La letteratura del Novecento è assediata da vite stravaganti rimbalzate da una sponda all’altra dell’Atlantico: i grandi scrittori sanno trarre linfa dalle loro peripezie, provate solo a immaginare Nabokov con un anno di viaggi in meno sul groppone e finirete col privarlo della fantasia necessaria per inventare un paio di romanzi.
Però possiamo immaginare altre vite, più riservate, magari quelle dei traduttori prodigiosi dell’età classica dell’editoria italiana, tra anni Cinquanta e Sessanta. Se usiamo la lente di ingrandimento non troveremo molti fatti: semmai, storie curiose, esistenze ricche di dettagli imprevedibili. Rintracceremo percorsi, parabole. Un compito, in definitiva, oltre le forze di un laureando medio, oggi. A meno che… in effetti qualcosa ben fatto si legge anche qui.
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Oggi 15 agosto ricorre l’anniversario della morte di Henry Furst, che non ho paura di definire come il più importante traduttore dall’inglese del nostro Novecento. Mettiamola così, se avete il vezzo intellettuale: Furst ha fatto per il Nord America quel che Rodolfo Wilcock ha realizzato per il Sud di quel continente. Certo la vita di Furst, nato a New York l’11 ottobre 1893 da genitori tedeschi di ceppo episcopaliano, quindi né luterani né calvinisti, è incredibile anche solo a leggerne il resoconto che ne tracciò in Due amici Mario Soldati (nel 1989 in Rami secchi).
Il padre avvocato, la madre figlia di industriali. Henry ci mette del suo: educato a Yale, passa a Oxford, si fa battezzare cattolico a Parigi, durante la guerra lavora all’ospedale quacchero di York e poi, impensabilmente carico di energie, nel 1919 si laurea in lettere… a Padova. Mi fermo qui con i dettagli perché durante il ventennio la questione si tinge di rosso e di nero: Furst è consulente politico di D’Annunzio a Fiume.
Successivamente rientra negli States perché si è liberato un posto alla biblioteca della Casa italiana alla Columbia University. In realtà Furst non sarà mai un tipo gestibile. L’amico Soldati che visse con lui un anno e mezzo a New York lo tratteggia così: sempre carico di libri come un personaggio surreale, tutto estroverso, aperto a nuove sollecitazioni. Disposto ad aiutare chi ha bisogno, partendo in quarta con una battuta spiazzante. Insomma, un tipo così o ti affascina o ti spaventa.
Per capirci, Furst era una testa pensante che a botta calda, dalle pagine del New York Times Books Review recensiva Moravia nel 1936. Il libro in questione era Le ambizioni sbagliate. Serviva una buona dose di coraggio per premere il tasto Moravia.
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Ecco come Soldati richiama la figura sfuggente di Furst entro il contesto universitario americano: “Trafelato e ansante, reggeva la smisurata catasta contro il petto, tra le due braccia tese e il mento. Quelli, disturbati, contrariati, spaventati, lo guardavano di sbieco, e fingendo di non vederlo. Cominciarono a poco a poco a indagare, e a farlo sorvegliare anche fuori della Casa italiana e dell’università, e perfino nella vita privata, cercando solo l’occasione propizia per liberarsi di un personaggio incomodo per loro incomprensibile, e che, a torto e a ragione, credevano pericoloso”. Soldati continua dicendo del candore di Furst che rischia di tramutarsi in arma temibile quando scopre delle magagne, subito denunciate senza fare sconti ad alti papaveri. Insomma: personaggio scomodissimo, Furst trascorse il resto della vita traducendo i classici dall’inglese. Viveva dalle parti di Recco, frequentava assiduamente Montale, finché…
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Finché incombe come una pietra il lato piacevole della storia. L’ha raccontato la moglie italiana di Furst, Orsola Nemi. In realtà non è poi un caso frequente in letteratura, il noto incontro tra un uomo che ha valicato la mezza età con la passione amorosa della fiamma dura e avvolgente dei trent’anni – e dall’altra una scrittrice di poesie e romanzi, la quale prova simpatia per chi non può dischiuderle orizzonti di carriera ma sa offrirle occasioni di vita fuori dal comune. Per dire: un uomo che sappia scrivere insieme a te una vita di Caterina de’ Medici. Da fare invidia a Dumas!
Questo fu, di fatto, la coppia Furst – Nemi. Lui la conosce che ha superato i cinquanta, lei tocca i trenta e ha composto, per soprammercato, un buon romanzo.
L’amicizia tra l’americano che vive sopra Recco e indossa abiti cardinalizi mentre legge tomi su tomi e questa italiana di La Spezia parte da un gesto immediato: da un avviso che uno dei due ha diramato su giornale perché ha bisogno di vecchie annate de La fiera letteraria, e l’altra voce risponde.
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Per fortuna la Nemi gode ancora di discreta stampa grazie a Bompiani. È piacevole leggere questa missiva di Furst ai suoi inizi con la Nemi: “È proprio dell’amore cancellare dove arriva tutto ciò che lo precede, e accamparsi come unica realtà. Quando si presenta in una vita giovane, ha poco da cancellare e molto, molti anni da promettere. Se si presenta inatteso sul tardi deve cancellare una vita intera quindi è devastatore. E della devastazione compiuta si arricchisce acquista forza e potenza, si mostra com’è, tremendo, ma non ha nulla da promettere. Poco rimane a chi è così invaso: forse qualche anno, forse qualche mese, materia di nessun conto. Allora se Dio ha misericordia, l’invasore è esorcizzato, dalle sue mani tremende, vuote di tempo, cade una un accenno all’eternità”.
Altre epoche? Certo, già quando scrive Furst è splendidamente anacronistico per i suoi tempi, ma non per il suo sentire perché se è vero che il telefono esisteva già, lui pensa sulla pagina scritta perché intuisce che la voce usurpa di più dicendo meno.
Strano che una testa raffinata come Furst ci abbia messo del tempo a capire di dover scendere da Recco a Spezia per trovare quel di cui aveva mancanza. Per capire che ogni amore distante e impossibile è la proiezione di una distanza e di un’impossibilità legata alla presenza o all’assenza di chi non sarà più con noi. Per capire che questo non ha nulla di mistico, che l’unica cosa presente e al tempo stesso assente, questa costante ‘nostalgia del futuro’, non è altro che la somma (o il prodotto?) di tutto ciò che non capiamo di noi stessi e, forse, coincide con noi stessi nel punto in cui scendiamo dal monte per trovare chi è sotto, perché chi sta in basso, è inesorabile, non sfugge all’amore.
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Quando Furst conobbe la Nemi, portava il pane a casa recensendo libri inglesi e spesso passava il malloppo sotto banco a Montale che poi firmava “di proprio pugno” sul ‘Corrierone’: serve credere a Soldati per questo aneddoto che inquadra alla perfezione i due. Da una parte l’arcinoto poeta nazionale, dall’altra l’americano che si sente sempre più anziano di quanto non sia e diventa nostalgico della sua gioventù – tanto che qualcuno con alzata d’ingegno gli dà, nel dopoguerra, del fascista.
Altro che fascista pentito, Furst era semplicemente troppo acuto per limitarsi a guardare solo all’Italia: mentre la moglie Orsola traduce il meglio dell’Ottocento francese, lui passa in rassegna tutto Stevenson (otto traduzioni tra romanzi e long stories), inediti di Greene, i diari di Jünger errabondo a Parigi (Irradiazioni), saggi ponderosi di sociologi tedeschi (Il borghese di Sombart) e poi, tanto per passare al profano, lavora sull’Henry Miller collaterale di Plexus, sulla Compton-Burnett per le grazie di Arbasino, sui racconti incredibili di Kafka. Senza farsi mancare la parte di traduttore serioso che fa conoscere da noi un grande storico del mondo antico: Moses Finley.
Insomma, Herny Furst resta una figura arrivata dallo spazio per agevolare il lettore italiano che non riesce a masticare gli originali.
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Non trovo di meglio per chiudere questo profilo che ricopiare un pensiero lirico di Bolaño. La traduzione è un’incudine, scriveva il cileno su un giornale di Barcellona quando si faceva conoscere. “Come riconoscere un’opera d’arte? Come separarla, anche solo per un momento, dal suo apparato critico, dai suoi esegeti, dai suoi instancabili plagiari, dal suo destino finale di solitudine? È facile. Bisogna tradurla. Bisogna che il traduttore non sia una cima. Bisogna strapparne pagine a caso. Bisogna dimenticarla in un solaio. Se poi dopo tutto questo salta fuori un giovane e la legge, e dopo averla letta la fa sua, e le è fedele (o infedele, non importa) e la reinterpreta e la accompagna nel suo viaggio verso i limiti ed entrambi si arricchiscono e il giovane aggiunge un grammo di coraggio al suo coraggio naturale, ci troviamo di fronte a qualcosa, una macchina o un libro, capace di parlare a tutti gli esseri umani: non un campo arato ma una montagna, non l’immagine del bosco ma la selva oscura, non uno stormo d’uccelli ma l’Usignolo”.
Quando guardo ai libri stranieri da ventenne, in realtà, non vedo altro da quanto detto da Bolaño: tutto, ogni emozione, ogni dramma, ogni ferita, ogni infinita passione, si riconduce a quel testo originario, un lungo ed unico amore distante e impossibile moltiplicato e frammentato su mille storie e altrettanti incontri e poi finito in una pagina o nel volto e nel corpo di un’unica ragazza e in tutte quelle che l’hanno circondata.
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Abbiamo bisogno di feticci per domare certi abissi: poi i feticci passano e gli abissi sono sempre lì, a volte ancora più grandi, immensi. Decidete voi dove trovare il bello, se in una sciarpa o in un libretto di Stevenson tradotto da Furst. Importa solo la capacità di sentire la poesia (di ogni forma e stile!) ad ogni istante della nostra vita: vedete voi, dove e come. Se vi capita di sentirla all’anniversario di un vecchio traduttore estinto, siete felici.
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Il trucco sta nel non aver paura degli abissi: abbiamo grandi e potenti ali per varcarli, i sogni e le profonde visioni surreali. Se guardiamo bene dentro a noi stessi, assomigliamo ad uccelli migratori. A talpe. A cani che mordono alle caviglie del nostro inferno come diceva lo svogliato Bukowski. A pigri gatti che meditano assonnati alla luce del sole veneziano.
Ma il feticcio più grande resta l’abisso stesso, il quale, in ultimo, si riduce a tutti i limiti e le paure che abbiamo, all’impossibilità che siamo. Per questo è importante riposare ed essere gentili con gli altri. Come indica Kerouac in un bellissimo poema zen, non pensate che ci sia nessuna gerarchia tra gli umani, ma solo vortici, aggregazioni di amori distanti ricomposti su un volto e su una parola: “Strictly speaking, there is no me, because all is emptiness. I am empty, I am non-existent. All is bliss”.
Andrea Bianchi