Era nato a Garretsville, una piccola cittadina dell’Ohio. Suo padre, un ricco produttore di dolciumi, è stato l’inventore delle caramelle con il buco, le «Life Savers». La madre fu una donna spezzata dal divorzio, che fece pesare sul figlio il fallimento del suo disastroso matrimonio. La «maledizione della separazione dei genitori» e l’immagine materna ossessioneranno la sua poesia, che va annoverata tra le più alte di tutta la tradizione lirica occidentale.
Hart Crane è stato un genio assoluto e precoce. Per fuggire dal clima sempre teso e litigioso tra i suoi, si immerse nella lettura, assimilando i grandi classici della poesia angloamericana. A diciassette anni partì per New York, che restò la sua città, la sua musa, anche se cambiò diverse città e diversi stati, in un inquieto vagabondaggio: al ponte di Brooklyn dedicò il suo grandioso poema, pubblicato nel 1930, «The Bridge», una «sintesi mistica dell’America», come egli stesso lo definì. La struttura d’acciaio sospesa sull’East River rappresentò per lui l’emblema e l’apice della città, e dunque del mito.
Nella poesia di apertura, To Brooklyn Bridge,paragonò il ponte a un’arpa e a un altare. «Abbiamo visto la notte sollevata nelle tue braccia» scrisse, con memorabili versi, invocando un dio. Amò i marinai e le grandi bevute, conobbe le risse e la prigione, i lavori umili e il fallimento, la povertà e il vasto mare. Nel 1929 incontrò in un bar di New York Federico García Lorca, il grande poeta andaluso, anche lui, come Crane, ossessionato dal ponte di Brooklyn, da Walt Whitman e dai ragazzi. Entrambi destinati a morire giovani. Che cosa si dissero? Recitarono i versi dell’amato Whitman, ricordando la sua «barba piena di farfalle»? Parlarono del suono delle campane, che oscillano chissà dove? Bevvero del Cutty Sark? Si ignorarono? Sedussero qualche bel giovanotto dagli occhi invitanti? Forse c’era un interprete che favorì l’appuntamento, o forse no. Si sa poco o nulla dell’incontro tra questi due prodigiosi talenti. Un incontro che continua a far sognare chi ama la poesia.
Tre anni dopo, il 27 aprile 1932, Crane, ubriaco fradicio, saltò dal ponte della nave a vapore Orizaba, gettandosi nelle acque del Golfo del Messico. Stava tornando a New York da Vera Cruz, per sistemare alcune cose nella tenuta del padre, morto un mese prima senza lasciargli quasi nulla in eredità. Era in Messico per una borsa di studio, e aveva in progetto di scrivere un poema sulla storia di Montezuma e della conquista spagnola. Nelle prime ore del 27 aprile sulla nave, Crane fu picchiato duramente da un marinaio che aveva reagito alle sue avances sessuali. Malconcio e con un occhio nero, verso mezzogiorno apparve sul ponte. Camminò fino alla ringhiera, si tolse il cappotto, lo piegò con cura appoggiandolo al parapetto, pose entrambe le mani sulla ringhiera della nave, fece per sollevarsi, ma cadde. Poi si rialzò, stavolta con più convinzione saltò sul parapetto e saltò giù in mare. Anche se furono calate le scialuppe di salvataggio, non fu più trovato e il suo corpo non è mai stato recuperato. Aveva trentadue anni.
La sua poesia è stato spesso accusata di essere oscura e difficile, ma il suo linguaggio così denso di metafore ha creato immagini e ritmi di pura, sorprendente bellezza. A sedici anni aveva già tentato il suicidio sull’Isola di Pines al largo di Cuba, una proprietà della famiglia di sua madre. I rapporti con i genitori furono sempre difficili e conflittuali. Visse di espedienti, lavori saltuari, aiuti finanziari, comportamenti sconsiderati. Ma visse soprattutto scrivendo, lavorando di rifinitura ai suoi versi, dedicandovisi con artigianale accuratezza: una dedizione ascetica a cui non volle mai rinunciare. Benché non fosse cristiano, aveva una sensibilità cattolica: la sua opera ha infatti forti risonanze bibliche. Crane, però, credeva solo nella poesia, la sua unica fede, alla quale improntò la sua vita e la sua perenne, inquieta insoddisfazione.
Tra i suoi ultimi versi troviamo questo sibillino frammento, che rimanda, con icastica lapidarietà, al dramma edipico della sua essenza:
«Ho visto il mio fantasma spezzato Il mio corpo benedetto E l’Eden Raschiato dal seno di mia madre Quando l’accusa fu pronunciata L’amore spodestato E il sigillo rotto…».
Nell’aprile 1917, a soli diciott’anni, aveva scritto a suo padre: «Sarò senza dubbio uno dei più importanti poeti d’America se mi sarà permesso di dedicare abbastanza tempo alla mia arte». La sua ambiziosa profezia, avverandosi, non si rivelò per nulla avventata.