“I versi sono sangue e uccidono”. Leggendo Boris Pasternak
Poesia
Giorgio Anelli
Che un dio abbia creato l’uomo a sua immagine o che l’uomo abbiamo immaginato un dio simile a sé, la cosa certa è che quando l’essere umano ha cominciato a raccontare il principio del mondo in cui si è trovato a vivere, ha assegnato come primordiale attributo a quel dio il fatto di essere creatore; ha intuito che il creare è il gesto iniziale che un uomo o un dio possono compiere, è l’atto in cui l’uno e l’altro sono lo stesso avvenimento, la stessa fecondità.
Ogni volta che scrivo – che è il modo in cui creo – scopro, o forse inauguro, qualcosa di me, di me o di tutti, come se conoscere, capire, agire non fosse il rapporto immediato che posso stabilire con il mio essere o con il mio niente; come se creare insegnasse anche questo: che creare è più originario che conoscere, più abissale del comprendere, più definitivo dell’agire.
Quel che cerco di dire è che nell’atto creativo, in esso e tramite esso, riviviamo l’evento più originale e rivelatore che ciascuno di noi ha vissuto: la nascita, l’istante privo di ombre e memorie, il momento creativo ricevendo il quale abbiamo cominciato ad essere.
Ogni gesto creativo ci getta in un là che non ha luogo: nel nulla da cui tutto viene, in cui tutto si ascolta e accade, in cui si anela al nome, lo si cerca finché viene all’essere.
Intuisco che nel rapporto faccia a faccia, o meglio, nudità contro nudità, con l’essere dell’esistenza, la creatività è il rapporto decisivo – tanto decisivo che non possiamo disporne, perché è gratuito, è un dono. Creare non è, infine, un modo per comprendere noi stessi, ma è la maniera più radicale che ci permette di tornare a creare.
*
L’urlo
I.
Esistono epoche in cui la realtà si apre, si fa strada, irrompe, drammaticamente o con sottigliezza, eppure emerge, apre spazi per mostrare ciò che non ha mai mostrato.
Che non ha ancora espresso.
Irrompe, originando ciò che ancora non è. Come da un vuoto.
Un niente.
La prima cosa che si incrina, che si frattura, è l’immagine di quella stessa epoca, la sua forma, le categorie con le quali fino a quell’istante veniva interpretata la condizione umana, il suo essere nel mondo, il mondo.
Lo scudo brunito e lo specchio su cui l’essere umano cerca di riconoscersi.
La riflessione – il riflesso – in cui cerca conferme.
L’immagine unilaterale con cui un’epoca, come ogni epoca, cerca di detenere la vita, di assicurarsela. Di contenerla.
Dunque, di dominarla.
Ci sono momenti in cui la realtà si apre, armoniosamente, come un frutto maturo – o violentemente.
Esplode.
A tratti si apre, a tratti si separa: la continuità della storia si spezza, una rottura si installa.
Ci sono epoche in cui tutto è rottura.
Epoche intere in cui si vive su una crepa, su un abisso temporaneo. Si vive senza un terreno fermo su cui appoggiare la necessità umana di sostegno.
L’illusione umana della fermezza, la necessità della sicurezza.
La menzogna di dimenticare la fine, che siamo finiti, la finitudine.
Sono epoche in cui pare che soltanto l’arte abbia la capacità di catturare, di accattivarsi l’intuizione, di immaginare ciò che accadrà.
Ciò che ancora non ha nome.
Sostare su quella linea sottile tra paura e speranza, ripetizione o creazione.
A volte: denudare.
Mostrare le fessure, e dilatarle. Plasmarle: dare un senso al vuoto, e creare da quel vuoto.
Sopportarlo.
Aprire uno spazio a ciò che di solito viene sempre dopo. Dopo che si è abbandonata ogni sicurezza.
La ripetizione.
*
II.
Al termine di un’epoca, si incrina lo stile, l’arte con cui quell’epoca ha cercato di dare forma simbolica all’incontenibile eccesso di realtà.
L’espressionismo fu la risposta, o la questione aperta, a un tempo di rotture e insicurezze. Di dissoluzione e di crisi.
Il tempo di Georg Trakl.
Le ferme forme del giorno perdevano la loro luce, l’ebbrezza delle notti le confondeva.
Non era tempo di albe ma di crepuscoli. Di tramonti.
Tempo di notti e di scavi d’ombra.
Se il suo antecedente, l’impressionismo – positivista e borghese, affamato di luce e di splendore – cercava di attenersi agli oggetti così come si presentano; l’espressionismo, il suo opposto, cercava l’intimità dell’oggetto, la sua essenza espressiva.
Ciò che deborda, l’eccedente.
Il resto, il rifiutato. Lo sperpero.
L’impressionismo era latino, e come tale rispondeva alla tempra che celebra l’incontro accogliente tra la natura e l’uomo, tra la naturalezza e le facoltà umane che la contengono, soprattutto intellettuali.
Nell’impressionismo era proibita l’esagerazione, l’immaginazione, cioè a dire il soggettivo.
L’impressionismo aveva una sua profondità, ma era carente di abisso. La sua bellezza era compiacente, inoffensiva.
L’espressionismo non poteva che essere germanico: diceva del conflitto drammatico tra gli istinti oscuri, in contrasto con il mondo, e li assorbivano, imbrunendosi in essi.
Diceva la vita e il suo disordine, esaltato e dolente, nato da uno shock, e dalla commozione che ne deriva.
Non più linea che delimita ma colore che irradia.
Non più alone che comprende ma esplosione che esprime.
L’eccesso del linguaggio, la sua fessura.
L’estraneità e la differenza di sé verso la comprensione di sé.
Incarnazione con annunciazione.
L’espressionismo fu un eccesso del linguaggio, e un eccesso del linguaggio è il silenzio o l’urlo.
Fu un urlo.
Nell’urlo non cerchiamo di significare ma di esprimere: far uscire.
L’urlo non è respiro: è carne.
L’urlo, a differenza del linguaggio, non è più lì, nei registri della memoria, disponibile ad essere urlato.
Ogni urlo è unico, è per la prima volta. Ogni volta, è la voce dell’origine – ogni volta ci origina.
Si nasce nell’urlo.
Lì si inaugura la carne.
Non è il tempio di Apollo, dio della luce sui poteri delle tenebre, ma il ritorno del represso, il ritorno di Dioniso.
Anassimandro e il suo ápeiron.
La linfa vitale che si rivolta e rompe la crosta.
Il serpente ritorna in paradiso, nel mondo addomesticato, rasserenato, nel mondo uguale a sé medesimo. Uscito dalle oscure viscere della terra, il serpente riprende il dialogo con la luce.
È il primordiale: gli istinti, non i principi. Il contenuto, non la forma.
*
III.
L’espressionismo fu una torsione.
La metafora per esplicitare questa svolta potrebbe essere quella del roveto ardente: prima il fuoco, poi, nell’incendio, la rivelazione, la voce.
Non si cercherà di conoscere attraverso la fredda e distante luce della ragione bensì tramite l’anarchia dei sentimenti.
Non cercavano di sapere, ma di sentire.
Di ardere.
La conoscenza e la ragione, strumenti borghesi, non potranno più captare ciò che accade; la nuova percezione, la nuova esperienza, avverrà tramite il dolore e il soffrire.
La nuova percezione non riguarderà il percepire ma il partecipare. Partecipare, essere parte, patire.
Diventare passibile di realtà.
La crudeltà della realtà. Partecipare è patire.
Il nuovo culto dell’esistenza, intensa ed estrema, dell’emozione, provata e vissuta.
La natura, forza che affascinava e terrorizzava i romantici, la dea e madre, appare ora come una congiura di forze minacciose che tormentano la soggettività.
Il paesaggio non è più fatto di valli e monti, è la città, con uomini e donne.
È la contraddizione.
“La notte è sublime, il giorno è bello”, sentenziava Kant. Ciò che l’espressionismo coglie non è più la bellezza come armonia, ma come sentimento del limite e dell’abissale, il piacere negativo del sublime.
La rottura degli ormeggi dell’espressionismo dal limite del bello. Da ciò che lo assicura.
Il soffio di vita che fino ad allora esalava la bellezza appare, ora, uno sbadiglio sulle fauci del tempo.
Non cerca più di catturare la fascinazione dell’essere, o gli dèi, i già domestici, congiunti ai limiti della bellezza, ma il tremendo, la sua furia, il tremore.
Respiro di vita che scorre, respiro scatenato, uragano che stritola e srotola.
Il mostruoso, l’incontrollabile.
Il suo abisso.
Non si tratta di adeguarsi, ma di rompere.
Non si tratta di una distanza contemplativa, ma di farsi sommergere, di implicarsi, di impaniarsi.
A volte, come in Trakl, si affonda.
Si annega.
A volte, ci si tuffa.
Hugo Mujica
*I testi di Hugo Mujica, poeta argentino tra i più importanti del tempo presente, per la prima volta tradotti in italiano, sono tratti da “La pasión según Georg Trakl. Poesía y expiación” e da “El saber del no saberse. Desierto, Cábala, el no-ser y la creación”.