18 Aprile 2020

“Da bambino divoravo gli atlanti”. Fosco Maraini, dalle segrete del Tibet al mignolo mozzato

Siamo un paese di avventurieri – che trovano scrittura nell’avventatezza. Mi è capitato un libro di spudorata bellezza, Afghanistan, ultimo silenzio. Lo firma Riccardo Varvelli per De Donato nel 1966: stile schietto ma con il gusto per il dettaglio, fotografie magnetiche, il viaggio come eccidio del sé, intrusione in una saggezza pietrificata. “È l’enigma dell’alpinismo. Si soffre, si rischia la vita per un risultato di cui, appena acquisito, ci si sente incapaci di gioire”; “Se sapere di vivere è più importante che vivere bisogna ogni tanto fermarsi. Stare con il cuore seduto di fronte a un paese silenzioso per misurare se stessi in rapporto a una realtà sconosciuta. Raccogliere il nan e la luce, la fatica e la neve, il deserto e la folla, ma senza mai perdere il filo. Perché esistere vuol dire tornare”. Perché non si stampano più questi libri, che consentono alla mente – quindi, al corpo – di andare in terre incognite? La letteratura italiana nasce raccontando i viaggi di questo – Marco Polo – e altri – Dante – mondi: perché ci siamo ridotti a narrare la periferia del nostro io?

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Un giorno dovrò filare la storia di Giovanni Battista Cerruti, “l’uomo che era diventato re dei terribili Sakai”, morto nel 1914 “in un piccolo ospedale di Penang, in Malesia, per una banale appendicite… il capitano che nell’illusione di compiere l’impresa risolutiva della propria esistenza aveva solcato mari, esplorato foreste, raccolto esemplari sconosciuti di fauna e flora per i musei, fondato imprese commerciali fallimentari, scoperto miniere”, questa specie di incrocio tra il Kurtz di Conrad e il Fitzcarraldo di Herzog, di cui l’editore Ecig, tre decenni fa, ripropose il leggendario romanzo-reportage, Tra i cacciatori di teste. Ecco: tre quarti di narrativa attuale andrebbe decapitata, in virtù di questi scoordinati, scriteriati, sgrammaticati, straordinari narratori di viaggio.

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Torno in me. Nella stessa collana De Donato in cui è pubblico Varvelli, “All’insegna dell’orizzonte”, ci sono i libri di Ettore Biocca – Yonoama, sugli indios dell’Amazzonia – di Gianni Roghi – I selvaggi – di Folco Quilici – I mille fuochi, Sesto continente. Li ristamperei tutti, sono più utili di un documentario – gli occhi si accontentano di guardare ciò che trasmette la superficie dello schermo, le parole portano nella quarta dimensione dell’immaginare. De Donato – già Leonardo da Vinci – pubblicava i grandi libri di Fosco Maraini. Nel libro che possiedo ne promuovono quattro: G 4. Baltoro Karaorum, Ore giapponesi, Paropàmiso, Segreto Tibet. Nel ‘Meridiano’ Mondadori, Pellegrino in Asia (2007; a cura di Franco Marcoaldi), si riproducono i libri maggiori – Segreto Tibet, Ore giapponesi – e una manciata di “Scritti scelti”; La Nave di Teseo ha ripubblicato, lo scorso anno, Case, amori, universi e Gnosi delle fànfole. Qualche anno fa l’istrione Claudio Cardelli, presidente dell’Associazione Italia-Tibet, passionaccia per i Beatles, amico di Maraini, mi ha concesso l’edizione Dren-Giong, “il primo libro di Fosco Maraini” (il primissimo è la Guida dell’Abetone per lo sciatore del 1934), nell’edizione Corbaccio del 2012, con “i ricordi dei suoi amici”.

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Fosco Maraini unisce diversi talenti: la rapacità linguistica – pari a un Gianni Brera per estro –, l’istinto narrativo, la sapienza da “etnologo poeta”. Si diceva Clituvit, “Cittadino-Luna-Visita-Istruzione-Terra”, era qualcosa tra Indiana Jones e Jack London – in realtà, deve l’amore per l’Asia a due libri particolari: Three Years in Tibet del monaco giapponese Ekai Kawagchi e With Bayonets to Lhasa dell’ufficiale inglese Sir Francis Younghusband. Era un estraneo che incontrava dei diversi, studiandoli con il rigore dello scienziato e la curiosità dello scrittore: questo lo rende, ai miei occhi, più accattivante, più spigliato di Bruce Chatwin, impegnato nella bizantina narrazione del proprio io.

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Un paio di eventi su tutti. Il viaggio come esito del fantasticare. Il viaggio, prima di tutto, lo si custodisce, lo si prepara, lo si ama nella testa, nell’ardore metafisico dell’impossibile. “Ero un adoratore, un divoratore e naturalmente un distruttore di atlanti… Isole, penisole, continenti, laghi, bracci di mare suggerivano coi loro profili personaggi, cose, favole”, ricorda Maraini. Il mondo va divorato immaginando il seguente, incendiando mappe. Il tormento enigmatico di una carta geografica è proprio quello: alla foce di un nome si elevano fiabe, sotto una macchia marrone s’ipotizzano civiltà, lotte, eresie, si vede perfino quel piccolo volto che sporge da un castello sui giunchi.

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Secondo episodio. Fosco Maraini è in Giappone. È nata da poco l’ultima figlia, Antonella. È da poco uscito il primo studio sugli Ainu. La Seconda guerra impedisce allo studioso il ritorno in Italia; dopo l’Otto settembre, l’arresto. “Rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, Fosco e Topazia, dopo un breve periodo di arresti domiciliari a Kyoto, vengono trasferiti insieme alle figlie nel campo di internamento Tempaku a Nagoya” (Marcoaldi). “Tolte alcune piccolezze, l’inizio parve buono”, attacca Fosco. Le cose procedettero in modo meno buono. Il 18 luglio del 1944, vista la scarsità di cibo, i prigionieri iniziano uno sciopero della fame. Il capo dei poliziotti accusa di tradimento i prigionieri. Fosco – così nel racconto della moglie, Topazia Alliata – “afferra l’accetta (della cucina), si taglia il dito mignolo della mano sinistra, lo raccatta e lo getta al terrorizzato Kasuja gridando… gli italiani non sono dei bugiardi. Tutti fuori di sé: terribile impressione”. Iosif Brodskij direbbe, “La più sicura difesa contro il Male è un individualismo estremo, l’originalità di pensiero, la bizzarria, perfino – se volete – l’eccentricità”. Cioè: sorprendere con una scelta superiore; capire il nemico, essere spietati con ciò che si ha – la presa psichica.

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L’effetto che ti fa leggere Maraini: partire! Segui il primo sfarfallio azzurro all’orizzonte, piglialo per l’Himalaya, parti! Ogni tigre, sembra dire l’infaticabile Fosco, in fondo, giace nella gabbia delle tue costole. Segreto Tibet è il suo libro più sgargiante, forse è uno dei romanzi più belli del Novecento italiano. Qui un cammeo che ritrae Giuseppe Tucci: “Non so perché, Tucci d’un tratto s’è immusonito. Ha l’aria di cercare qualcosa che non trova. Osserva, annota, torna sui suoi passi, ma non parla più… Ormai so che in simili frangenti occorre tacere, possibilmente cancellarsi per un poco dal paesaggio. Ho per compagno un uomo dalla mente eccelsa, ma dal carattere d’infinita complessità, tutto trabocchetti e botole nascoste. Del resto lo ripete sovente lui stesso: ‘Odio gli uomini, amo invece gli animali! Mi piacciono i puniti dal karma, non i premiati! Magari i Budda fanno eccezione… Ma noi li vediamo solo in arte’. Tucci ha in sé qualcosa di notturno, di felino, di tantrico della mano sinistra. Ed è gelosissimo della propria cittadella interiore!”.

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Uno dei libri remoti di Maraini: Gli ultimi pagani (l’ho in edizione Bur 2001). Raccoglie alcuni studi straordinari di Fosco: quello sugli Ainu, gli indigeni giapponesi, di cui racconta lo iyomande, l’uccisione rituale dell’orso; quello sui Cafiri, “gli infedeli, cioè non-cristiani e non-ebrei, in pratica i pagani, i primitivi rimasti ancora fuori dal campo dell’azione missionaria islamica”, tra i picchi di Pakistan e Afghanistan. Maraini sonda le stirpi estirpate, gli ultimi sussulti di culture travolte dal sopruso, dalle avversità della storia, dalla sfortuna; censisce le patrie perdute, gli dèi al tramonto, col cranio mozzo, l’eroismo degli inflessibili – altro che infedeli.

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A una delle sue spedizioni himalayane, sul Saraghrar, cima dell’Hindu Kush, fino ad allora inviolata, è il 1959, Maraini dedica Paropàmiso (1963). La spedizione, coordinata dalla sezione CAI di Roma, conta anche Franco Alletto e Giancarlo Castelli Gattinara. Quest’ultimo, nel 2007, con Marietti, pubblica la sua versione dell’impresa, Viaggio in Himalaya, che nel sottotitolo (“Un agnostico, un comunista, un cattolico discutono durante un’ascensione nelle montagne dell’Hindu Kush”) tradisce lo stile: è una specie di libro ‘platonico’, dove l’ascesa coincide con la disciplina del capire. Maraini, in questo concerto di voci, è l’agnostico; e dice, tra l’altro. È l’uomo l’eterno soggetto, il centro da cui tutto parte e il nucleo in cui tutto si risolve. L’altro termine è il Mistero, la comoedia della vita e della morte. Le religioni sono la somma dei messaggi che l’uomo legge in questo Mistero… Le religioni servono all’uomo, non viceversa. Il cristianesimo ha percorso il suo arco naturale di secoli, forse è tempo di riporlo, con tutto il rispetto per le grandi cose del passato, in un museo. Quante religioni non ha creato e lasciato lungo la sua strada, l’uomo!”. In montagna per sfracellare le idee di Dio.

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Se nel 1937 Maraini ha il fegato e il sale di proporsi a Tucci, in preparazione per l’ennesimo viaggio verso il Tibet, “come fotografo”; se alla fine della sua vita – nel 2004 – confessa, “ho optato per la Rivelazione Perenne, cioè il regime religioso in cui Dio parla, per chi vuole ascoltarlo, non attraverso messaggi singolari concessi in punti particolari dello spazio e in momenti particolari del tempo (Rivelazione Puntuale), bensì sempre e ovunque, nella natura e nella vita umana intorno a noi”, sarà anche perché nella villa di famiglia a Poggio Imperiale passeggiavano Bernard Berenson e D.H. Lawrence, H.G. Wells e Aldous Huxley (quello della Filosofia Perenne), Ardengo Soffici e Norman Douglas. Certo, Fosco era piccino e scatenato, ma certe cose restano, tra le ciglia e sotto le unghie. Tutto, d’altronde, è letteratura, parola che fonda sedie e tavoli. (d.b.)

*In copertina: una fotografia “giapponese” di Fosco Maraini

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