta letteratura industriale e ora riproposta da TerraRossa Edizioni. Del 2014 è la sua prima raccolta di racconti, Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo), diversi dei quali già apparsi su quotidiani e riviste. Nel 2008 è stato ospite di cinque puntate della trasmissione Fahrenheit, su Rai Radio 3. Ha collaborato con “l’Unità”, “la Repubblica-Bari”, “Corriere del Mezzogiorno”. Il suo ultimo romanzo è La gente per bene (TerraRossa Edizioni, 2018).

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