Come gli autentici sapienti, tra poco di Girolamo Melis si saprà nulla. Avrebbe potuto guidare un monastero arroccato all’Athos, ma credeva in eros più che in psyché, nell’incarnato più che nel mentale. Aveva il viso di un santo, la scaltrezza di un animale araldico, la spavalderia di un dandy. Era geniale. Era insopportabile.
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È morto, incredibilmente – lo pensavo immortale –, un anno fa. Della comunicazione conosceva ogni recesso, della parola ogni astuzia e ogni afrore, con una frase faceva esplodere le tue fragilità – o insinuarti in una svergognata gloria. Per Longanesi, l’istrionico Melis ha pubblicato una manciata di libri, Ti amo. Breviario sciagurato per la coppia o per chi ha intenzione di formarla, C’era una svolta… favole sciagurate a uso e consumo dei tempi moderni e Per il tuo bene: il mondo ti ama e te lo dice appassionatamente, ferocemente. Possedeva il genio dell’aforisma – cioè, il genio di chi sa adorare e ferire. Era una specie di Cioran a contrario, un Cioran del godere.
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Le cose più belle, però, Girolamo Melis le pubblicava per sé. Praticava la gioia sfrenata dello spreco, sapeva che la meraviglia è dono, che il dono è un patto tra me & te, occhi negli occhi. Aveva fondato case editrici per il gusto di affondarle (Scenario, Smylife), il suo libro più bello, Il corpo è tutto, l’ha pubblicato per la MelisMelis. Il libro nello stesso tempo è un manuale per ottimi comunicatori (“Senza il toccare non c’è il comunicare… la Comunicazione è la Vita stessa o è Nulla. E perciò non è neanche pensabile l’esistenza di ‘esperti di Comunicazione’ che non abbiano vissuto da sempre il tattile sapore dell’animalità”), un trattato di estetica (“Prestissimo, per me, le parole scritte furono cose, cibo, il corpo stesso della realtà”), una autobiografia per incontri ‘tattili’, emotivi, sentimentali.
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Girolamo, con genio spiazzante, di chi tra carezza e ceffone non cede al senso unico, di tutti, cerca l’uno, il solo, allinea 100 incontri che gli hanno cambiato la vita. Di ogni incontro Girolamo delinea la fattura del corpo, l’eccezione e l’etica. Così, ci sono la “mano grande, liscia e sudata” di Carlo Betocchi, la “guancia ruvida, come di un uomo” di Sofia Loren, la “mano schiva e ‘letteraria’ più che politica” di Palmiro Togliatti, il “corpo che non c’era ed era come disegnato e scolpito dai ‘concetti’” di Sandra Milo, la malia di Sibilla Aleramo (“Attraverso la sua pelle diafana di ultraottantenne mi trovai tra le braccia del Poeta Orfico Dino Campana, riuscii a immaginarmi a tu per tu con Maksim Gor’kij”), e poi Curzio Malaparte (“Mi sembrò che non desse la mano a nessuno… Mi toccò come si tocca un corpo d’appoggio, un ‘oggetto retorico’… Passò in me un’idea del dandismo che crebbe con me”), Salvatore Quasimodo (“Una mano ferma, asciutta, attenta. E lo sguardo come un fulmine”), Giorgio Morandi (“quando il grande Artista solitario apparve, la stanza sembrò anche improvvisamente bassissima”), Gianni Brera, “immenso pianista della Olivetti”, Adriano Celentano (“troppa distanza mi separava da quel ragazzo la cui feroce volgarità mi faceva rabbrividire”), Enzo Jannacci (“Dal 1963 al 1984 ho incontrato e rincontrato Enzo Jannacci parecchie volte. Ogni volta aveva l’aria d’essere una prima volta, e la somma di tutte quelle volte e delle tante giornate e nottate e delle tante cose fatte insieme non ha mai dato come risultato un’amicizia”), Elio Vittorini (“una aristotelica malinconia gonfia di sensi e di senso”), Eugenio Montale (“mi venne di carezzarlo, quel triste vecchio. Ma non riuscii a farlo”), Mia Martini (“Mi colpì il suo corpo vibrante, ma non di vita. Una stretta di braccia che non chiedeva niente”).
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Girolamo Melis amava l’uomo, la persona più che la personalità, e questo libro, straordinario, andrebbe ripubblicato all’istante. Del divo si scorge l’incavo, l’oblò della debolezza, di ogni cosa l’intimo e l’intoccabile.
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Così Girolamo Melis scrive di Pier Paolo Pasolini: “Mi agganciò con gli occhi mentre lo fissavo e sentivo e sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di salutarlo. Si era creato un ambiente comune tra due gruppetti di persone non casualmente assortite ma casualmente in sosta all’uscita di un cinema romano. A quel tempo, Pasolini era appena entrato nel tunnel della persecuzione politico-giudiziaria, era sì circondato dagli amici ma era braccato da se stesso. Mi disse ‘Buonasera’, non un generico ‘Ciao’. Andai verso di lui, gli detti la mano e lui me la strinse in una morsa di tenaglia. Avevo letto tutto di lui, compresa l’impressionante traduzione dell’Orestiade, ogni genere di scritti. Era diventato scandaloso troppo tempo prima di venire riconosciuto grande Poeta. Lo avrei incontrato un’altra volta, molti anni dopo, lo avrei visto prendere e occupare posto, come sempre, ‘dalla parte del torto’. Ma le poche parole di quella sera romana, umida e affranta, furono parole di carne, da lui dilapidate. Ma forse no”.
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Non è un caso, credo, se anche a questo giro, Girolamo, mi sono scordato della tua vera morte – una settimana fa, pare. Il tuo libro si apre con un monito di Martin Heidegger, “Rinunciare alle mète che possono essere raggiunte rapidamente, e alle speranze che non costano nulla”, ed è con questo, immeritatamente, che ti abbraccio, sperando nell’insperabile, rapinoso , nel rischio. Tuo, Davide.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini secondo Richard Avedon