Io i romanzi li soffro, li pago con tutto il corpo. “Ora mi sono pure messo a dieta, ho cominciato a dare pugni al sacco, mi sono sfasciato”, mi dice, concitato, non lo freni, “no, perché io i romanzi li soffro, li pago con tutto il corpo, ci metto tutto, mi segnano”. Lo capisco. Nel corpo di uno scrittore è rispecchiato e vissuto, come un circo di cicatrici, il corpus, l’opera.
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Sono nato classico, cosa posso farci? Accade raramente, ma di solito accade così. Dal libro risalgo all’autore – per capire la coincidenza (o l’esiziale distanza) tra scrittore e scrittura. Ho letto Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani, 2020), ne ho scritto, e sono asceso ad Aurelio Picca, scrittore che non scopro certo io (cito alcuni romanzi piuttosto noti: Tuttestelle, Sacrocuore, Un giorno di gioia, Arsenale di Roma Distrutta). “Vedi, io inizio con i racconti, ero tutto lì, in quel libro, La schiuma, l’aveva pubblicato Gremese e avevo fatto un miracolo, ho messo d’accordo tutti, la neoavanguardia e la tradizione, ricordo che ne scrissero Geno Pampaloni e Angelo Guglielmi, per dire. Sono nato classico, cosa posso farci?”. Di certo, il tuo è un romanzo ‘italiano’, si sente, c’è quella lingua spessa e imperfetta, imperiosa, azzardata, con corpi e vento, senza sconti né riserve. “Non ho altra ambizione. Sono l’ultimo scrittore della tradizione e della scrittura italiana… ma te non sai che vita ho fatto…”.
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Me ne vado al Bernabéu senza sapere nulla dei Mondiali. No, non lo so. “Ho fatto sette, otto anni di studio matto, un corpo a corpo con le parole, vivevo fuori dalla realtà. Ero inabissato in una specie di ricerca interiore, non sapevo nulla oltre a quello che leggevo. Ti dico solo questa. Era il 1982, entro al bar, un gruppo di amici mi ferma: vuoi venire con noi al Bernabéu, a Madrid, c’è la finale? Non sapevo niente neanche dei Mondiali, non conoscevo i nomi dei giocatori della Nazionale. Ma sono andato”.
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Punisco me… per punire voi! C’è un anniversario. Aurelio Picca fa il suo esordio alla letteratura nel 1990, trent’anni fa. Con una raccolta di versi, editi da Rotundo. La raccolta si intitola Per punizione. “Volevo provocare e punirmi, pensavo alla letteratura come ad una assoluta assunzione di responsabilità. Così, viene fuori Per punizione. Punisco me… per punire voi”. Cosa leggevi di poesia? “Ho letto molto, di tutto, i classici, la poesia del Novecento. Pascoli, Ungaretti, Leopardi, Foscolo, Caproni… Sono stato amico dei padri, di Domenico Rea, di Amelia Rosselli. Ho amato l’Ortis, quella maniera appassionata di dire l’Italia in frantumi, l’esistenza in corpo, la misura di prosa e poesia. Fu importante”.
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Laudavino De Sanctis, “Lallo lo Zoppo”, il capo della Banda delle Belve. Il romanzo di Picca ha il candore di ciò che ti assassina, è una specie di Kaputt degli anni Settanta e Ottanta, di quell’Italia romana, putrefatta. Tutto comincia con un articolo. Lo pubblica “il Giornale”, il primo marzo del 2015. “Parcheggio di fronte al Caffè Palombini per raccontare le feroci gesta di Laudavino De Sanctis detto Lallo lo Zoppo, colui che, poliomielitico, fuggì appeso a corde e lenzuola due volte da Regina Coeli e una dal carcere di Pisa. Il criminale a capo della Banda delle Belve, quello che lavorò con il Clan dei Marsigliesi; quel Lallo, zoppo come Moravia, il quale vestiva con giacche a due taschini e spacchi e che, già nei primissimi Settanta, si «faceva» le gioiellerie e posava le chiappe sulle meglio automobili”, leggo. “In realtà, ho pensato a come costruire il libro dal 2012, appena terminato Addio. Quell’articolo fu una svolta nel giro simmetrico invisibile del fato. Ho conosciuto la figlia di Lallo, ho accumulato materiale. 4mila fogli di carte processuali. Eppure, non m’importava scrivere un romanzo storico né la biografia di un criminale – il libro doveva essere ineccepibile, ma raccontare qualcosa di più potente”. C’è un’atmosfera, nel libro, vivida, livida, come una spirale di lucertole, ti morde. “Beh, non puoi scrivere ciò che ignori, la penso così. Da ragazzo sono stato ‘signorino’ ma anche ‘ragazzo di vita’, uno che faceva la sua ricerca spirituale e che correva sulle macchine, ero nella contraddizione totale. Sapevo di uno che si era buttato già da Regina Coeli e s’era azzoppato… mi serviva questo specchio, questo interlocutore per la storia di un uomo esistenzialista. Amo le storie di uomini che non sono moralisti né corretti, che fanno i conti con la propria vita, senza maschere, anzi, tentando di strapparsele tutte, le maschere”.
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Era un posto selvaggio, puro. Ora è tutto una merda. I luoghi hanno una possanza primordiale, fin da subito. Vulcani, crateri, macelli. Vita che si erge sull’ultima erma del sangue. “Penso che il cono del vulcano stia risucchiando acqua. Una specie di gola arsa che si disseta… Per me il lago Albano è la morte. Eppure ci vivo. Forse perché mi offre gli ultimi anni che merito o rubo a me stesso”, dice il protagonista del libro, Alfredo Braschi, nella prima pagina. “Questi sono luoghi arcani, pazzeschi: James Frazer ha scritto Il ramo d’oro intorno a Nemi, sul Monte Cavo sorgeva il tempio di Giove, il più importante della latinità, da sempre, da secoli, fanno pellegrinaggi lassù – ci fanno anche le messe nere. Tra quei crateri sono nato io”. Sacrifici, responsi ambigui, epica inumana e troppo umana. Nel romanzo c’è il sacro, “la via Sacra, la stessa che calcavano i pellegrini oltre duemila anni fa”, e l’assassinio profano, la criminalità, l’epigrafe e il volgare. “Non hai idea di cosa fossero i Castelli Romani, a quell’epoca… potevi incontrare Gianni Agnelli in un ristorante e nello stesso posto una banda di ragazzi che ti diceva, così, senza conoscerti, ‘senti, stasera andiamo a farci una villa, sei dei nostri?’, conosco quelle atmosfere, quelle storie, quel sangue… Era un posto selvaggio, puro. Ora, tutto è diventato una merda”.
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Ho cominciato a scrivere perché avevo bisogno di una legge. Alla fine del romanzo, denunci una poetica. “Nella vita ogni nodo viene al pettine. E se non decidi tu, ci pensa lei. Non credo nella fortuna, né alle scorciatoie. Sono stato un bambino orfano. La mia ferita era talmente bianca che già allora l’anima tagliava e illuminava il corpo. Forse sono diventato uno scrittore per sostituire, attraverso le parole, la legge del padre e poi di un nonno che fu per me patriarca”. Spiegati. “Con gli anni ho scoperto che la mia cultura è cristiano-pagana. Mia madre era una donna di grande interiorità, un po’ levantina; mio nonno, che mi ha allevato, questa specie di padre mitico, era repubblicano e anticlericale, contro ogni Stato, foscolianamente. In seconde nozze, mia madre sposa un comunista togliattiano, pensa te. Quando è morto mio nonno, avevo 19 anni, ho scoperto la letteratura e mi sono fatto l’idea che scrivere mi serviva perché avevo bisogno di una legge. Se non avessi trovato la letteratura sarei diventato un rapinatore a mano armata”.
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Preferisco Fenoglio, Calvino ha distrutto la tradizione della lingua italiana. Ma… cosa leggi, piuttosto, cosa hai letto? “Sono passato da Guy de Maupassant a Domenico Rea, attraverso Giovanni Verga, che ha scritto i più grandi racconti italiani di sempre. Ho attraversato il Tasso e Tozzi, i provinciali furenti; sono stato contagiato dai francesi, quelli tra le due guerre, Drieu e André Malraux, soprattutto, ho amato la biografia deragliata del Foscolo, ogni anno vado in pellegrinaggio sui Colli Euganei. I francesi mi hanno insegnato che se c’è una lingua, allora l’esistenza può entrare nella letteratura. Poi, è chiaro, preferisco Beppe Fenoglio a Italo Calvino, che ha distrutto la tradizione della lingua italiana. A vent’anni amavo Pierre Klossowski; naturalmente, ho adorato Céline, ma ora lo citano un po’ tutti per questo dico: Puskin”.
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Io sto coi papi che impugnano la spada. Ricalco altre due frasi dalla tua poetica, dalla tua confessione. “Questo romanzo è un viaggio che ha Cristo sepolto in petto”. E poi: “Credo che la perfezione stia pure nella caduta”. Dimmi. “Vedi… sono uno scrittore verticale, amo Maupassant, sono uno che taglia con l’ascia. Ho dentro di me lo stupore dei bambini, quella meraviglia che è anche ferocia, che è pagana ed è parte del cristianesimo. Il Cristo l’ho sentito a trent’anni, con la potenza di Grünewald. Dobbiamo ricordarci che Cristo è un uomo che muore, sulla croce. Cristo era uomo quando è morto, mica Dio, e questo è sconvolgente. Il cristianesimo è pietà e combattimento. Come si può capire, io sto con i papi che impugnano la spada”.
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Se Dio mi darà la forza. E ora, che scrivi? “Niente”. E cosa scriverai? “Vorrei scrivere un libro grandissimo, vasto, s’intitola ‘Romanzo dell’eternità’. La trama riguarda la storia di un bambino, da quando è un feto agli 11 o 12 anni, l’età in cui si diventa, prepotentemente, adolescenti. Questo bambino abita da solo, in un palazzo abbandonato, e prepara un presepe. Il presepe gli viene distrutto d’estate dalle rondini, d’inverno dai topi. Lo scriverò, se Dio mi darà la forza”. Che Dio ti dia la forza, Aurelio. (d.b.)
*In copertina: Aurelio Picca in un ritratto fotografico di Maurizio Valdarini