Forse sarà il nitore russo, il rapace di entrare nell’alcova della psiche. Per prima cosa, quando la avvicino, redarguisce la mia disattenzione. Ha ragione. Rimedio. Quando leggo I giorni di Jacques (Ares, 2019) resto banalmente sbalordito. La storia di Jacques Fresch, dalla cornice agiografica – ghigliottinato il primo ottobre del 1957, a 27 anni, figlio di buona famiglia, con l’agio della dissipazione e l’ago dell’inquietudine, il ragazzo sogna la Polinesia, fa una rapina, uccide nella fuga un poliziotto, nell’eremo della cella scova Dio, dopo la sua morte s’impalca la causa di beatificazione, postulata dai salesiani – diventa il romanzo di un ‘tipo’, esente da risposte e da assoluzioni, un crocevia con gli assoluti. “Jacques è il doppio – il conflitto tra realtà e illusione, delirio e ragione, un tipo che non ha mai paura degli estremismi e combatte la propria guerriglia fino a quando si ritrova vaneggiante all’altro lato della vita. Allora comincia il suo duro dibattersi fra il delitto, la purificazione, la giustizia e l’ingiustizia della pena”, scrive l’autrice, nella Nota introduttiva. E giunge al quarzo centrale: “La società ha partorito schiere di Jacques – ma il filo di questa vicenda ha dei nodi particolari, e uno – fondamentale – che si chiama ricerca della felicità”. Il romanzo mi sorprende per felicità di scrittura (incipit di perentoria riuscita: “La porta diede un colpo secco. Ed eccolo lì, il cortile. La bruma di un precoce autunno, in quell’ora antelucana, lo invadeva sino a farlo sembrare un imbuto, e i profili delle cose che c’erano dentro somigliavano ad arborescenze minerali”), apertura di sguardo, sagacia nell’uso delle fonti per far levitare la temperatura narrativa, grado d’intrusione nella vita altrui (il gorgoglio della psiche, quell’impasto russo che terrorizzava i gusti inglesi quando si trovarono in mano le prime traduzioni di Dostoevskij e Tolstoj). “Perseguitato da pensieri occulti, Jacques non parla più. Va e viene, rincasa tardissimo, non rincasa affatto. A letto, si adagia lateralmente su una sponda, rigido: sua moglie ne misura il respiro, a sua volta non osa muoversi, allungare una mano. Per evitare pietose, calcolate bugie, ha deciso di non chiedergli nulla circa i suoi progetti futuri”. Così, avvinto, mi avvicino a Curzia Ferrari. Poetessa – alcuni suoi libri, tra cui Lucertola e Pietra, sono editi da Aragno –, giornalista, scrittrice nota e letta in diversi Paesi, ha tradotto e raccontato i grandi poeti russi – da Anna Achmatova a Majakovskij, da Esenin a Viktor Sosnòra –; alla relazione con Salvatore Quasimodo ha dedicato un libro necessario, Dio del silenzio, apri la solitudine (Àncora, 2008). Qualcosa di inevitabile e di intoccato, un segreto che giace dietro i polmoni, la tana del ghepardo, è in questa storia di Jacques, di cui chiedo. (d.b.)
Storia di dissipazione e resurrezione, di un perduto che trova l’avvio alla vita santa, quella di Jacques Fesch, pare uscire da una trama di Dostoevskij. Come si è avvicinata a questo personaggio, come è nata l’idea del libro?
Ho spiegato nella nota iniziale il lungo percorso che ha fatto in me la storia di Jacques Fesch. L’idea del libro, archiviata da tempo per la pressione di altri lavori, è riaffiorata tre anni fa. Ma il “materiale” era già pronto, si trattava di organizzarlo anche alla luce di una rilettura dell’Opera di Jacques e degli scambi epistolari con il di lui figlio Gérard, che assai ha combattuto per il riconoscimento anagrafico. Il mio libro è guidato dall’introspezione del personaggio, tappa obbligata per chiunque si occupi di biografie. C’è una tale polifonicità e un gioco di scambi – in questa vicenda – che conducono a un’analisi non predeterminabile dell’uomo Jacques Fesch: per ciò le mie pagine restano aperte, si fermano alla terribile soglia del passaggio, rispettando un mistero di cui molti si sentono già padroni
Pare che la caduta, la colpa, il ravvedimento e infine la cella, cioè un luogo – fisico e del destino – senza via di uscita siano le condizioni ideali per affrontare Dio: può essere così?
Sono stati elevati agli altari eremiti, trappisti, persone vissute tra la gente come Madre Cabrini… Per Jacques, siamo sempre al discorso dell’analisi della persona. Un giovane ricco, non credente, incline a indubbi disturbi mentali considerati stranezze, che concepisce il sogno delirante della grande fuga e si ritrova in pochi metri cubi d’aria a fare i conti con il proprio fallimento, con i mali fisici, e infine con la morte, non ci consente di entrare con certezza nel suo apparato psichico. Jacques cercava la felicità. I suoi scritti, specie gli ultimi, lasciano intendere che l’abbia trovata nella fede, e l’abbia trovata così tenacemente da desiderare di non uscire più di prigione, altrimenti sarebbe ridiventato l’uomo di prima… Come a dire che il mondo lo avrebbe risucchiato? E allora?
La biografia/romanzo è scritta con straordinaria finezza: mi domandi quali siano le sue fonti narrative, le letture di cui si è nutrita per approdare a questa lingua.
Il linguaggio, più appare liberamente creativo, più è frutto di una grande disciplina. Ho letto di tutto, dall’adolescenza, da quando ho cominciato ad alfabetare; ma lo stile me lo sono fatta da sola lavorando sul peso della parola e sul concetto socratico che non esiste una verità bell’e pronta all’interno della parola. Al contrario, bisogna trovarla secondo la sua disposizione nel testo.
Qual è, dalla mole di testimonianze relative a Fesch, quella che più la ha sorpresa? Le chiedo, poi, di estrarre una frase emblematica di Fesch che a suo avviso ne distingue il percorso esistenziale.
Non mi lascio sorprendere facilmente. E poi le cose che si sono dette sul caso Fesch sono sempre le medesime. Più interessante la scrittura di Jacques, che è variegata, ricchissima (anche se ripetitiva), ora piena di slanci e invocazioni, ora di arditezze trattenute. Ha scritto così tanto, poveretto, in quei terribili anni di detenzione, da sentir sciogliersi il braccio, come ha confessato. Difficile estrarre una frase emblematica del suo percorso spirituale, ce ne sono troppe. Non è da prendere alla leggera la ripetuta affermazione di avere ricevuto le Grazie della sua morte. Di contro c’è una lettera alla suocera del 26 aprile 1957 che può sembrare banale ed è invece un grido di vita. In essa Jacques scrive: “C’è un fossato tra coloro che sono “fuori” e quelli che sono “dentro”. Insomma, anche senza logica e psicologia il tuo cuore di madre giunge molto bene a capire di che cosa si tratta… Ho fame di carne, vorrei trovarmi in un bosco con un montone intero allo spiedo; penso che lo mangerei tutto, e per digerirlo prenderei una gran coppa di crema al cioccolato. Vedi, mi fa soffrire più la privazione della carne, che non tutte le ghigliottine del mondo!”. Non mi inoltro nella simbologia della carne, considerata come avversaria dello spirito dai Padri della Chiesa, da Giovanni, da Paolo, poi riscattata, almeno in parte, dall’umanesimo… Qui colpisce la disperazione del detenuto d’essere sottratto alle funzioni vitali, fisiche, di una normale quotidianità.
Allargo lo spettro e approfitto per chiedere di lei. Che maestro è stato Salvatore Quasimodo? Su di lui, come intellettuale e poeta, non mi sembra si parli abbastanza, risolto (o quasi) nella traduzione dei Lirici – e lì minimizzato, ad esempio, nella lettura obliqua di Sanguineti. Mi accenni a un dettaglio che ne possa simboleggiare la statura umana.
Quasimodo è stato mio compagno di vita e di dialogo. Quando lo conobbi, avevo già una personalità formata, un amore sviscerato per Majakovskij (cui in seguito avrei dedicato un romanzo biografico, contravvenendo al fatto che un autore non deve mai amare i propri personaggi!) e due rubriche d’arte su importanti periodici, “La Fiera Letteraria” e “Critica Sociale”. Scrivevo poesie, e quando gliele presentai ne ebbi una bacchettata molto utile. “C’è dentro una forza: – disse – ma butta via tutto e ricomincia da capo”. Era un uomo intransigente nel lavoro, e fragile sul piano umano. Il suo credo politico è stato contrabbandato e male utilizzato. Ne ho scritto nel volume “Dio del silenzio, apri la solitudine”, riconosciuto come il testo più importante, insieme ai ‘Meridiani’, che sia uscito dopo la sua morte. Maurizio Costanzo lo ha definito “un libro giustizialista”. Per la verità, in quelle pagine, spulciando vecchi documenti e facendo leva su ricordi personali, io ho indagato la sua tormentata vicenda interiore. La critica, per colpe varie e non facilmente attribuibili, oggi si occupa poco di lui. Del resto già Contini nel 1968 tentava timidamente quella svalorizzazione che altri fecero. In Quasimodo c’è una linea di demarcazione traumatica fra il Novecento e il Novecento sociale, post-bellico; e forse questo gli ha nociuto.
Vorrei domandarle, infine, dei russi, che ha tradotto e di cui ha scritto. Che cosa la ha catturata di quella letteratura, quale poeta di quella stagione irrimediabile e irripetibile le è stato più congeniale e intimo, e perché?
Il filo che mi lega alla cultura russa mi fa pensare che qualche mio lontano antenato sia nato in un’izba invece che in un cascinale padano. Dalla prima volta che andai in URSS, come inviata di “Gente”, che negli anni settanta-ottanta era un settimanale serio, mi trovai subito a casa (anche se non erano rose e fiori…) Fu in quel periodo che portai in Italia il samizadt di Viktor Sosnòra, un poeta pietroburghese sorvegliato dal regime, oggi un classico. Avevo già tradotto testi di cubofuturisti, ma il linguaggio di Sosnòra fu uno scoglio. Ne scrissero la presentazione in volume Diego Fabbri e Giancarlo Vigorelli. A Mosca conobbi personaggi storici, come Lilia Brik, ormai vecchissima, e lo studioso Vasilij Katanian, suo terzo marito. Incontrai il burattinaio più famoso del mondo, Sergej Obraztsov. Imparai che cos’è il culto del teatro e il peso della letteratura sulla vita quotidiana. Anche una persona di livello medio-basso cita l’Achmatova quasi fosse una vicina di casa. Dicono che la cultura abbia una sua bandiera, diversa da quella nazionale – quale essa sia. Sventola idealmente sulle carceri per le quali tutti gli uomini di pensiero sono passati, al tempo degli zar e durante il regime sovietico. Oggi, come ben si sa, la Russia è globalizzata, ma fino a qualche tempo fa, bastava uscire un po’ di chilometri dalle grandi città e si ritrovava ancora l’aria agreste e sacrale di Esenin e dei poeti contadini.
Qual è il libro che ha formato il suo carattere letterario, quale quello che consiglierebbe a un liceale, oggi, per avviarsi all’avventura del leggere?
Impossibile rispondere. A prescindere da Dostoevskij e da “I promessi sposi” che la scuola ci ha fatto odiare e per conto mio ho riletto non so quante volte, incoraggerei alla lettura comunque. Confrontando i testi più disparati si impara a dubitare, a discernere, a pensare. La formazione avviene così. Fuori da scompartimenti stagni che limitino la ricerca. E nella logica della propria curiosità. A suo tempo mi colpì “Il libro di Giobbe” rivisitato da Guido Ceronetti. Ci insegna la Sapienza del pazientare.
*In copertina: Jacques Fesch (1930-1957) appena arrestato