Non c’è cosa peggiore che invitare gli scrittori a parlare di letteratura e della sua salute. Lo detestano. Oppure no, non è vero. Alcuni scrittori, ma dico scrittori, amano parlare in profondità dello scrivere e del leggere.

Glielo dico che sarà una conversazione alla Operette morali e non si tira di certo indietro. E perché dovrebbe, uno come lui? Non è la prima volta che Edoardo Albinati si confronta con il tema, ma attenzione, non con i miei antipatici pruriti. E se non bastasse l’argomento, già minaccioso di per sé per la tentazione di farsi arbitro, gli impongo un’intervista sbriciolata, che esige risposte brevi, impulsive e quindi incontaminate – che presunzione la mia – per non lasciare tempo all’escogitato.

Sembrerei una canaglia a buttarla giù così dura, ma insomma, perché l’autore di Oro colato, un libro miracoloso nel quale ci tiene a puntualizzare che lo scrittore è prima di tutto un lettore e che leggere è più importante dello scrivere, dovrebbe rifiutare una chiacchierata seduti su uno strapiombo?

Ci dobbiamo dare un appuntamento e alla fine della telefonata glielo ripeto, voglio che sia chiaro, ribadisco che sarà un prelievo di sangue. Mi dice di incontrarci il pomeriggio stesso al bar fuori dall’Istituto San Leone Magno in via Nomentana e provo vergogna, è a pochi metri da casa mia. Lo sforzo che devo impiegare non è pari al sacrificio che pretenderei da me nel raggiungerlo ovunque, magari per un’intervista memorabile. Ma tant’è, che elucubrando arrivano le quindici e io mi incammino sapendo che non c’è nulla da improvvisare, le domande già friggono da giorni nella tasca della mia giacca. Arrivo in anticipo e vedo che lui è già lì, seduto. Io questo bar lo conosco e non perché storicizzato o per una mia frequentazione, ma perché ho avuto come vicini di ombrellone i vecchi proprietari del medesimo, che me ne hanno raccontate di storie accadute qui negli anni caustici in cui proprio il giovane Albinati era studente.

Non ci stringiamo la mano e mi accomodo davanti a lui. Visto che siamo ai tavolini di fuori accendo la prima sigaretta e lancio il mio energico “pssst, pssst!” al barista dietro al vetro. È impensabile cominciare a impostare socievolmente questo incontro, stavo per dire duello, senza la protesi di un bicchiere di vino che agguanto appena arriva al tavolo.

Ci diamo del tu, perché la differenza di età ci unisce. Lui ha lo sguardo granitico eppure dolce e con la mole di aspettative che inizia a pesarmi sul petto, tiro larghe boccate di fumo, capendo che lui mi ausculta quando dovrei essere io a fargli sbottonare la camicia. Iniziamo a parlarci in una gentile considerazione reciproca e io sorrido troppo a ogni sua rassicurazione sull’esito di questo incontro lampo.

E lo sento che sto per fare una figuraccia, perché lo capisce che non riesco a iniziare questa intervista. Poi rido inghiottendo le ultime sillabe di una frase e ammazzo la sigaretta nel posacenere, mentre l’altra mia mano, quella eroica, posa il telefono al centro del tavolino premendo la memoria vocale.

Edoardo Albinati, pensiamo a una cosa, pensiamo a questo lamento che in Italia in particolare ascoltiamo da anni, del fatto che si legge poco da noi. Ma la lettura è una questione di quantità?

Credo di no. È però statisticamente improbabile che uno che legge poco o niente azzecchi i libri buoni.

Ogni giorno, in tutto il mondo, vengono pubblicati romanzi orribili che ci feriscono per la loro pochezza. Allora, arrivati dove siamo, è meglio la libertà di leggere quello che si vuole o tornare a un’educazione letteraria?

C’è spazio per tutto e per tutti. E libertà; inclusa quella di farsi del male. Basta però che non mi si venga a dire che, cominciando con le schifezze, uno pian pianino arriverà a Musil, e che dunque è un bene che legga schifezze.  Mi dispiace, non funziona così.

Insomma, secondo te non c’è redenzione nelle scelte spaventose e reiterate di larga parte dei lettori, diciamo una possibilità del caso, che inciampino in un buon libro?

Certo, è possibile, in teoria. Però i brutti libri ti deformano e prima o poi diventano il tuo orizzonte di senso.

Ma accondiscendere alla cultura del lettore non implica limitare il suo intelletto e quindi anche offenderlo?

Il livello della cultura di chi legge un libro non dovrebbe minimamente interessare chi lo ha scritto. Libro e lettore si cercano e si trovano da soli.

Come a dire che potrebbe sempre avere ragione il lettore quanto lo scrittore?

Sia nella scrittura, sia nella lettura, la pretesa di “avere ragione” non esiste.

Intendi la ragione del giusto, sbagliato, bello, brutto?

Sì, c’è qualcos’altro. Ci sono il piacere, la curiosità, la noia, le scoperte, le conferme, le delusioni da entrambe le parti.

(A questo punto getto uno sguardo allo schermo dello smartphone, perché ho dimenticato di fare una prova di registrazione e qui siamo all’ incrocio di una strada a quattro corsie. Ma vado avanti, perché Albinati si presta ammirevolmente a questa pesca con la dinamite, a tratti grottesca. E poi non sono così cattivo e di sicuro non intelligente, non ci tengo, ma piuttosto libero con uno scrittore che si è creato uno spazio letterario senza compromessi, a cominciare da uno stile commisto – oggi visto come un veleno – di romanzo e saggio).

Dopo quanto tempo un lettore può diventare uno scrittore?

Tra i venti e i trent’anni, di solito, è il momento buono. Ma ci sono anche scrittori molto precoci oppure vocazioni tardive. È comunque raro che uno abbia voglia di mettersi a scrivere se non ha amato e ammirato altri scrittori e invidiato i loro libri.

Senti, oggi le scuole di scrittura, le case editrici, gli agenti letterari, gli scrittori, invitano a scrivere con uno stile asciutto e parasentimentale, uniformando così la scrittura.

Se levi l’aggettivo “asciutto”, sono d’accordo. Scrivere frasette non vuol dire essere asciutti, anzi. “Parasentimentale” mi sembra invece la formula giusta per descrivere un certo stile che oggi va per la maggiore.

Va bene, ma lo vogliamo dire, esiste veramente un solo modo corretto di scrivere?

Ce ne saranno diecimila. Già se sposto una virgola, sto inventando il decimillesimo e uno.

E per te chi sono gli avversari dei libri?

Dei libri in generale?

Sì, del “libro”.

Qualsiasi altro passatempo: e oggi ce ne sono tanti e anche attraenti, in cui trastullarsi.

E gli avversari di quelli che riconosciamo tutti come testi importanti, che meritano più della dignità di stampa, diciamo dei libri buoni?

Dei libri buoni, i libri cattivi, anzi scusa, quelli pseudoletterari, che creano un equivoco su cosa sia la letteratura.

(In quel momento il traffico su Via Nomentana era addirittura esagerato. Comunque, sono già soddisfatto. Fino a qui ho avuto la conferma del mio moto di ammirazione per Albinati come lo avevo trovato in Maggio selvaggio, il libro sulla sua passione di insegnante nel carcere di Rebibbia, in Orti di guerra, nell’elettricità di Velo pietoso e giù, fino in fondo al reportage dall’Afghanistan contenuto ne Il ritorno, ma anche nelle più recenti pubblicazioni come Desideri deviati).

Cosa mi sai dire della bulimia dello scrittore? Al di là degli impegni contrattuali o della pubblicazione di articoli per pagarsi un mutuo di casa, lo scrittore non scrive forse troppo oggi?

Mah, in realtà non vedo in giro tanti Balzac, nel senso di produttori infaticabili e seriali, nessuno, insomma, da un libro l’anno come Bruno Vespa. È però vero che uno rischia di disperdersi in tanti altri lavoretti, o di spremere le proprie opere per ricavarne prodotti secondari. L’autore che munge se stesso fa impressione. Il già fatto andrebbe lasciato alle proprie spalle il più rapidamente possibile.

Non si parla mai della paura di farsi dei nemici nell’ambiente. La Repubblica delle Lettere ha i suoi ministri, deputati, senatori, giudici, poliziotti, faccendieri. Nell’editoria criticare qualcuno apertamente è fatale come sembra?

Non tutti siamo cuor di leone, questo è vero. Però nel mondo delle lettere nessuno ha l’autorità di lanciare una fatwa contro nessuno. Semmai i social possono farlo.

Edoardo, un’ultima breve domanda.

Prego…

Dunque, a cosa non dovrebbe servire scrivere?  

Scrivere ha molte ragioni e molti scopi diversi e contrastanti tra loro.

Dimmene alcuni.

La ricerca di bellezza o di fama, sfogo, frustrazione, vendetta, bisogno di soldi, solitudine, nobiltà o bassezza d’animo.

Anche la gloria…

Sì, certo, il riscatto di sé e del mondo intero, il talento, l’espressione del genio e del narcisismo… non escluderei per principio nessuna di queste possibili ragioni e funzioni.

(Questa intervista in apnea è quasi finita e io ero stato chiaro con me stesso quando mi ero promesso che non avrei fatto domande dirette sul suo lavoro, i suoi libri, i suoi allori. Ma guardo incerto la facciata in cortina dell’Istituto San Leone Magno. Sì, sarebbe banale, tautologico, non erano questi gli accordi, oppure non sono convinto di questa regola che mi sono dato, potrebbe essere un’occasione persa non chiedergli del suo libro più discusso).

Senti, ci ho pensato. Non voglio farti domande su La scuola cattolica.

E allora, non farmele.

Federico Febbo

Gruppo MAGOG