Qualcuno mi sussurrò il nome, diversi anni fa – l’avevo scovato nei briosi resoconti delle spedizioni tibetane di Fosco Maraini, di cui fu l’aiutante, era il 1937 – quasi subito mi domandai perché stava avvolto nell’oblio un tipo al cui cospetto l’hollywoodiano Indiana Jones è una giovane marmotta, è uno scout poco attrezzato, e che scriveva meglio di Bruce Chatwin. Non scherzo. Prima dell’irrequietezza come fenomeno editoriale, nel 1956, fu lui, Giuseppe Tucci, a scrivere un memorabile elogio della Vita nomade (incipit: “Un’irrequietezza mai sazia mi ha condotto al vagabondaggio fin dall’infanzia, in quella mia terra marchigiana conchiusa fra il mare volubilissimo e la montagna aspra”), dell’ascesa “sul Tetto del Mondo”, per “la congiunta istigazione della scienza e della libertà”, dove “l’uomo è umiliato dalla immensità e dai silenzi”, della tenda come stile di vita (“in tutte queste peregrinazioni la mia casa è stata la tenda, che per amore della libertà ho sempre preferito all’alloggio nelle case ospitali”), della vita all’aria aperta come stile per ossigenare il cervello dei giovani avviliti dalla metropoli, avviati al bigino della grigia quotidianità (“Torniamo alla campagna e ritroveremo nella sua chiarità e sincerità l’uomo perduto”; il testo che cito è raccolto in Il paese delle donne dai molti amanti, ora Beat, 2017). Insomma, non ho mai capito perché di Tucci, orientalista di fama mondiale – Indo-tibetica e Tibetan Painted Scrolls sono testi fondamentali come la sua traduzione del Libro tibetano dei morti – non si parli in continuazione. Per fortuna di Tucci esiste una biografia esaustiva, scritta consultando le fonti, ricca di documenti inediti (compreso il carteggio con Giulio Andreotti), in due volumi da 740 pagine ciascuno, dal titolo fiammante, L’esploratore del Duce, firmata da Enrica Garzilli, che per quel lavoro – in origine edito nel 2012 – ha sudato e pagato (intendo: un certo ostracismo accademico), perché evidentemente tocca territori ‘proibiti’. Laureata in sanscrito alla ‘Sapienza’, con Raniero Gnoli, la Garzilli, tra l’altro, ha lavorato all’Università di Delhi, ha insegnato ad Harvard (qui una sua biografia, con bibliografia, completa), sta lavorando, come sempre consultando fonti inedite o dimenticate, sui rapporti tra Mussolini, l’Asia, l’Oriente estremo. Gentile, sapiente, ‘tosta’, l’ho interpellata per avere una visione più chiara di Tucci. (d.b.)
Giuseppe Tucci. Un genio. Uno studioso-pioniere. Un avventuriero. Eppure. Si parla tanto del suo talentuoso ‘garzone’ (si fa per dire) Fosco Maraini, ma di Tucci si perdono le tracce e i contorni. Come mai?
Le ragioni sono essenzialmente tre. Prima di tutto, perché prima del mio lavoro del 2012 Tucci era totalmente sconosciuto, se non a un ristretto gruppo di tibetologi e indologi (mentre Maraini è sempre stato un divulgatore). Non c’era niente su di lui, una monografia, o un articolo scientifico, neanche un articolo di fondo di un giornale. Eppure, Tucci non solo è stata l’anima e il deus ex machina dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, fondato da Giovanni Gentile nel 1933 come istituto all’apparenza scientifico, in realtà con una funzione “squisitamente politica”, come disse Mussolini, ma fu il portavoce, esecutore e protagonista della politica culturale fascista in India, Nepal, Tibet e Giappone. Culturale e non solo, perché nel 1936-37 fu mandato nella Terra del Sol Levante proprio per riallacciare e consolidare i rapporti fra i due Stati con un’attività di track two diplomacy molto intensa e di successo, che portò l’Italia a entrare nel Patto Anticomintern come firmataria originale.
E qui si va alla seconda ragione: Tucci collaborò intensamente con il fascismo, grazie ai suoi studi e alla fama che pian piano si costruì in Asia, e questo è stato accuratamente nascosto e negato dai suoi più amati allievi, diventati tutti, grazie a lui, professori delle più importanti università italiane. Due di loro, uno dei quali, Gherardo Gnoli, è diventato presidente dell’IsMEO dopo Tucci e un brevissimo interregno di Sabatino Moscati, hanno anche fatto parte della P2. Tucci è stato, dopo la guerra, un personaggio scomodo, anche se sempre potente, tanto che la sua epurazione è durata meno di due anni e la sua attività, seppure in tono minore, ha ripreso nel 1947, quando dopo il commissariamento è stato riaperto l’IsMEO. Nel 1951 Nicola De Pirro (caporedattore del quotidiano democristiano Il Popolo, amministratore della casa editrice Sansoni, amico di liceo di Andreotti e capo del suo ufficio stampa), Giorgio Ceccherini e Tucci accompagnarono Giulio Andreotti in una missione ufficiale in Brasile “per l’inizio dell’Unione latina e la prima Biennale d’arte contemporanea”, come mi disse Andreotti in un’intervista del 2010, e “il prof. Tucci [che fu] indicato da cospicue famiglie italo-brasiliane e Nicola De Pirro, direttore generale dello Spettacolo (con l’intento di far propaganda per i film italiani). Tucci ebbe accoglienze molto calde sia a Rio che San Paolo”. Tucci è stato un protagonista di primo piano della politica culturale dell’Italia dal 1925 al 1978, anno in cui dovette dimettersi dalla carica di presidente dell’IsMEO, solo durante il fascismo in modo più aperto, e non solo perché ha dominato, insieme ai suoi allievi, la scena accademica italiana.
Fino al 1944 era noto anche al grande pubblico italiano per le sue imprese d’esploratore, i suoi articoli sui quotidiani, le sue affollatissime conferenze, i suoi libri di viaggio, la sua attività come organizzatore dei corsi dell’IsMEO e di eventi, party, presentazioni, molto più che come professore universitario a Roma – vista anche la sua scarsa presenza come docente. Poi la sua figura a livello popolare è andata piano piano scemando, per consolidarsi invece, se possibile, nel mondo culturale, specie in qualità di presidente dell’IsMEO, organizzatore e supervisore degli scavi archeologici in Asia – e non solo. Nel 1957 Tucci riuscì infatti a inviare una missione culturale dell’IsMEO in Cina, tredici anni prima del ristabilimento delle relazioni diplomatiche con l’Italia, e il nostro paese è stato il primo a riconoscere la Repubblica popolare cinese. Il Giappone aveva perso la guerra, la Cina era uno Stato potente. Nonostante che nel 1948 Tucci fosse stato ospitato per 15 giorni a Lhasa e fosse stato aiutato in tutti i modi per le sue ricerche, ricevendo anche in custodia dal Dalai Lama odierno – Tenzin Gyatso, che allora aveva circa 12 anni – una preziosa collana di volumi sacri (libri mai ridati, fra l’altro), proprio per non scontentare la Cina e non disturbare le relazioni bilaterali con l’Italia, che erano state ufficialmente stabilite nel 1970, Tucci non andò a fare visita al Dalai Lama a Roma durante la sua prima visita in Europa, nel 1973. Negli anni Cinquanta la Cina aveva invaso e annesso il Tibet e Tucci non aveva più bisogno di compiere missioni in quel paese: l’attività politica di Tucci in Asia, se pure sottotraccia, continuava. Anche perché per ottenere permessi di scavo in Iran, Afghanistan, Pakistan, ci voleva l’appoggio e la collaborazione dei governi locali, che lui otteneva grazie alle conoscenze acquisite durante il fascismo, al suo carisma e la sua abilità diplomatica e la sua fama di scienziato.
Terza e non ultima ragione, che ha dato più di un personaggio che ho intervistato quando stavo facendo ricerca per L’esploratore del Duce, è l’invidia. Invidia da parte di molti dei suoi allievi che si sono sempre arrogati, a torto e senza alcuna ragione giuridica, il ruolo di detentori dell’immagine di Tucci – senza però che del ricco materiale di cui l’IsMEO custodiva e di cui loro erano responsabili, e che era stato da lui raccolto e poi ampliato nel corso dei decenni, se ne facesse uno studio, se non un paio di cataloghi delle foto. Invidia perché il Maestro era insuperabile, invidia che fosse uno studioso eccezionale in diversi campi di studi, che fosse capace di accentrare fondi e appoggi politici, che fosse famoso all’estero, tanto che l’India alla sua morte, nel 1984, ha emesso un francobollo e un cartoncino commemorativo a suo nome. D’altronde, nel 1976, l’India aveva insignito Tucci del prestigioso Jawaharlal Nehru Award, un premio dato a personaggi del calibro di Martin Luther King, Jr. (1966), Madre Teresa di Calcutta (1969), Olof Palme (1985, postumo), Angela Merkel (2009), “per il loro eccezionale contributo alla promozione della comprensione internazionale, della buona volontà e dell’amicizia tra le persone del mondo”. Unico italiano fra i 44 recipienti. E non fu l’unico prestigioso premio che Tucci ricevette all’estero, furono decine.
Non sono in grado di dire se l’invidia per l’eccezionalità di Tucci e la sua fama a livello internazionale possa essere una delle ragioni per l’oblio in cui il Maestro è stato lasciato ma certo, avendola sperimentata io stessa da parte degli stessi personaggi, la reputo una delle possibili cause. Loro avevano i documenti, anche quelli che non sono stati più ritrovati, loro avevano il suo lascito, loro ne erano custodi. E non ne hanno saputo fare molto.
Che temperamento aveva Tucci? Come comincia a infatuarsi d’Oriente e a studiarlo, con devota minuzia?
Tucci era un uomo terribilmente affascinante, intelligentissimo, colto, veloce. Ma un grande manipolatore, un superbo, umile e servizievole con i potenti e arrogante con i deboli. Uno che eliminava accademicamente o socialmente chi non gli stava a genio o lo ostacolava, che non guardava in faccia nessuno per raggiungere i suoi scopi – infatti era visto con fastidio e sospetto da Mussolini, se non fosse stato per Gentile che mediava, e non divenne mai amico di Andreotti, che pure finanziò la sua ultima e più famosa spedizione in Tibet e lo sostenne dal 1947 fino alla sua morte, nel 1984. Ma Tucci e Andreotti non diventarono mai amici, non ebbero mai un rapporto che andasse minimamente oltre quello intellettuale. I suoi scopi dichiarati erano fare più grande l’Italia culturalmente e renderla pari alle altre grandi nazioni estere. Con lui in testa.
Tucci disse che cominciò a interessarsi dell’Oriente da ragazzo, studiando le gesta di Alessandro Magno che, come si sa, invase parte dell’Asia e nel 326 a.C. conquistò parte dell’India. Da qui si capisce anche il suo carattere: forte, accentratore, conquistatore. Conquistò vette, potere, fama, onori, e una cultura assolutamente fuori dal comune. E non esitò a usare tutti i mezzi per raggiungerli.
Cosa va a cercare Tucci in Tibet? Al di là di reperti e testi, intendo, da quale sapere arcano è condotto, guidato?
Non so se fosse guidato da un sapere arcano, sinceramente non mi sembra. Amava le sue montagne e la cultura del Tibet perché erano il contrario della civiltà moderna, diceva lui, veloce e che omologa tutto. Studiava una civiltà antica e lontana, camminava a piedi, sul mulo o a cavallo, dormiva in tenda. Anche se durante le spedizioni e dopo, per gli scavi, usava tutti i più moderni mezzi tecnologici del momento. Per il resto si professava buddhista, ma il suo buddhismo era del tutto particolare: seguiva i dettami del “di quello che fai ne devi rispondere solo alla tua coscienza”. Cosa che ovviamente non è incoraggiata dal buddhismo di nessuna scuola, che invece è rispettoso e attentissimo al rapporto dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, uomini, animali, piante, cose, situazioni – oltre al fatto che è una religione, almeno nella sua forma più popolare nel mondo, il Mahāyāna, e nel Vajrayana presente in Tibet, piena di regole e ritualismi su tutto, da come ci si deve comportare alla cosmologia.
Più in particolare: cosa pensa di trovare il Duce in Oriente?
Il Duce in Oriente voleva aiuti nella sua lotta contro l’Impero Britannico. Sosteneva i musulmani e i movimenti insurrezionali pubblicamente, sin da un discorso del 1921, quando disse riguardo all’India che “il raggiungimento della sua indipendenza non è più una questione di possibilità; è una questione di tempo”. Aveva anche sogni di gloria verso l’India: la penetrazione economica, culturale e, se possibile, una colonizzazione, che per lui, ancorato al vecchio modello di colonialismo, significava massiccio spostamento di persone nel paese colonizzato: “Le Indie sono proprio il forziere del mondo. Bisogna che l’Italia le possieda. Poco importa cosa diranno gli Inglesi. I legionari fascisti s’incaricheranno di farli tacere…”
Tagore, Gandhi, Eliade, Evola, Gentile, Andreotti: quali sono gli incontri che più influiscono nell’attività di Tucci? Chi, nell’arco della sua attività, lo ha ostacolato?
Tucci fu abilissimo anche nel conquistare il favore dei potenti. Prima Carlo Formichi, il suo professore di sanscrito, grazie al quale nel 1925 andò in India ospite dell’università di Tagore e nel 1929 fu ammesso nella prestigiosa Reale Accademia d’Italia, di cui Formichi era il vicepresidente anziano; dal 1917 Gentile, fino alla sua uccisione nel 1944; e fu aiutato dall’ avvocato, Cavaliere e Grande ufficiale Luigi Nuvoloni, padre della sua seconda moglie Giulia, vice direttore e almeno dal 1921 direttore dell’Ufficio Questura-Economato e Ragioneria della Camera dei deputati, nel 1926 membro del Comitato nazionale per le esposizioni e le esportazioni italiane all’estero; e in ultimo, dal 1947, il suo potente patrono fu Andreotti. Non fu grazie a loro che divenne uno scienziato di fama mondiale, fu grazie ai suoi meriti. Ma fu grazie a loro che fece carriera. Tucci vide appena Gandhi, non lo conobbe neanche; Eliade era un suo “ammiratore”, se così si può dire, e fu aiutato da lui; Evola era già un intellettuale famoso, se pure controverso, che lui invitò a scrivere sulle riviste che dirigeva.
Cosa resta oggi – con l’IsMEO ormai morto e l’IsIAO defunto – del magistero di Tucci?
Le sue opere. Rimangono le sue opere, i suoi scritti e le sue testimonianze come il portfolio di foto di Tibetan painted Scrolls, che sta lì a testimone di un’arte ormai in larga parte e per vari motivi distrutta, i manoscritti e le xilografie, i testi antichi, e le opere che ha portato in Italia e di cui è testimone il Museo Nazionale d’Arte Orientale, che lui stesso ha fondato negli anni Cinquanta, da poco incorporato nel Museo delle civiltà Mibac all’Eur. Come disse lui stesso, di noi quello che conta sono le opere.
So che il suo libro, all’epoca della sua uscita, fece scalpore. Perché? Ci sono cose e personaggi che forse è bene non studiare?
Oltre a lui? Sì, e qualcuno l’ho già nominato. E dei preziosi manoscritti scomparsi ho parlato. Delle altre cose e situazioni scomode non ne parlo, se no che gusto c’è a leggere un libro?
Al telefono mi ha detto cose deliziose intorno alla sua nuova ricerca: vuole raccontare per sommi capi ai miei lettori di cosa si tratta?
La ringrazio. Il titolo, credo, già dice tutto: “Il Fascismo in Oriente. Le avventure di Mussolini in India, Giappone, Nepal, Tibet e Afghanistan”. Un lavoro che non è mai stato scritto, in nessuna lingua, e che mi sta impegnando molto perché, come per Tucci, sto lavorando sulle fonti. Inoltre l’argomento implica anche altri aspetti storici e tocca argomenti politicamente e socialmente sensibili come il colonialismo e il razzismo, non solo la politica estera. Mi sta divertendo anche molto però perché, come dice Tucci, la ricerca è un’avventura senza fine. Non è una professione, è uno stile di vita. Sto vivendo un’altra grande avventura, cavalcando nel tempo, nello spazio, nella mentalità del tempo e nelle diverse culture. Spero che il risultato finale insegni qualcosa informando e stupendo. E soprattutto spero che i quattro lettori che saranno così gentili da leggerlo si divertano e vivano insieme a me questa nuova avventura. Perché la storia non è mera e arida ricerca, scelta e uso delle fonti, la storia è una grande avventura, è vita vissuta.
*Le fotografie di Giuseppe Tucci sono riprodotte per gentile concessione di Enrica Garzilli