14 Settembre 2019

Contro i poeti, aristocratici del martirio, catechisti dell’invisibile. Un dialogo australe tra Luca Orlandini e Davide Brullo

Delle creature di dio, il solitario, scrissi un tempo, caro amico, se è vero, come si dice, che ognuno vive in esilio, da se stesso, da quel che avrebbe voluto essere, e dagli altri, e quando è impossibile non pensare all’esilio sovrano dei poeti, e alla solitudine di Travis Bickle in Taxi Driver, vicolo cieco della metropoli: “Loneliness has followed me my whole life. Everywhere. In bars, in cars, sidewalks, stores, everywhere. There’s no escape. I’m God’s lonely man”. Al sogno e alla follia, da sempre parenti così prossimi.

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E scrissi altro, cavalcando lo stesso linguaggio, quello delle immagini. Ne abusai. Affermai che, limitrofo dell’assoluto, squilibrato d’eccezione, il poeta rappresenta nell’immaginario collettivo il riverbero quasi irreale di un mito interiorizzato fino alla demenza, la straziante fiducia nelle parole, il fare affidamento in loro, che polverizza i grammatici. Creatura sovrana, in agguato, che si inabissa e identifica con il principio stesso di manifestazione e di generazione dell’abisso, egli è il sigillo della fatalità, l’enigma di un’aurora boreale che sfoggia l’incedere vigoroso di un’anomalia atmosferica. Un uccello selvatico roso dalla nostalgia del cielo e del vento, che vuole prendere alle viscere, provocare un brivido lungo la schiena, scuotere i nervi. È il ritmo serrato e imprevedibile delle stagioni, e non delle concatenazioni verbali. L’implacabile lucidità unita al candore di un bambino. Qualcosa che va oltre la letteratura e la scrittura, di più profondo della letteratura, e di cui la letteratura non è che un ricordo. Lui, che pretende, per sé, lo statuario diritto di perorare le sue reminiscenze d’assoluto, e di imporre un timbro unico, che “tocca alla maniera di certe note che hanno il potere di far esplodere i bicchieri con le vibrazioni delle loro onde”. Lui, che vuole essere il giaguaro del verbo, e sfigurare e sfondare i cadaveri altrui per rasoiare la tua stessa carne molle, senza cautele. È la pretesa di essere il custode di ogni enigma, il tono temibile di chi lo presenta nudo e indecifrabile, e impossibile da mettere sotto silenzio. È l’aurora di immagini che si staglia fiera contro il meriggio dell’immaginazione secolare; lui, che di ogni epoca fu l’innocenza e il furore del solitario in guerra contro il drappo grigio della serietà, il cittadino, l’urbanità, il dèmone meschino della banalità umana. Impietosa iridescenza che riserva tutto il suo magnetismo all’orgoglio, “una bestia feroce che vive nelle caverne e nei deserti”. E sono consonanti e vocali di una preghiera in guerra contro il nulla. Il dolore di un naufrago che scava gli occhi. L’agguato senza tregua che solca il vuoto e annota con scrupolo il nulla della terra, le figure alla deriva prede della polvere, le cose superstiti. Lui, che gravita intorno a un buio precario e una lama che oscura il viso, un luogo imprecisato, dove le cose vibrano al peso dell’ira e del silenzio. Che discorre a tu per tu con la terra, per legare le sue speranze all’ignoto, a una profondità abissale, un fanale scuro di poesia rivolto ai morti, per parlare ai vivi. Lui, che nel deserto di un’epoca, va a caccia della sua visione interiore, per edificare la cattedrale di una voce, la provvidenza di chi cerca quel paradiso perduto “dove si sa tutto e dove non si spiega niente”, per evocare “una lingua non discorsiva, segreta, fatta solo di immagini”, quando sa che è impresa vana, e tenta, comunque. È il soffio acre di maestose rovine, dove si adunano l’ardore di un’impresa oscura, una tenacia interiore, i beccheggi muscolari di una inquietudine, e la fiera illusione, difronte a un’Umanità perduta, di difendere comunque qualcosa e qualcuno, non fosse altro che la feroce intransigenza di una singola vita in contrasto con la Storia. Da navigatore di terrae incognitae, cresciuto “come l’erba, tra grigie e possenti lastre del pensiero”, pretende di elevarsi a un canto e un pensiero dalla vitalità sorprendente. Alcuni sussurrano che sia un maestro d’infelicità, della vita vissuta in tutte le sue contraddizioni. Un’esperienza spietatamente risanatrice, vitale. E io affermo che è il paradiso del brivido. L’avventura dell’esilio. Un panico itinerante. Di fronte a un’Umanità in preda a un assopimento profano, il poeta veglia, ipnotizza tutti, vi pone nel suo incantesimo. È la saggezza della sfida.

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E poi ci sono io che, sebbene mai volgarmente scettico, all’incanto del mito contrappongo il mio congenito disincanto. Io, che non faccio un mito di nessun fottuto essere umano. Io, che ho cucito addosso a un poeta queste mie parole, solo a patto che egli fosse all’altezza della sua maschera, e dunque non completamente falso (quasi nessuno, infatti, sfugge al proprio io drammaturgico). E questo perché i migliori poeti ti fanno dimenticare, per alcuni attimi, che anche la loro è una frode, benché di rango. A qualche raro poeta non posso chiedere di meglio che distrarre il mio inscalfibile dubbio, di sentirmi complice della sua inevitabile sconfitta. Ad alcuni di loro ho anche scritto: “crediamo in cose diverse, ma non importa in cosa credi, conta solo il modo in cui difendi ciò che più ti tocca”. Io, che non dimentico mai che ognuno di noi nasce con in dote una dose di opportunismo da spacciare, anche il poeta. E nessuno sfugge al senso tattico di ogni opera, alla schiacciante evidenza che chiunque proponga qualcosa, qualsiasi cosa, dalla più sublime alla più infima, farà di lui una via di mezzo tra un millantatore e un dio, nel suo piccolo, uno che ce la darà a bere – e l’incanto terminerà quando in lui prevarrà il millantatore. Io, che non disconosco mai la volontà del poeta di fotterti e abusarti con il miraggio delle sue parole. Leggerlo con passione, se non si è un suo pari, vuol dire già avergli consentito il privilegio di giocare con le tue cupe infermità, essere un sedotto in più, un’altra vittima da aggiungere alla lista delle sue prede. Lui, che, imitando “la fede o il nulla” del religioso, ti ingiunge nel suo canto: “la poesia o il nulla”. L’uno prepara l’avvento del Regno nella preghiera, l’altro, nella poesia. Se non altro, vi tendono.

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Sì, anche il poeta è una creatura terrena, umana troppo umana, e “perfino l’apparente assenza di vanità, perfino la modestia, la rinuncia, la carità o il sacrificio nascondono quasi sempre una forma più raffinata e più sottile di vanità, abilissima nel travestimento delle proprie intenzioni, perché essa non è, in fondo, che un’irradiazione dell’amor proprio, di quel principio di conservazione e di affermazione di sé che costituisce il fondamento dell’individuo, senza del quale non saremmo neanche in grado di respirare”. Sì, il poeta è l’aspirante membro del coro degli eletti, il monaco di un’immaginazione elevata a monastero, un metafisico del proprio io votato a fiore del deserto, a canto della nullità di ogni cosa e resurrezione, il credente nell’eccellenza delle anime eccelse. L’aristocrazia del martirio. Colui che si sminuisce e si degrada nella ferrea convinzione che vi sia una suprema forza nel perdere… “i singhiozzi sono una dimostrazione di forza, un assalto”. Lui, l’assetato di sedotti, che aspira a rapire, e non comunica con i suoi simili se non per il bisogno di ammiratori più che di eguali, essendo gli altri, in fondo, solo un pretesto, teatro, uno spazio scenico da riempire. Scriverebbe una sola parola senza testimoni? Lui, che lavora, per quanto è in suo potere, al voluttuoso lutto della sua solitudine, al vero oggetto della sua fede, per sprofondare compiaciuto tra le braccia di quella stirpe di esseri umani che desiderano essere soli, se non unici. In quella moltitudine di unici che ambiscono a impegnare l’universo intero con le proprie tare. Lui, che rappresenta il tacito orgoglio di trasfigurare le vostre, talvolta nell’illusione di edificare una nuova stagione umana e letteraria, piegandosi alla mania di predicare. Guardalo, lo si riconosce dalla grandezza della sua visione, dal suo inesorabile esercizio di crudeltà, l’eccesso di indiscrezione, rivolti contro i suoi simili, e contro se stesso.

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Mentre io, di un poeta e pensatore, non riesco a trattenere quel che egli afferma, la sua parte edificante, ma solo quello che nega, e la potenza con il quale addita alla fragilità dei fenomeni del mondo e della vita umana, perché porto tatuato sul cuore questo lucido epitaffio: “ogni pensiero che vuole essere soluzione lo è solo nascondendo a sé medesimo le obbiezioni mortali che dal senso stesso della soluzione affacciata si levano a colpirlo”. Io, che lascio la parte edificante dei poeti e i pensatori alle sterili illusioni degli intellettuali, allo Stato, alla Cosa Pubblica, perché, quando penso ai poeti, a quello che mi interessa di loro, penso solo al destino che avrebbe voluto Kafka per i suoi scritti, a Rimbaud morto nella cancrena e sprofondato nel silenzio, alla tragedia che visse Nietzsche con parenti e amici, che, invece di sostenerlo, lo ostacolarono; penso alla vita di Leopardi devastato dalla malattia, a Isidore Ducasse che vide solo sei copie del suo Maldoror, a come giunse tardivo il riconoscimento per l’eterno marginale e apolide Cioran; penso alla orgogliosa solitudine e povertà di Spinoza – lui, così lontano dalla mia natura – al suo sdegno delle cattedre, delle offerte di rendita da parte dei mecenati; alla docile rassegnazione con la quale si fece scippare l’eredita dalle sorelle, lui, così estraneo al danaro; al fatto miracoloso, per una voragine di pensiero come la sua, che possedesse solo centosessantuno libri, dei quali soltanto diciannove di filosofia; a quella tragica ironia, allorché morì solo e venne sepolto nella chiesa di Spuny, da dove poco tempo dopo furono rimossi i resti – che non furono mai più ritrovati – per far posto ad altri cadaveri.

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Caro amico, sono catechisti dell’invisibile, il raccapriccio e il piacere uniti in un sadismo che ammira avidamente le ceneri del proprio masochismo, i poeti, e soffrono tutti o quasi della stessa colpa, quella di “non riuscire ad essere qualcuno all’insaputa della gente, o lasciar perdere le proprie delusioni, senza farle fruttare”. Nel loro patto di disonestà, plagiano il silenzio, raccogliendo i frutti del suo prestigio in un’opera da capitalisti dell’ombra e, aureolati di autenticità, si illudono di arginare la loro cattiva coscienza, “il patto di gelo a cui si sottomettono agli occhi dei propri simili”, giacché non ignorano che, anche “se sottoposti alla cura dell’immobilità, del ritiro e della passività, verranno rafforzati dalla loro stessa astinenza, dal loro digiuno – lo stile della distanza sarà in funzione della loro centralità”.

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Ascolta, amico, un francese del Novecento, quando scrive, non lontano dal vero, che… Nello sforzo di legare il tempo e la morte, la poesia dilaterà le parole per lacerarle nello sforzo di esprimere l’espansione del mondo interiore del poeta, che le strapperà al loro uso quotidiano al fine di conferirgli una risonanza inaudita. La poesia, tuttavia, troppo spesso è sacrificio, ma di parole. Il suo sacrificio è parziale. L’uso e l’abuso delle parole ha luogo sul piano ideale, irreale del linguaggio, e il poeta è condannato a portare incessantemente rovine nel mondo inafferrabile delle parole, giacché, qualora perdesse il gusto del tesoro, smetterebbe di essere poeta. Egli non può ignorare l’abuso, lo sfruttamento, l’estrazione di rovine segretamente attese, affinché tante cose da sempre immutate si sfascino, si perdano, comunichino. Il vero sacrificio è diverso dalla poesia perché non è limitato al campo delle parole. Se è necessario che l’uomo intuisca all’estremo le parole, i loro giochi più malati non possono bastare, e questo perché l’immagine poetica, se conduce dal noto all’ignoto si appoggia però al noto che le dà corpo e, nonostante lo laceri e con ciò laceri la vita, non lo abbandona. Allora la poesia è quasi tutta poesia decaduta, godimento di immagini sottratte, sì, al campo servile ma rifiutate a quella rovina interiore che è l’accesso all’ignoto. Anche le immagini profondamente rovinate sono campo di possesso, i poeti a loro volta coltivano l’equivoco che viene dalla possibilità di afferrare ciò che essenzialmente si sottrae, e, nel contrasto tra la volontà di prendere e quella di perdere – il desiderio di appropriarsi e quello contrario di perdere – la poesia è allo stesso livello degli stati di consolazione, delle visioni, delle parole dei mistici. Le consolazioni tradurranno un elemento inaccessibile in forme familiari, e nelle consolazioni l’anima gode, possiede; sia che levi grida, sia che cada in delirio, non ha la lingua mozzata, non raggiunge il fondo, il vuoto scuro. Le immagini della poesia più interiore e più perdente, le impressioni, le immagini poetiche trattengono, anche quando lo scavalcano, un potente senso di proprietà, l’invadenza di un io parassita che riferisce tutto a sé. Anche il poeta maledetto si accanisce a possedere il mondo sfuggente delle immagini che egli esprime e con cui ambisce intimamente ad arricchire l’eredita degli uomini…  Così narra, letteralmente, L’esperienza interiore, l’autore – che non ho mai amato – de La letteratura e il male, libro di una noia siderale.

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E ascolta un altro grande scrittore del XX secolo… È faticoso affrontare l’illusione del commercio dei poeti che, eccetto delle rare eccezioni, si riveleranno falsamente profondi ma veramente imbevuti della loro vacuità: la loro sottigliezza intellettuale, la sensibilità cosmica e la lucidità da veggenti da loro implicitamente presupposta si rivelerà mostruosamente ridicola, illusoria… dubitate allora del poeta scaltro, timido a comando e mai troppo affaticato per inventarsi dei tormenti che susciteranno la compassione di una posterità ingannata. Abile nel valorizzare il proprio disordine e le sue visioni, il poeta divaga con un’abilità ineguagliata. Deve alimentare il proprio caos, deve produrre. È un indiscreto che divulga le sue miserie, le ripete fino alla nausea. Egli si offre. E non ha forse aperto la strada all’arte di estrarre dai nostri mali la sostanza dei nostri godimenti? È un furbo che può crogiolarsi nella noia, che si accanisce sulle perplessità e se ne procura in tutti i modi. Il nostro nulla è la sua ebrezza. Poi l’ingenua posterità si commuoverà su di lui. La forza di installarsi nella concisione dell’Indicibile, di rimanere sconosciuti, è rara, e la più potente. L’unico che ha del garbo è lo sterile, colui che si tiene in ombra insieme al suo segreto, perché disdegna di ostentarlo. È più facile rinunciare al pane che al verbo. Fare dei libri e mostrarsene fieri costituisce uno degli spettacoli più pietosi. L’uomo di lettere, e dunque anche il poeta, diminuisce a ogni parola che scrive, solo la vanità è inesauribile. Amo i falliti. Quasi tutti custodivano in sé un libro, il libro dei loro rovesci; tentati dal dèmone della letteratura, gli resistevano tuttavia, a tal punto le loro sconfitte li soggiogavano, a tal punto riempivano le loro vite. Il vero inquieto lo si riconosce da come reagisce verso le parole, dal fatto che ne diffida. Si avvicina alla liberazione chiunque si levi contro di esse o se ne distolga con orrore, un orrore che non si impara, ma che si prepara nel più intimo di noi stessi. Non si toglie la propria fiducia alle parole, né si attenta alla loro sicurezza, senza avere un piede nell’abisso. La “vera vita” è fuori dalla parola, da quella immemoriale volgarità a cui abbiamo osato imputare i primi sussulti della materia. Ho commesso l’errore di frequentare molti poeti. Tranne qualche eccezione, erano inutilmente gravi, infatuati e odiosi, essi pure dei mostri, degli specialisti, allo stesso tempo torturatori e martiri dell’aggettivo, e in loro avevo sopravvalutato il dilettantismo, la chiaroveggenza, la sensibilità al gioco intellettuale. Eppure, se tutto è ciarlataneria nel mondo delle parole, la poesia è quella più degna, più reale. Ciò non toglie che il poeta prenda il linguaggio troppo sul serio. Va alla ricerca di un altro ordine, lancia una sfida al nulla dell’evidenza, all’ottica così com’è, si avventura nella demiurgia verbale, si installa nell’eresia del verso per colpire a bruciapelo ogni scetticismo, e salvarsi attraverso le parole. Non è mai un vero negatore. Voler rinvigorire le parole, infondere loro una nuova vita, presuppone un fanatismo, una obnubilazione fuori dal comune: inventare – poeticamente – significa essere un complice e un appassionato del Verbo; ogni demiurgia verbale si sviluppa a spese della lucidità, ogni comunicazione vive nell’insolenza, nella volontà di partorire un incanto che sappia agganciare le nostre perplessità, creando le condizioni ideali per farci abusare dal miraggio delle parole. Il nulla del poeta non si identifica con l’impasse, ma con lo spazio per infinite possibilità, l’apertura a ripetute e vertiginose profondità di senso. Non conosce il vero vicolo cieco, la sua tragedia sfocia nel crollo, lo presagisce, lo coltiva, avanza verso la fine, si impegna in vista della rovina. Rappresenta lo svolgimento di un provvidenziale risorsa, l’antitesi dell’incurabile, della staticità. Le sue tensioni mutano in percorso e, in preda alla voluttà dell’essenziale, è costretto a forgiarsi un’impostura verbale. Fantastico allora di un pensiero acido che si insinui nelle cose per disgregarle, perforarle, attraversarle, di un libro le cui sillabe, attaccando la carta, sopprimano letteratura e lettori, di un libro che, carnevale e apocalisse delle Lettere, sia un ultimatum alla pestilenza del Verbo. Eppure, lo ammetto… la poesia è l’assoluto delle nostre ore negative, non di tutte ma di quelle soltanto che derivano dal nostro disagio nell’universo verbale. Dato che il poeta è un mostro che tenta di salvarsi con il simbolo stesso del vuoto (la parola è forse qualcos’altro?), perché non seguirlo nella sua eccezionale illusione? Diventa la nostra risorsa ogniqualvolta disertiamo le finzioni del linguaggio corrente, per cercarne altre, insolite se non rigorose. Non sembra allora che ogni irrealtà si preferibile alla nostra e che vi sia più sostanza in un verso che in tutte queste parole banalizzate dalle nostre conversazioni o dalle nostre preghiere? Siamo noi che le domandiamo di liberarci dalla oppressione, dai tormenti del discorso. Se vi riesce, è la poesia a essere per un istante la nostra salvezza. Così si esprime un poeta della prosa, l’autore del Sommario di decomposizione, lui, che infine afferma di essersi stancato della poesia, di maledire l’Universo, Dio e gli uomini, eppure fino alla fine della vita conserverà un culto e una venerazione per Emily Dickinson, e scriverà ancora: “Non poteva sopportare nessuno, non era fatto per fare l’attore, per recitare con gli altri. Avrebbe dovuto essere un poeta, cioè essere solo, avere un destino singolare… Io non ho avuto il coraggio di abbracciare completamente la solitudine. L’ho sfuggita troppo spesso, o per debolezza, o per frivolezza, o per paura. Ho eluso più di un baratro, combinando calcolo e istinto di conservazione. In realtà mi manca il coraggio per essere un poeta. Sarà perché ho riflettuto troppo sulle mie grida? I miei sofismi mi hanno fatto perdere ciò che avevo di meglio”. Difficile immaginare una contraddizione migliore.

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Lo sai, che in questo universo anche i poeti hanno una posa, in questo davvero superiori a molti. Troppi poeti hanno scritto con la cattiva coscienza, e nulla o quasi rimane della potente contestazione di Rimbaud, dello “strano comportamento di un uomo dotato come nessun altro per le invenzioni e i trionfi del linguaggio che scompare con tutto il carico dei suoi beni nel mutismo… il suo silenzio è più vivo di tutto ciò che ha scritto, la gloria del proprio silenzio rivela la vanità della scrittura”, si scrive ne Il silenzio di Rimbaud, lui, che fu un conquistatore ma anche l’antipode della prostituzione e l’isteria di un’intimità troppo pronta ad aprirsi alla moltitudine universale. Da un lato, frasi scucite, un parlare per sé, “non consigliare niente a nessuno, scoraggiare i possibili seguaci, diffidare della predicazione, giudicarsi con una implacabile crudeltà, e finire per essere disgustati del proprio stesso gioco”. Dall’altro – senti le parole di un moldavo trapiantato a Parigi… Un tono e un’attitudine predisposta, voluta, e parlare per il lettore, declamare. L’enfasi. Il genere maudit. Una volontà tesa a sorprendere, scuotere, meravigliare. Il piacere di ascoltarsi parlare. Una sorta di ambizione satanica a imporre un arsenale letterario. Il paradosso voluto, la contraddizione laboriosa, gli effetti della sorpresa, le ripetizioni sapienti, gli epiteti colossali, la volontà di apparire straordinario. Il giudizio sferzante che stimola il lettore a seguirlo in ogni tipo di artificio, dall’intimidazione alla provocazione. La verità cercata ed esibita sulla pubblica piazza. Il piacere di predicare e di insegnare, che non supera il livello della scrittura. L’adesione a un catechismo. L’eccessivo interesse calcolato. L’inesauribile energia messa in atto, una forza incalcolabile che avvolge, martella, manipola, e non lascia il tempo di riprendere il fiato. L’abbondanza di incubi nelle visioni, le une più terribili delle altre. L’offerta al rilancio, che gode del vostro terrore e si eccita alla vista del vostro sangue, se cola, o delle vostre lacrime. Molti sono i colpi bassi, quelli che rivelano la pura esibizione, e la ricerca dell’applauso.

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E io penso solo al tumultuoso pudore di Emily Dickinson, a lei, sconosciuta in vita, che godrà di una fama postuma, in seguito al ritrovamento dei suoi scritti in un baule. Penso a Stirner, che produsse un’unica opera dal titolo sovrano, L’Unico, svanendo quasi subito dalla circolazione. A tutti i suoi manoscritti, andati perduti. Ai pochi articoli che scrisse, firmandoli con uno pseudonimo, o non li firmava affatto. Non rimangono sue lettere, né ritratti. Con fatica è stata ritrovata una firma su un documento. Dei suoi ultimi anni di vita si conoscono ancor meno dettagli: penuria, camere dal mobilio scarno, prigione per debiti. La potenza letale del caso, e di un ostinato isolamento. E penso a Robert Walser, che ha commesso il reato di scrivere, eppure ha sempre amato il silenzio, di cui non fece mai un uso tattico, lui, che desiderava sparire, non essere nessuno. Si vergognò sempre di aver scritto. Lui, volontariamente internato a Herisau, per ventitré anni. Abbattuto dalla sua struggente fine. E penso a Cioran, alla sua indifferenza, al rifiuto di progettare e di correggere gli errori che circolavano su di lui. A uno che giurò di non lavorare mai. Che decise di non aprire un solo libro o di scrivere una sola riga controcuore; lui, che fu del tutto disinteressato al professorato, al giornalismo, alle case editrici, che visse per decenni, a Parigi, alla mensa studentesca, con diritti d’autore inesistenti e prefazioni o sussidi d’occasione. Lui, che scrisse poco, e rifiutò tutti i premi letterari, tranne uno, il Rivarol, nel 1950, all’epoca in cui non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena.

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Ma penso anche al bellissimo Artaud. Agli arresti. A lui sfigurato dal suo pellegrinaggio nei manicomi, malato da tempo, abbattuto dalle infinite sedute di elettroshock a cui fu sottoposto, che scrive, dal 1917 in poi, “mi hanno fatto fare centinaia di iniezioni di ectina, di Galyl, di cianuro, di mercurio, di novarsenobenzolo e di quinby, un lungo avvelenamento con l’arsenico e il cianuro di potassio”. A lui che reclama costantemente oppio e codeina, nicotina ed eroina, la messe di sostanze da cui era dipendente da anni, ben prima del viaggio iniziatico in Messico, del 1936, in cui scoprì i magici poteri del Peyote. Lui, che morirà nel 1948, per overdose da cloralio, un potente barbiturico, all’epoca in cui pesava 55 chili e gli restavano solo otto denti in bocca. Penso alla sua devastazione più totale, a lui sprofondato tra “nevrastenia, sifilide, psicosi, bipolarismo e tossicomania”… così vollero definirlo, e lapidarlo, i medici. A quanto fossero penosi, alla fine di una vita, la sua sessuofobia, il feroce antisemitismo, la fissazione per Guénon; quel delirio religioso in cui infine si identifica in Gesù Cristo, Dio o San Patrizio; quella sterile ossessione per la purezza, che egli immaginava per ogni autentica arte e poesia; quel suo lamento contro un mondo impuro, che considerava un cumulo di porci, lui, che vedeva carestia ovunque e degnava della sua ammirazione solo gli stati sovrannaturali, il meraviglioso, Dio, la famiglia del cielo, giacché, se taluni arrivano a estremizzare il ruolo delle passioni e della carne, immaginando una scioccante equazione tra economia animale ed economia spirituale, una mistica sensuale, la sua inclinazione ascetica al contrario si fuse a un temibile puritanesimo, alla disposizione di un mistico castrato, al fetore di una ripugnante pretesa di purezza, quando tutto quel che è profondo e vero, al mondo, in realtà è sommamente impuro; la gnosi del libertino, e non l’ascetismo dell’eunuco, è il mio territorio.

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Penso perfino a quel radicale materialista e sensista di Leopardi, che si inginocchiava alla sua indubbia vena gnostica, per affermare che gli era impossibile tollerare la realtà, che aveva bisogno di allontanarsene, di evaderne, lui, da cui noi, vili, pretendiamo un fottuto risarcimento, e dunque ce lo rappresentiamo come il “grande e meraviglioso pensiero sulla consolazione e l’entusiasmo che danno le opere di genio anche quando rappresentino la nullità delle cose”. Il potente nano di Recanati ridotto a una eccitante fiction, una nota positiva, una degna e nobile via di uscita. Anche lui parlava di un “luogo alto”.

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A Rilke, che realizzò il suo ideale di artista-eremita andando ad abitare presso l’antico castello di Muzot, in Svizzera, in una torre medioevale, isolato da tutti gli avvenimenti del mondo. E, se esiste una cosa ripugnante, è proprio l’algido fetore di un poeta che si rinchiude con orgoglio nella nobile solitudine di una torre medioevale, come un apolide di lusso preoccupato della giusta scenografia in cui immergersi, dello scenario consono alla sua eterea immaginazione, con l’aiuto di una mecenate. E se anche Hölderlin ebbe una sorte analoga (ma il suo non fu un castello né una vera torre), in lui aleggiava già l’alibi del vento dell’ala della follia. E Baudelaire, se non altro, visse sempre sotto tutela, preso tra una lite e un sequestro, un sequestro e una lite. Io, che non amo, in Rilke, tanto il lato angelico del suo confine estremo, l’abuso del tono poetico, il suo lato lezioso, la costante ricerca di una parola soprasensibile, un piano soprannaturale, mistico, quanto le sue lettere troppo nobili, a cui preferisco di gran lunga quelle di Dostoevskij, gravide di problemi quotidiani, soprattutto, la mancanza di soldi. Lui, l’autore del grande Malte, che, se si abbassò a convivere con le cose terrene, lo fece con grande disperazione, contro la sua anima, diventando nemico a se stesso. Lui, che abitò un universo, quello delle parole, in cui basta la diversa sfumatura di un verbo, il passaggio da un perdente a un perduto, per elevare l’ultimo dei vinti asfaltato sul profano a dignità metafisica, e per donare un battito d’ali al brutale “ha le unghie sporche”, con un “aveva le unghie listate a lutto”.

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Amico, ci dicono che nascere è una sventura, che esistere è una tragedia, che il creato è immondo, fetido, e ammorba con il suo fetore animale, la sua naturale insondabilità, la morte, l’effimero. Che la carne e le passioni sono un male. Che non esiste soluzione qua giù. È allora che nasce la vile soluzione. Parlano della “falsa realtà dell’esperienza”. Predicano, con un rigoroso aut aut, che non la vista ma l’immaginazione è il vero ‘senso’ della creazione. Affermano che l’immaginazione vince la realtà, con il superamento del proprio dissidio interiore, nello sforzo di conciliarlo in una realtà superiore, abdicando alla felicita terrena. Con il sigillo di chi ha abiurato alla vita per l’arte o il pensiero. Di chi ha scelto l’eremitaggio artistico. Una fottuta “liberazione verso il cielo”. La fiducia mistica nei confronti della parola poetica, nell’intelletto, nello spirito. E io mi chiedo, perché non onorare la potenza dell’immaginazione senza disprezzare il creato, la vita, qua giù? Perché non dire che l’immaginazione può aggiungere dimensioni alla realtà, ma non la vince? E perché questa ossessione e illusione della vincita, l’ignavia di voler sfoggiare e vantare un “suprema forza” nel perdere? E che senso ha nascere, fisicamente, se poi l’unica via di uscita nobile di una vita, dell’unica fottuta vita che abbiamo a disposizione, è quella di una eterna corsa al distacco, quella favola che afferma “solo la passione per la vita intellettiva felicifica”, mortificando il vissuto di potenza impura e bellezza ambigua della fisiologia, il creato, la natura, il mondano? Soprattutto quando non si è Proust, Beckett, Kafka, Pessoa. Quando si è privi delle risorse interiori dei santi o dei mistici. Dei poeti. Di un’assoluta minoranza. Caro amico, il potente eremitaggio di Emily Dickinson, la vertiginosa fuga dall’immanente di Marina Cvetaeva, l’algido ascetismo di Cristina Campo, il suggerimento di “una vita di diamante puro votata al monastero dell’arte”, rappresentano degli esempi inimitabili, delle contraddizioni creative, che io conosco e ammiro ma rigetto nelle loro intenzioni ultime. E sono pochi eletti. Squilibrati d’eccezione che hanno l’estensione e il genio per alimentare tale contraddizione. Sono casi di rango, geniali, che riescono ad unire patologia e produzione creativa. Per tutti gli altri – la maggioranza degli esseri umani, i sedotti, i meri lettori, i semplici filosofi, scrittori, letterati, critici e poeti che non sono Poeti – ammirarli, imitarli e seguirli, equivarrebbe solo a un’implosione di linfa, uno sterile ripiegamento su di sé. Educazione alla rinuncia. La più ignobile repressione. Una mistica che è solo un ghetto del reale. Il miglior favore reso a ogni prigione di questa terra, e non certo una liberazione.

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E se, ricondotta all’ossario, Anima fosse solo il nome per il vissuto che al corpo accade di essere? Dire anima è già aver preso il volo, aver postulato l’insignificanza della nostra vita, qua giù. L’“anima”, caro amico, appartiene già alla luce. Appena il suo nome appare, questa si ritiene già prigioniera del corpo. Vuole purgarsi, purificarsi, rintracciare ogni particella di luce rintracciabile nella realtà mondana e raccoglierne quanta più possibile. Pretende una via luminosa di salvezza all’interno della cupa oscurità del mondo materiale. Si è già insinuato il fottuto pneuma, e la ridicola chimera di un’élite di esseri umani sovrannaturali, sovratemporali e sovramateriali, che si affermano stranieri e superiori al mondo, che si impegnano a superare, per stabilire “al di sopra e al di là di esso la loro sovrana indipendenza”. Non si preoccupano più del senso della loro presente esistenza se non per tentare di liberarsene. Plotino, che aveva una concezione “alta” del destino umano, li chiamava “uomini divini”. Mentre io affermo che, se esiste qualcosa di immemoriale, in noi, che supera il Tempo e la Storia, non è certo in alto che va cercato, contro la natura. E se non ci fosse nulla da cercare? Caro amico, l’Uomo, questo scioccante singolare generale che mortifica l’altra metà del creato, le donne, non è mai stato un fottuto angelo decaduto, né “un’anima che trascina un cadavere”. La trascendenza è bandita? La morte è un limite invalicabile? So solo che vivo nella lucidità del fallimento (non della necessità!), e la via estatica, se esiste, la intuisci solo per alcuni istanti; e un’ascesa temporanea, lo sappiamo tutti, non permette alcuna liberazione. Siamo caduti nel tempo. Siamo condannati. Il tentativo di elevarsi al di fuori del mondo fallisce. La pretesa di negare la vita rimane una semplice chimera, un sogno di folgorante demenza, un’apparizione straordinaria, ma non certo un successo. Sono serenamente disilluso nei confronti di qualsiasi salvezza: “La sola cosa da capire è che non c’è niente da capire, che si muore come si nasce, per caso. Ma questa verità appare impensabile, troppo cruda. All’assurdo nero preferiamo una favola qualsiasi”. Forse, caro amico, anche di me scriverai: “la tua lingua mi sembra poco sorprendente, infine preda a una finitezza che mi sfinisce, di uno stile che corrisponde all’anima, al vuoto, al miglio di chi scrive”.

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Amico, i poeti sanno fin troppo bene che le infime passioni materiali non sopravvivono. Che se le onoreremo, scompariremo con la fine della nostra vita terrena. Ci dicono… se vuoi vivere davvero, devi vivere in ciò che perdura dopo di te, onora solo la passione per la vita conoscitiva e spirituale, quella che garantisce una sorta di immortalità. È così che lanciano un grido, “la morte esiste, fa male e impaurisce, ma non avrà mai l’ultima parola”. Ecco il movente, questa fottuta Morte. E allora ci ricordano, con le loro illusorie parole, quel Baudelaire ancora preso nella fossa della stretta idealista, che fa l’impossibile per onorarla e che, di fronte a una carogna infame, canta questo verso elevato e nobile: “E allora ai vermi che ti mangeranno… o mia bellezza, di’ che in me sono salve la forma, l’essenza divina.”! Mi ricordano anche i versi di Yeats: “Quanto è generato, nasce e muore. / Colti in quella musica dei sensi, trascurano tutti / I monumenti dell’intelletto che non invecchia”. E già mi hanno perduto, quando evocano, contro il nulla dello scetticismo e il nichilismo, la fede nella mistica dell’arte, o nello zenith solare del divino. Non già la luce che acceca, ma quella che rischiara. L’eterna educazione a una metafisica della luce. Come già in Platone, Aristotele, Agostino, Hegel, l’Illuminismo, la dottrina della teofania della luce in teologia, e la luce fluente della divinità nella mistica. Il suono conciliante della quiete dopo la battaglia. Lo splendore imperituro, una saggezza diurna. Il chiarore che si apre in mezzo all’oscurità del bosco. L’uscita dalla sterpaglia impura della foresta, dalla zona di pericolo, per sottrarsi alla morte. Il diradamento del fitto bosco, abbattuti gli alberi, per creare una radura luminosa, l’aperto, il confine di un mondo. Quello esclusivo degli esseri umani.

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E sai che i poeti ci parlano anche di “disintegrazione della propria personalità per acquisire una super-persona”, evocando qualcosa di più potente e alto, di superiore. E già mi hanno perduto, poiché al contrario a me interessa solo il pre-personale, il sub-personale, il basso, l’inferiore, la poesia che rappresenta la più impietosa dilapidazione di ogni concetto di persona. La merda, insomma. E se affermano, con una nota profondamente spinoziana, “amate il vostro essere più di voi stessi”, proclamandosi già nemici del mondano, per sancirne il suo nulla, per scrivere con la pretesa di convertire il sangue in luce, e polverizzare il canto dalle cui ceneri sorga una parola nuova, una città-rifugio, una speranza, una promessa, già mi hanno perduto. La poesia non risarcisce. Non è possesso, né acquisto, acquisizione, illusione di una conquista, né compensazione o consolazione. Se vera, è solo la feroce dignità di una lotta, già perduta in partenza, senza risarcimento alcuno. Non un havre de grâce, un porto sicuro. Non la Grazia. Nulla risolve. Non una vittoria più profonda nel cadere, non una gloria più ampia nella sconfitta. Né vittoria né gloria nello scrivere fino a cancellarsi. Né la vana illusione di attingere l’indistruttibile attraverso lo scacco, con “una lingua pura come la luce capace di sezionare l’ombra”, con l’ausilio di metafore autoptiche, profilattiche, che annunciano, forse, una pretesa provvidenziale, quella di sezionare l’ambiguità delle ombre, il letale pudore delle cose feroci, la potenza delle cose mute e oscure, per edificare la luce del pensiero, dell’arte e della poesia. I fottuti rifugi. “Si, nella vita perfino la calma e l’ordine offrono un’apparenza non pacificata, inquieta, o qualcosa di balordo, di incompiuto. Mentre nell’arte anche l’inquietudine e la tensione hanno qualcosa di pacificato e confortante. Certo, ammettiamo che dietro alla scenografia troviamo la parete nuda, la tela inchiodata grossolanamente, il vaso di colla, le pulegge abbandonate – quello che Baudelaire definisce ‘le charlatanisme inévitable de l’art’ – ma rifiutiamo di immaginare l’agonia, l’insonnia, l’umiliazione, l’angoscia e la bruttezza assoluta. Perfino quando parliamo de ‘l’envers du décor’, è ancora al rovescio artistico che pensiamo, al contrario di un décor, e non alla vita arbitraria che lo regge: una cosa è la vita, una cosa è l’arte. L’arte non è forse una difesa contro la vita? Un rifugio, un’evasione? Non è forse superiore alla vita?… Esprimere il raccapricciante, l’orribile, senza disprezzarlo, è un atto che va oltre la nostra idea di sincerità”. Così si esprime, sferzante e ironico, uno che ha capito.

La via mistica della catarsi artistica non fa per me, amico.

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Quando penso alle nostre maestose risposte creative agli interrogativi sull’esistenza, non dimentico mai la loro originaria opacità, la paura, la solitudine, il non senso della vita, il sentimento di abbandono, qua giù, “il silenzio eterno di questo spazio infinito mi sgomenta”, qualcosa di pietoso e perduto, e la volontà di spacciarlo per qualcosa di grande e di nobile, nella vana illusione di avere l’ultima parola, con una rivolta metafisica contro la morte, uno scacco nella luce, che rifiuto. Io, che scorgo l’unica morte sincera in quella anonima degli animali, senza una tomba, una lapide, una bara, un nome, una foto, alla maniera delle creature selvagge che cercano solo una tana segreta per proteggere le ultime convulsioni della loro vitalità, e infine saranno solo cibo per altre creature, sterco per la terra. Non la consolazione di una sepoltura, non un buco dove riposare in pace.

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Io, che vagheggio un poeta che non scriva mai di sé, apertamente, “sono un poeta”, che abbia il pudore di non evocare tale parola, di non parlare o scrivere mai di luce, grazia e salvezza. Che non osi mai trattare la poesia come un oggetto di studio o commento, da specialista, fosse anche con il piglio e il talento del poeta. Che non storicizzi. E sia solo poesia. Che scriva versi o poesia in prosa, se ne ha davvero il potere, ma rammenti che più si è poeti meno si parla di poesia. Non è una cosa da dire, la poesia, ma da esprimere. Io, che sarò sempre complice di un poeta che confessa… la poesia è la mia fragile difesa contro il suicidio.

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Io, che non ho il pregiudizio della parola, e penso alla poesia, ma non ai versi, i giambi, le cesure, le litoti. Che ammiro il giro del mondo di un velista che viaggia in solitaria, in pieno mare aperto, che crea un immaginario, in noi, senza scrivere una parola e compie il gesto di un poeta, l’epica di un avventuriero in seno agli elementi, scandita dal giorno e la notte, in compagnia degli animali, nel deserto delle acque, al suono del loro ipnotico e muto fragore. Penso al prodigioso e feroce anonimato di Vivian Maier. Alle fragili ossa di Michel Petrucciani, che si rompevano mentre continuava a suonare muto e ostinato, già consapevole che non era destinato a durare. Alla terrificante bellezza della solitudine di Marylin Monroe. Loro, che con le loro vite e le loro opere furono poeti, mordono anche da morti.

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Penso a me, un misantropo che ama profondamente la vita, che non crede in niente, se non alla potente concisione delle emozioni, e meno che mai alla poesia come riforma, utile solo per chi si fa ancora illusioni sugli esseri umani, creature per cui non si può fare altro che nutrire una pietà senza illusioni, e non certo amore. A me, che disdegno la frase che inneggia a quella folla che ha troppi occhi per avere un sguardo e alla vanità del poeta, lo sconcertante augurio di Crocetti: “i poeti, in Grecia, da vivi, sono venerati come delle rockstar”. Fottute rockstar. Io, che non augurerei mai a un poeta, in vita, la sventura di essere messo in prima pagina, le luci della ribalta, il sorriso della fama.

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A te, che mi esorti con un “vediamoci, sentiamoci”, consiglio di perseverare, e di non farti scoraggiare dalla mia atavica ritrosia, di non fare troppo caso a quella mia riserva che, apparentemente, scoraggia la familiarità, e non curarsi troppo di quella mia timidezza che non è timidezza, ma eccesso di pudore.

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Siamo, come dici tu, “diversamente simili”, dei perduti che attirano per strada sorrisi e sguardi ignari che, anche avessero saputo, “nulla avrebbe impedito loro di correre comunque verso il loro incantesimo, verso la loro rovina”. E non temere. Alcuni rari poeti, irresistibili, scavalcano, come per incanto, quasi tutte le obiezioni che vengono mosse loro. Lo sappiamo tutti.

Luca Orlandini

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Caro amico,

sto troppo nel tremendo della vita e nella sua guaina in guaiti per interessarmi alla vita. Si legge una poesia come ci si tuffa nel gelo del fiume, come ci si lascia trafiggere dalla nervatura del cosmo, dal cielo chiodato di stelle, per il gusto di sentirsi ancora più piccoli, per assaggiare la mortalità; come si fissa, per giorni, la finestra della casa di fronte – le case… sembrano lanterne cinesi, dentro cui, come ombre, s’accalcano i corpi – e creare, oltre la buccia del giorno, altre vite per quelle vite. Tu solo puoi capire che questa non è la frustrazione miliare di una Bovary, ma un brivido di divinità – inventare le vite degli altri, destinando ad essi il mio tempo.

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Forse il nostro premio – di noi così saturi di vita – è lo spreco? Essere lo sciacallo dell’esistere, la biscia sul sibilo del tempo.

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La vita di chi scrive ogni giorno la vita senza vivere non mi pare peggiore di chi detta dal trono di una città appena conquistata o di chi istoria un romanzo sulla schiena della ninfetta appena concupita (più scaltra di lui, però, che già medita di illudere l’ennesimo illustre idiota di essere solo per te…). La vita è tutto perché è nulla. Allo stesso tempo, la letteratura è nulla – conta soltanto la vita – cioè è tutto – la vita è finché qualcuno non la mitraglia di nomi, di intenzioni.

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Ogni giorno ho bisogno di nuotare in mare – a patto che non ci siano umani intorno, per dare all’elemento la possibilità di uccidermi, e a me l’estasi del rischio (un crampo alla gamba, al largo, un arresto cardiaco), perché la vita è amabile se se ne scorge la prossimità della fine, quella amicizia. Allo stesso modo, ho bisogno di scrivere – perché le parole sono sanguigne e sanguisughe. Ma questa è una esigenza prima e privata – la condivisione è un elemento secondario (che pertiene a: economia, eredità, narcisismo), inappropriato. La scrittura, in effetti, non ha un destinatario – semmai, ha un destino.

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A posteriori ogni vita è censita in leggenda: ma cosa importa se Rilke si è relegato in una torre, se Emily ha rinchiuso le sue poesie in un baule, se Ungaretti ha scritto in trincea? Celebrazione e celebrità portano celermente all’atrofia cerebrale. Per quanto amabili, le scelte non giustificano un’opera – sono salvifiche soltanto per chi le compie, per gli altri sono una infruttuosa consolazione. Montale ha vissuto al cinque per cento, da bradipo, da scaltro, ma ha scritto indubbiamente una manciata di poesie superiori a quelle di troppi sacerdoti del verbo e di rari samurai della lirica, ossessionati dall’azione, dal rito dell’agire. Stare chiusi in casa per lustri cresce dei cretini non una legione di Emily Dickinson; scappare in Africa a poco più di vent’anni dopo aver scritto qualche poesia non ti rende un Rimbaud; confidare al proprio migliore amico che dovrà ardere i tuoi taccuini non ti fa Kafka, quei taccuini andrebbero davvero bruciati! Che scoperta: è alla luce di un’opera straordinaria che si scava con affanno in una mera esistenza cercando lo straordinario. Ma una vita non ha aggettivi – l’uomo mangia, caga, copula, e pensa come mangia – e un’opera non basta a risarcire l’umanità dalla dannazione di esistere come non provoca una tangibile gioia. Piuttosto, andate a nuotare, andate a giocare a calcetto, fate l’amore, è più sano!, dissi a un maniero di ragazzi che mi guardavano spiritati perché dicevo loro che leggere Dino Campana, Boris Pasternak e Joseph Conrad era necessario per vivere pienamente, con più presenza.

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Appunto: cosa importa della letteratura! Ha regno la vita. Cosa importa della vita dei poeti ridotta a gossip da frustrati quattrocchi! Amo confinarmi nella meraviglia, ecco: so che Yeats è un cretino che crede nelle sedute spiritiche, ma spesso preferisco rileggere Sailing to Byzantium all’ennesimo tuffo carpiato nella varia umanità. Le poesie hanno volti, a volte, più dettagliati dei robot in carne che vedo in giro. Non c’è atto di nostalgia o di schietto snobismo – io sono quello che fa schifo, sono un normodotato, non splendo per genio né emergo per difetto. È vita. Spesso è vita uscire dalla vita, o verificarne le periferie.

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Di per sé, se non evoca i morti e non incanta i vivi, la poesia è uno sgallettare grottesco.

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Non c’è alcuna assoluzione – a questo assoluto inchioda la poesia.

Davide Brullo

*In copertina: Charles Baudelaire (1821-1867) fotografato nel 1862 da Étienne Carjat

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