In fondo, abbiamo pianto tutti. Elogio di Stefano Simoncelli, per me il più grande
Poesia
Fabrizio Testa
Il posto, quel nobile palazzo in via Senato, che si sviluppava su via Marina, Milano, metteva un po’ di soggezione e lui, appena mi vide, avevo poco oltre i vent’anni e la mia vita stava entrando nel vortice, mi disse “e tu chi sei, e tu che fa, sei muto?, mettiti a fare ricerca”. Non capivo cosa intendesse. Fare ricerca. Gli chiedo. “Cosa devo fare?”. Lui mi guarda, con ferocia toscana, era di San Quirico d’Orcia, ci sono stato da poco, mi avrebbe parlato di Nostalghia, il film di Tarkovskij, per spiegarmi quei luoghi. “Non devi fare, devi cercare: vai al computer, viaggia, cerca, trova qualcosa che mi stupisca”. Cercare lo stupore nel nulla, senza direzioni, senza ormeggi, senza supporti – costellare l’ignoto di luci. Era l’estate del 2002. Stava nascendo il Domenicale. Direttore: Angelo Crespi; editore: Marcello Dell’Utri. Il creativo, l’ago della bilancia e la spina nel fianco, era lui. Girolamo Melis.
*
Girolamo Melis veniva chiamato ‘Giro’, io lo prendevo in giro chiamandolo Diogene, come quello che dice ad Alessandro Magno che c’è più cosmo nella sua botte che nell’impero del re dei re, fugace come ogni cosa. Girolamo, come i veri sapienti, era lì per instillare dubbi e istigare alla provocazione. Aveva costruito l’urbanistica folle dei primi numeri del Domenicale – prima che il settimanale s’istituzionalizzasse ‘all’inglese’ – firmava una rubrica corrosiva, “Il Samurai”, e per il primo numero – il 22 ottobre del 2002, in allegato a Panorama – s’era inventato le due pagine centrali con i “400 libri” che non possono mancare all’educazione di chiunque. Fu un gioco micidiale, passammo giorni alla Biblioteca Sormani, esaltato dai disegni virtuosi di Henri Matchavariani, parigino, due baffi così, colossale bevitore, da decenni parte del fantasmagorico caravanserraglio di Girolamo. Il gioco diede fastidio. Giovanni Raboni, guru del pensiero unico e gran poeta, scrisse un editoriale avvelenato sul Corriere della Sera. A cui non facemmo mancare degna risposta.
*
Ho capito più tardi, quando Girolamo mi sfotteva – “ma come cavolo fa a essere così uno che viene da Orbassano, ma come sei vissuto?” – che cosa volesse dire ‘fare ricerca’. Girolamo, a Milano su impulso di Elio Vittorini, tra i grandi creativi della pubblicità e del linguaggio – ha lavorato con Enzo Jannacci e per Raul Gardini, per dire – amava lo sconcerto, tracciava vie d’argento nel vuoto. Quando, più tardi, mi chiese di fare ricerca sull’Africa centrale, mi diede da leggere una manciata di dispense della ‘Société d’études Linguistiques et Antropologiques de France’ di Parigi, dove erano registrati, in traduzione, reperiti dai cantastorie, i miti di laggiù. Li ho ancora quei libri. Insieme ad altri. Girolamo sapeva ipnotizzare. E io gli fregavo i libri. Già, ma perché studiare i miti africani tradotti dagli antropologi francesi? Per capire la strategia adatta ad esportare l’Ovetto Kinder in Africa, all’epoca Girolamo lavorava per Ferrero. Girolamo lavorava così. Andare sempre all’origine del linguaggio perché l’uomo è agito dai miti, mica dai soldi.
*
Un giorno viene in redazione, mi porta in libreria, mi compra un mucchio di libri. Molto Lacan. Il padre nella psicologia primitiva di Bronislaw Malinowski; Lo scambio simbolico e la morte di Jean Baudrillard; qualche Heidegger; un libro di Raffaele Pettazzoni; il Saggio sul dono di Marcel Mauss. Lui, come i veri sapienti, ha scritto molto per sé – poco per il mondo. Per Longanesi, molti anni fa, pubblica un “Breviario sciagurato per la coppia o per chi ha intenzione di formarla”, Ti amo, e C’era una svolta; per le edizioni San Paolo pubblica Io mi prendo cura di te, un libro fondamentale, dove è raccontata, in modo inaudito, l’esperienza dell’handicap, maturata costruendo un altro giornale, Vincere, dedicato alle disabilità. Anche in quel caso, Girolamo aveva totalmente ribaltato i canoni: gli ‘handicappati’ siamo noi, i ‘normali’, che abbiamo bisogno di un totalmente altro per sperimentare la nostra – altrimenti scarsa – disponibilità all’amare, al prenderci cura. I ‘diversi’ alleviano il nostro senso di colpa, curano la nostra malattia. Al posto di handicap, Girolamo diceva semplicemente Up, in piedi, a emergere dalla censura, dalla censura, dalla prigionia dei perbenismi.
*
Girolamo era basso, aveva una folta barba bianca, gli occhiali, il naso spiritato e una certa audacia nell’avvicinare donne colte e bellissime. Tra le moltissime cose, si era inventato una agenda che chiamava ‘Vivenda’, costellata di testi che gli erano cari: De Saussure, Spengler, l’Isaia secondo Ceronetti, Gunnar Olsson, Rainer Maria Rilke, Freud, Gadamer, Gaston Bachelard, Leopardi. La ‘Vivenda’ non era un gesto snobistico – andava in mano a cani & porci, anche a sottodotati intellettualmente – ma di vita: i libri sono la vita, la sapienza è per tutti, “cinquantadue pagine per arricchire le tue settimane… e forse la tua vita”, scriveva Girolamo.
*
Quando lo penso, penso che sia inafferrabile – mi ha detto così tante cose, mi ha donato così tanto, che sono certo di dimenticare l’essenziale.
*
Girolamo, che mi è stato maestro, è morto. Girolamo è morto il 13 novembre, dormendo. Lo ho scoperto solo ora. Non lo sentivo da anni perché la vita è una vertigine e io sono una iena. Guardo in internet. Ne dà nota la Gazzetta d’Alba. “Ieri… è morto Girolamo Melis, scrittore anticonformista originario della Toscana, che dal 2015 viveva ad Alba. Prima giornalista de La Nazione e poi pubblicitario, come autore di libri ha affrontato molti temi diversi. Aveva pubblicato anche con le Edizioni San Paolo”. Mi sembra una didascalia così banale e perfino vergognosa per un uomo che ha fatto così tanto. Ma cosa ne sanno, gli altri? C’è davvero una distanza abissale tra la fama e la vita, tra l’amore e l’onore. I sapienti fanno così, d’altronde, vivono prendendosi cura, sull’orda del presente, senza pensare ai posteri, ai postumi della vita.
*
Girolamo, quando lavoravo con lui, aveva lo studio in Piazzale Baiamonti al 3, a Milano: con lui ho pubblicato il primo libro, Il fiume, che è una porzione lirica poi convertita in Annali (Atelier, 2004). “La Parola di Davide Brullo spalanca questa minuscola Collana come spalancò le mie palpebre… La Parola scorre e devasta, fa l’amore sfiorando e penetrando, prosciuga e tracima, genera e si perde”. Fu il primo a chiamarmi ‘poeta’, anche quando mi portò a trovare Alberto Casiraghy a Osnago, il grande inventore di ‘Pulcinoelefante’, ipotizzando una plaquette lì per lì – o quando mi portò da Carnà, il grandissimo disegnatore (a casa ho i suoi ritratti micidiali di Pasolini e di Iosif Brodskij). Mi fece scoprire Dario Villa, il suo antico amico poeta, dandy all’eccesso, morto a 35 anni, “lo portavo con me nei Cda delle grandi aziende, diceva sempre qualcosa che scombinava i piani dei finanzieri…”, mi diceva, ridendo. Insieme, fondammo una casa editrice, Smylife – sottotitolo “Poesia nella tua vita” – dove, in libri dal formato minuscolo, pubblicammo Isabella Leardini e Simone Cattaneo e altri che non ricordo. La casa editrice si era dotata di un’altra collana, ‘Quaderni di Parole’, di formato ampio, dove avremmo pubblicato le odi di Pindaro tradotte da Friedrich Hölderlin: la cosa più bella fu editare l’intervista di Robert Sadoul a Louis-Ferdinand Céline, In principio era l’emozione, nella traduzione di Girolamo. Abbiamo anche messo in cornice i manoscritti dei grandi poeti contemporanei, perché Girolamo voleva venderli come fossero quadri, ma questa è un’altra storia.
*
Girolamo Melis, il mio Diogene, mi ha insegnato che ha senso fecondare soltanto l’impossibile, mi ha insegnato a dire uno sbracciato ‘sì’ alla vita, sempre, perché il verbo è carne, ed è questa mortalità a renderci grandi, inafferrabili, inattesi. Con la sua morte, qualcosa di spontaneo scompare per sempre, è come se improvvisamente, senza riparo, fossi diventato adulto. Fu il mio grande maestro – per questo non gli sono stato abbastanza grato, perché con sgarbo si tratta chi ti ha dato tutto. Mi ha insegnato a non arretrare, anzi, a gettarmi sempre dove sembra che ci sia un rischio. Credeva soltanto nella voce del poeta, nelle parole ignorate dai più, e, sì, ha vissuto poeticamente perché, pensava, non esistono ere impoetica, esiste la poesia, e ci basta.
Davide Brullo