25 Giugno 2019

Pirandello è il “grande frainteso” di cui nessuno conosce il segreto

Cominciamo con la parola dei maestri. Giacomo Debenedetti, nel saggio che dedica a Luigi Pirandello in Verticale del ’37, principia con una presa di posizione e un atto d’accusa. La presa di posizione: «Chi dicesse che Pirandello fu, e rimane, un grande frainteso, passerebbe per uno stravagante, o per uno scandalista a buon mercato. Eppure avrebbe per sé una grossa percentuale di ragione». Poi l’atto d’accusa: «Salvo eccezioni, non lo si inseguì nella profonda, originale zona dell’anima, che si concreta nella parola: cioè là dove vanno esplorati i poeti. […] Critica ancella, però: critica, nel miglior senso, complice. La quale, di fronte all’artista di apparentemente difficile accesso, sentì il bisogno di chiarire più che di capire».

La chiave va cercata in quelle due parole messe in contrapposizione: «chiarire» anziché «capire». Nel 1935, a un anno dall’assegnazione del Premio Nobel, Pietro Mignosi, studioso di letteratura e filosofia, con un’attenzione particolare ai temi cristiani, non era stato da meno di Debenedetti, pure se il suo studio non ebbe la fortuna che invece meritava; anche lui, fin dalla prima edizione (poi ampliata e messa a punto due anni dopo, l’anno successivo alla morte di Pirandello) della monografia Il segreto di Pirandello, aveva accusato di «complicità» la critica pirandelliana. Il suo atteggiamento era l’opposto di quello di un’«ancella», l’opposto di un invito alla lettura di. Lo si capisce fin da subito: «Il cosiddetto relativismo pirandelliano ha una origine del tutto diversa da quella del relativismo contemporaneo, che è di natura dialettica e metafisica, cioè di natura formale. Esso invece è un continuo ricercare, oltre il paradosso dell’apparenza fisica e l’errore della persistenza psichica, un sentimento unitario di vita che dia finalmente un ordine ed una consistenza alla tragedia dello scorrere e del relativizzarsi dei fenomeni che la filosofia moderna ha condannato a diventare delle illusioni».

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Provo a ragionare su una questione. Ho sempre avuto il sospetto che il problema di Pirandello fosse un problema identitario. Che il suo ragionamento sull’identità non fosse che un falso problema. Cioè, il desiderio di spostare l’identità da un “valore” identitario a un altro che ne fosse in qualche misura la rappresentazione.

Ma se pure gli stessi concetti di «identità» e «rappresentazione» non fossero che delle illusioni? Se pure questi concetti, voglio dire, non portassero ad alcuna verità dell’essere ma fossero altri schermi, altre forme, attraverso cui l’uomo imita il vero senza mai però poterlo davvero sostenere? Forse allora la verità in Pirandello è l’impossibile che ha bisogno di «identità» e «rappresentazione» per essere sostenuta. Identità rimanda, più che all’essere, all’essere identico. A qualcosa che si ripete nella stessa forma. Ma se è qualcosa che si ripete nella forma, di conseguenza, non potrà parlarsi di essere, ma di ciò che dell’essere non è che la scorza, come dire la sua esteriorità. Così la rappresentazione ha a che fare con l’imitazione (o l’evocazione), ovvero con il verosimile – qualcosa che la verità la indica pur non riuscendo ad abitarla.

Ecco il punto: una finzione che ne sostituisce un’altra, quasi potenziandola. Non solo, quindi, una società (specie la società borghese) che trova delle forme attraverso cui ingabbiare l’individuo per poterlo riconoscere (e controllare), ma un individuo che nel momento in cui tenta di evadere da una forma prestabilita se ne crea egli stesso una nuova per poter resistere alla verità di ciò che davvero è, o scopre d’essere. Lo stesso Pirandello lo afferma, in un’intervista: «La vita ha pur da consistere in qualche cosa se vuole essere afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D’altra parte questa forma è la sua morte perché l’arresta, l’imprigiona, le toglie il divenire. Il problema è questo, per la vita: non restar vittima della forma. È qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà». È a ben vedere il processo che determina la storia dei Sei personaggi in cerca d’autore (1921), di Così è (se vi pare) (1917), e pure, a pensarci, de Il fu Mattia Pascal (1904). In questo senso Pirandello ci appare ancora come il più moderno degli scrittori italiani del Novecento ma al contempo anche il più vecchio. Cosa significa? Che se fu tra i primi a comprendere che da una finzione mai ci si libera se non a patto di costruirne una differente (da qui anche il principio di comicità, quasi la messa in evidenza della connaturata condizione ridicola di ogni essere umano, schiavo, prima che della società in cui vive, del proprio io), dall’altra quella stessa finzione fa presto a invecchiare, così come invecchiano tutte le maschere comiche, comprese le maschere filosofiche.

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Ma Mignosi ci mette in guardia. Secondo lui, dietro Pirandello c’è, come abbiamo letto, un «sentimento unitario di vita», che poi significa una ragione morale da difendere e prima ancora da riconoscere: «egli deve mostrare analizzando la vita dell’uomo moderno, come la religione della soggettività, l’istinto dell’azione come fine a sé stesso, la perdita di una coscienza morale come coscienza di rinunzia alla solitudine, alla carne, all’oro, alla gloria, conducano l’uomo a quel complesso di contraddizioni insanabili che solo potrebbero esser guarite o dalla morte volontaria, o dalla pazzia liberatrice». Mignosi alla sostanza sostiene che la pazzia, in Pirandello, è un rimedio all’assenza di leggi che governano la vita. Se i personaggi pirandelliani si sentono perduti perché privi di una riconosciuta unità di vita, quella unità vanno a cercarla o in una morte volontaria che li riconduca all’origine, oppure a qualcosa che li liberi da quella condizione di annichilimento dell’essere (ancora Mignosi in un altro passaggio: «Insomma tutta (e insisto nel tutta) l’opera di Pirandello può aver il valore pedagogico di questa scoperta e condanna: la società moderna che ha perduto Dio, che vive come se Lui non esistesse, che si costruisce delle morali provvisorie, che è fondata sull’economia del puro soggettivo ed individuale, è condannata alla sofferenza, alla perdita della stessa personalità su cui si fonda, all’odio, alla sensualità, all’infedeltà, alla morte, al suicidio»). Ma la follia può davvero portare a un principio di unificazione? A quale unità può mai fare ricorso un pazzo? Per Mignosi, Pirandello ha compreso che per l’uomo non può esserci vita fuori da un creatore che la governi. Deprivato di un creatore, l’uomo non può che fare affidamento sulla propria ragione. Ma la ragione non è capace di sostenere all’infinito l’assurdità della vita. Per questo motivo, dunque, l’uomo si fa pazzo. Come dire, accetta di porsi lì dove la ragione non può più trattenerlo, tentando così, con un gesto di rivolta, in definitiva con un atto volontaristico (ed è in questo atto volontario che, al contrario di Mignosi, a me sembra trattarsi di una illusione liberatrice, di un nuovo stato di falsificazione) di aderire assurdamente alle assurde leggi della vita stabilite da un creatore.

Ma la novità (ed è una novità ancora oggi, nonostante le sterminate pagine di bibliografia pirandelliana, da Adriano Tielgher a Giovanni Macchia, da Antonio Gramsci a Leonardo Sciascia – per dire nomi particolarmente rappresentativi), direi addirittura la forza dell’intera analisi di Pietro Mignosi, non va cercata nei singoli passaggi, in quelle illuminazioni del pensiero che, pure non mancando, non spiegano l’interezza del ragionamento, ma nell’aver cercato e trovato una architettura cristiana dietro tutta l’opera di Pirandello. Bisogna quindi leggere questo libro prestando realmente fede al suo titolo. Quel segreto è davvero tale perché è ciò che sorregge l’intera impalcatura del discorso. L’accusa di Pirandello alla società moderna, per Mignosi non è altro che una crisi della coscienza; la stessa coscienza dentro cui si annida il peccato. Ed è quello stesso peccato che ci fa temere, quella stessa colpa che ci fa avere paura. Ma paura di cosa? Questo mi sembra il nodo centrale dell’analisi di Mignosi, che rivela la natura tragica di ogni creatura pirandelliana: i personaggi di Pirandello hanno paura della verità, che per il critico non significa altro che timore di Dio e delle sue leggi. In un mondo senza Dio, pare dire Mignosi, è sempre a Dio, al nostro bisogno di interrogarlo, che desideriamo tornare. Ma tornare a Dio è, per il critico, tornare a sentire la vita in tutta la sua pienezza; una pienezza che ha certamente una natura religiosa; una natura che nessuna costruzione filosofica può mai davvero eludere o, peggio, rimuovere.

Andrea Caterini

*Si riproduce qui per gentile concessione il saggio di Andrea Caterini che introduce il libro di Pietro Mignosi, “Il segreto di Pirandello” (CartaCanta, 2019)

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