In un saggio intitolato Lutto e melanconia, Freud si sofferma sull’“opera del lutto”, il processo psichico grazie al quale la cosa cara, perduta, viene finalmente messa a riposo, sepolta nell’inconscio, liberando l’ego dalla sua presa. Finché l’opera del lutto non è compiuta, sostiene Freud, è difficile, se non impossibile, intraprendere una nuova vita, un nuovo amore, un nuovo impegno nel mondo. Questa è la spiegazione di ciò che gli antichi chiamavano melanconia: una sorta di impotenza volontaria, in cui i morti giacciono insepolti sulla superficie della nostra coscienza, replicando a ogni richiesta di libertà con sguardi vuoti e privi di gioia.
In genere, la psicologia freudiana non mi persuade. In questo caso, però, Freud percorre una via corretta. Perdiamo molte cose nella nostra vita; alcune perdite sono radicali. Ci sottraggono una parte di noi. Dopo tali perdite, ci scopriamo in un mondo nuovo e sconosciuto, in cui ciò a cui eravamo abituati, quel sostegno caro, necessario, manca. La perdita di un genitore subita nei primi anni di vita è un’esperienza che può segnare per sempre. La perdita di un coniuge o di un figlio è traumatica, porta in dote un vuoto.
Eppure, per quanto grave sia il colpo, il lutto è una terapia che permette la sopravvivenza. Nel lutto seppelliamo i morti. Nel lutto, risuscitiamo i morti, non più come esseri viventi ma come immagini purificate, lavate da ogni colpa, trasfigurate dal perdono reciproco. Il primo effetto del dolore, infatti, è un rimprovero: al morto che è morto, a noi che siamo sopravvissuti. A poco a poco, il lutto assume la forma del dialogo, in cui chi soffre cerca e offre perdono: dimentichiamo gli errori, restiamo insieme, in pace.
Questo dialogo non è facile: si tratta di un faccia a faccia di tipo nuovo, magari dopo anni di ritrosie. Il dialogo, dicono gli psicoterapeuti, è spesso anticipato da un periodo di rabbia, di amaro rimprovero. La rabbia può diventare ossessiva, svelando, nella morte dell’altro, un piano segreto, un complotto: ti è stato sottratto proprio ciò di cui avevi bisogno. A volte il morto può riposare soltanto se lo uccidi una seconda volta, come nella poesia di Sylvia Plath, Daddy:
Papà, ho dovuto ucciderti.
Sei morto prima che ne avessi il tempo –
pesante come il marmo, sacca piena di Dio…
Il lutto è un rituale e, in certe circostanze, un dovere. Il lutto è qualcosa che dobbiamo ai morti, perché il processo del perdono reciproco deve essere eseguito affinché i morti non continuino a perseguitarci. Quando Ulisse visita l’Ade, incontra Elpenore, caduto dal tetto del palazzo di Circe, che gli chiede di essere pianto, che per lui siano espletati i riti funebri, che non sia abbandonato insepolto. Invocando la famiglia di Ulisse, Elpenore trasmette il senso del dovere, obbligo inestricabile nel tessuto d’onore dell’eroe. Elpenore ricorda la possibilità dell’ira divina: finché il dovere di pietà non sarà risolto, il cosmo è lacerato da un difetto metafisico.
Lo stesso concetto pervade l’Antigone di Sofocle, che si regge sul conflitto tra i doveri della pietà e quelli del governo, del potere. Antigone obbedisce alla necessità di seppellire il fratello morto, Polinice, che lo zio, Creonte, ha condannato a restare insepolto, fuori dalle mura della città. L’obbligo di piangere e seppellire il fratello è assoluto per Antigone, nonostante adempierlo significhi per lei procedere verso altra morte. Il punto decisivo nella tragedia di Sofocle è che Antigone deve qualcosa al fratello morto: se non risolverà quel compito, dovrà capitolare, passare dall’estasi delle anime libere, eroiche, alla fossa degli esseri spregevoli, privi di obblighi, che si lasciano semplicemente vivere.
Obblighi di questo tipo sono sempre meno riconosciuti nelle società moderne. È molto più probabile che siamo interessati a ciò che un morto ci deve, alla sua eredità, più che al lutto che gli dobbiamo. Naturalmente, ci adoperiamo ancora per i funerali dei nostri morti – ma ci attendiamo, tuttavia, che ci abbiano pensato anche loro, in vita, lasciando per quell’evento un certo budget. Certo, ci addoloriamo per loro, ma è sempre più raro erigere monumenti in memoria dei morti; ormai, è raro perfino deporre i morti in una tomba, per far loro visita. L’abitudine della cremazione, il gesto di spargere le ceneri dei morti, riflettono la concezione post religiosa sulla morte e sui morti, considerati mero nulla. Afferriamo quel nulla per lasciarlo svanire tra le nostre mani vuote. Ogni dovere, pensiamo, termina con la fine della vita. I rituali funebri sono dunque inclini a una sorta di “disneyficazione”: poiché l’obbligo è irreale, il suo adempimento è una specie di finzione ritualizzata, opportunità per emozioni kitsch. Anche questo è un gesto terapeutico: getta sulla vita perduta una luce corrusca, la rimodella, come fosse un falso. Questa vita, questo amore, non sono stati più reali degli artefatti sentimenti mostrati nel momento ultimo: andiamo in scena, dunque, andiamo avanti.
In questo modo, tuttavia, dimentichiamo qualcosa. Chi ci è stato accanto durante la vita, non si disperde come cenere. I morti rimuginano dentro di noi, in attesa del resto che dobbiamo offrire loro. Questo è il motivo per cui, anche nell’era della cremazione, il lutto resta un rito, un carattere oggettivo e pubblico, un imperativo che ricade sulla comunità ed eleva il defunto in un luogo sicuro, da cui non fuggirà. Per quanto “disneyficato”, il rito resiste come un’urgenza morale: senza di esso saremmo perseguitati e fuggiaschi, come Ulisse è braccato dall’ostinato spettro di Elpenore.
Ma il rituale non basta. Abbiamo bisogno anche di piangere, e questa è la parte più difficile del rito perché riguarda la cura della tomba interiore, rivedere il perduto, riconoscere un attaccamento radicale e cose sradicate, che non possiamo mutare. Il pianto è un patto con la perdita, incorporandola nel nostro futuro, di modo da saldare una continuità tra ciò che siamo e ciò che siamo stati. Non piangere è scegliere di vivere a un livello inferiore, distaccati da ciò che per noi è importante, negando il passato, l’identità sorta da esso.
La religione consente di sopportare le perdite non tanto perché instilla la speranza di invertire l’ordine della morte, ma perché accoglie le perdite, le racchiude, le sigilla in un rituale protettivo: l’ostrica fa nascere una perla da un granello di sabbia. Che la religione offra o meno una dottrina consolatoria dell’aldilà – e quella dei greci era tutt’altro che consolante – essa permette un modo diretto per affrontare la perdita, inaugura un rito di passaggio a cui partecipa l’intera comunità.
La perdita è la condizione fondamentale della natura umana; le civiltà differiscono nel modo in cui la accolgono. Le Upanishad esortano a liberarci da ogni attaccamento, a elevarci in quello stato di beatitudine in cui non possiamo più perdere nulla perché nulla più possediamo. Da quell’esortazione nascono un’arte e una filosofia che immiseriscono la sofferenza e disprezzano le perdite che ci opprimono in questo mondo. Al contrario, la civiltà occidentale ha fatto della perdita il tema principale della sua arte. Scene di lutto e di dolore abbondano nella scultura medioevale; la lirica ha per tema principale la perdita dell’amore, la scomparsa dell’amato. Non è il cristianesimo a darci questa prospettiva: l’Eneide, all’apparenza un poema della speranza, è costellato di sconfitte. Il terribile sacco di Troia, la perdita della moglie, l’orribile sorte di Didone, la morte di Anchise, la visita agli Inferi, il rovinoso conflitto contro Turno: tutto esplora i parametri della perdita e mostra che le nostre più alte speranze si accordano con la tragedia. L’Eneide è un testo religioso tanto quanto le Upanishad: il mondo di Enea è un mondo retto dal rito, fitto di luoghi sacri.
Questo atteggiamento verso la perdita riflette lo spirito interrogativo e inquieto della civiltà occidentale. La risposta occidentale alla perdita non è rimuoverla, ma sopportarla, piangerla, superarla come una forma di dolore consacrato. La religione è alla radice di questo atteggiamento. La religione ci permette di sopportare la perdita non perché promette un guadagno compensativo, ma perché la scorge in una prospettiva trascendente. La perdita concepita come sacrificio la consacra a qualcosa di più alto da sé. Soltanto in questo senso è possibile far fronte, per dire, alla perdita di un figlio: riconoscere nella perdita un esempio supremo della transizione verso un altro regno. Tuo figlio è morto in quanto offerta sacrificale, ora è un angelo che accenna alla più alta sfera, santifica la vita che ancora conduci nel mondo della materia. Questo pensiero è ovviamente rozzo. Per fortuna esistono tre grandi opere d’arte che lo trasmettono con compiutezza: Pearl, il poema medioevale di Sir Gawain; i Kindertotenlieder di Gustan Mahler; Curlew River di Benjamin Britten.
Nella nostra civiltà, la religione è la forza che ha permesso di sopportare le nostre perdite, e quindi di affrontarle come realmente nostre. La perdita della religione rende difficile sopportare la vera perdita: da qui, la fuga dalla morte, gli ornamenti, la “disneyficazione” della morte. L’uomo moderno usa droghe, eccitanti, sesso virtuale per prevenire l’amore e la morte. Rinunciare all’amore, come professano le Upanishad, è possibile soltanto se si sa amare; liberarsi del mondo richiede un immenso lavoro spirituale. In una società privata del religioso, emerge una cupa durezza del cuore, il sogno crudele che non esista dolore né lutto, che non ci sia nulla da piangere. Non esiste amore, ma divertimento. La perdita della religione, potremmo dire, è la perdita della perdita.
Tuttavia, la civiltà occidentale ha un’altra risposta per accettare la perdita. Questa risposta è l’arte. La perdita è un aspetto così centrale della nostra esperienza che le più grandi opere d’arte sono, di fatto, meditazioni sulla perdita – ogni perdita, compresa quella del Paradiso, compresa quella di Dio. Le opere d’arte trasmettono in immagini ciò che chi è fortunato ha acquisito tramite le forme elementari della vita religiosa: il concetto del sacro. Lo scienziato può aver scrutato fino in fondo la verità della nostra condizione, ma questa resta soltanto una parte della verità: la verità della vita morale, della forma umana divina, il bisogno di permanere nel sacramento, sono cose che si recuperano in altro modo. Per questo, poeti come Rainer Maria Rilke o Thomas S. Eliot sono tanto importanti per noi. Ci offrono una serie di esercizi spirituali tramite i quali i vecchi concetti del trascendente e del sacro si salvano, scossi dal loro inspessimento, resi flessibili e vitali, autentici tendini della vita interiore. Così, pur in un’era priva di fede, possiamo riscoprire le cose sacre, e percepire
Una condizione di semplicità compiuta
(che costa non meno di ogni cosa)
e tutto sarà nel bene e
ogni genere di cosa sarà nel bene
quando le lingue di fuoco si piegano
nel nodo di fuoco coronato
e fuoco e rosa sono uno.
Il riferimento cristiano nel finale dei Quattro quartetti di Eliot è soltanto un’eco – richiamo a esperienze che non chiedono un credo, ma soltanto immaginazione, estro che conferisce un dono morale. Esprimono la condizione di un’anima che ha cessato di piangere non perché fuggita dall’opera del lutto, ma perché l’ha realizzata, emersa in una condizione di nuova libertà, di nuovo libera di amare.
Roger Scruton
*Il testo di Roger Scruton, “The Work of Mourning”, riprodotto in parte, è pubblicato in anteprima su “Firts Things”: sarà raccolto in “The Meaning of Mourning”, libro collettivo, curato da Mikołaj Sławkowski-Rode, in uscita nel dicembre del 2022 per Lexington Books