Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, sia lode ora a Sergio Marchionne, il manager con il pullover. Dicono fosse geniale – anche se non lo è stato, onoriamo il morto con una preghiera-petroglifo.
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Mi sorprende il cinismo. Appena le condizioni di Marchionne appaiono ‘irreversibili’, si trova il suo sostituto. Le ragioni aziendali sono più importanti di quelle affettive: non c’è spazio al silenzio, alla memoria, perché Marchionne, infine, era uno stipendiato, mica un uomo libero. Terminato il rapido can-can degli omaggi – sulla traccia sono sempre i migliori quelli che se ne vanno – si proceda, la Borsa con il suo viso di iena avanza, azzanna.
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Penso a come vestiva, a come parlava, a dove abitava e non mi pare sia stata una vita felice, una vita intensa quella di Marchionne. L’intensità non è qualificata dal successo né dalla fama né dalla televisione, è ovvio.
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L’anno scorso, a metà marzo, è morto Derek Walcott, Premio Nobel per la letteratura, tra i grandi poeti in lingua inglese del millennio. Yves Bonnefoy, invece, è morto il primo luglio del 2016: Bonnefoy è uno dei grandi poeti in lingua francese di sempre. Di entrambi mi è stato concesso l’onore di scrivere il ‘coccodrillo’. Di Walcott – in ragione del Nobel – ricordo una nota a margine sul tiggì di mezzogiorno; di Bonnefoy si è disinteressata l’informazione televisiva pubblica, quella che fa share.
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Inutile avanzare la geremiade, leonina sorella della frustrazione. Istituzioni, gran khan e lacchè piangono il grande manager di una grande azienda; se muore il poeta, se ne fregano tutti. Anzi, il poeta sta pure antipatico, è un perdigiorno.
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Perché, allora, spreco anch’io una preghiera-cero sul corpo beatificato dalla morte di Marchionne? Beh, perché Marchionne, tra un paio di lustri, sarà un illustre sconosciuto, noto agli storici del sistema industriale; Walcott e Bonnefoy, invece, sono una certezza, continuano a fare la storia.
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Marchionne ha salvato una grande azienda, come dicono, e ha dato lavoro a tantissimi. Il poeta salva la vita a tutti, grandi e piccoli.
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Il problema, però, non sono Walcott e Bonnefoy, poeti riconosciuti… ma… quando muore un poeta sconosciuto? Penso a una figura simile a Franz Kafka. Kafka ha influenzato clamorosamente la nostra vita, eppure nessun capo di Stato era presente al suo funerale, era presente qualche amico e neanche tutti i parenti – alcuni ne detestavano le garbate bizze.
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Il poeta sconosciuto che muore, senza un viso al suo capezzale se non qualche spaurito cuore puro, le sue poesie che vengono scoperte dopo la morte, e amate, con forza più forte della morte, quando lui non c’è più. Questo è l’emblema del santo.
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Piuttosto, è interessante il contrasto: Marchionne è fatto santo perché è un ottimo professionista; se lo scrittore è ottimo, lo insultano, perché lo scrittore, se è ottimo, crea scompiglio e disgusto, dà fastidio. Di solito, preferiamo lo stipendio fisso a uno che ostinatamente ci ricorda chi siamo, cosa dovremmo essere, cosa non saremo mai.
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Ricordo i funerali di Pier Paolo Pasolini – guardate YouTube, l’Erodoto dei nostri tempi – ricordo Carlo Bo che sul corpo di Ungaretti dice, ‘noi siamo una generazione che avrebbe dato la vita per il proprio poeta’. Quarant’anni fa la poesia era – nel bene o nel male, in sberleffo o menzogna – una priorità. Un sano timore verso la parola poetica concesse a Eugenio Montale e a Mario Luzi l’ingresso in Senato, a vita. Ora che hanno annientato il potere della parola poetica, un amministratore delegato è ritenuto pari a un filosofo, pari a Platone.
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Già morto alla vita, il poeta salva la vita a chi lo legge – cosa serve il denaro se non sappiamo i nomi con cui domare l’aldilà?
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Proprio questo è l’enigma: muore nell’irriconoscenza il solo a cui dovremmo essere riconoscenti. (d.b.)