Conoscevo una ragazza giapponese che era bella e malinconica. Rideva raramente e anche quando sembrava allegra non potevo fare a meno di pensare che nascondesse una grande sofferenza. Non ho mai compreso le ragioni di tanta tristezza e da molto tempo ho smarrito le sue tracce. Non le ho perse soltanto io, a dire il vero, e ho provato spesso a chiedere sue notizie, ma, contraddizioni del nostro secolo, nessuno ha mai saputo dirmi niente. Svanita nel nulla; scomparsa senza lasciare traccia, se non nel fioco ricordo di tempi lontani. Si è trasferita in un’altra città? È forse tornata in Giappone? È ancora viva? Domande inevase.
Mi è accaduto di sognarla, credo, ma al risveglio ho dubitato del mio stesso sogno. Per quanto abbia tentato di ricordare, la scintilla di un sogno inseguito al mattino si allontana veloce come una stella cadente in una notte estiva. E a questi incorporei incontri sopravviveva il sapore di un amaro risveglio. Ogni tanto, solitamente in novembre quando la nostalgia è forte, tento di ristabilire un contatto; domando di lei a conoscenze comuni, la penso. Ogni volta è sempre la stessa delusione e nessuno sa dirmi niente. Mi accorgo infatti, con un certo malessere, che gli altri l’hanno dimenticata. Mi guardano incuriositi quando chiedo di lei, negano di averla incontrata, giurano di non averla mai vista, di non averne mai sentito parlare. Queste reazioni mi lasciano inquieto, lo ammetto: ciò che per qualcuno è importante per altri non significa niente, si sa, ma non ci si abitua mai completamente a questo crudele arbitrio. In fondo, però, non è solo questo, e l’indifferenza di quelle che credevo conoscenze in comune suscita in me strani presentimenti, pensieri che non vorrei assecondare. Sull’impressione di quell’eterea ragazza, distante ora che non c’è e distante anche quando eravamo vicini, è andata formandosi la mia idea del Giappone. Mi rendo conto che ciò può sembrare stupidamente personale, ma questo è successo, così ho visto quel lontano paese: triste e malinconico, prima di tutto.
Mi è parso poi del tutto naturale rivivere sensazioni simili nell’incontro con un secondo Giappone, quello dei libri. Fu così che dalla lettura dei romanzi di Yukio Mishima continuai a guardare a quel mondo come si guarda a una pallida luna velata di nuvole. Tra il Giappone della vita e quello della carta sentiamo l’armonia della congiuntura tra arte e vita come raramente altrove si dà. Anche se non sempre ho ricevuto da altri la conferma di queste sensazioni, i più sono d’accordo nel riconoscere il grande fascino della cultura giapponese, il cui segreto giace avvolto in una fitta nebbia di incomprensione e mistero. Il segno di una tradizione che, nella sua fosca mescolanza di malinconia, rassegnazione, magia, morte ed erotismo, pervade ogni espressione culturale del paese, originando fenomeni altrimenti impossibili.
Del paralogico erotismo di questa cultura ci giungono vive testimonianze nei libri. Senza insistere sui casi più estremi, come il disumano Tokyo Decadence di Ryu Murakami, possiamo accennare alle bizzarre pagine di Vita di un libertino di Ihara Saikaku o al subdolo e perversamente psicoanalitico L’amore di uno sciocco diJunichiro Tanizaki (un tour de force tra il lecito e l’illecito, la ragione e la follia, la passione e la devianza, capace di accompagnarci sull’orlo di un baratro in cui preferiamo non guardare). Di un caratteristico languore proprio di molta letteratura giapponese ritroviamo il sigillo nell’ovattata desolazione de Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata o nel perfetto Fucile da caccia di Inoue Yasushi. Anche il fenomeno spesso confortevole di Haruki Murakami, addomesticato dal grande successo commerciale e da una dimensione pop a cui egli appartiene, può svelare la siderale distanza di un mondo a noi alieno. La seducente malinconia di Norwegian Wood o di A sud del confine, a ovest del sole può avvelenare. Si tratta di letture pericolose, traumatizzanti per certi versi: perdersi è facile in queste terre di confine, luoghi dove la realtà e il sogno si sovrappongono, dove il mondo dei vivi e quello dei morti si appartengono; dove la morte è un funereo codice scritto tra le pagine dell’amore. Non luce e tenebra, non bianco e nero, ma un grigio e lungo crepuscolo. Certo, non escludo che il Giappone possa per qualcuno essere anche altro, ma temo che per me sia ormai tardi: così lo vedo e, in fondo, così lo voglio.
Viene spontaneo rivolgerci a queste atmosfere, così efficacemente restituite nella letteratura, come al riflesso di un modo di vivere che trova conferma in alcuni fatti tristemente noti alle cronache. Nessun’altra cultura ripone tanta cieca fiducia nel suicidio e il caso dell’anacronistico seppuku, privilegio di elusivi samurai, testimonia un ancestrale legame con la morte che lascia sconcertati. Per tacere dell’ambiguità dei molti suicidi nella foresta di Aokigahara: chi sceglie di darsi la morte in un luogo dove moltitudini di anime silenziose vi hanno già preso congedo lo fa per non essere solo. Ma è un’illusione, e chi nasce isolato muore isolato. Anche il gettarsi nel cratere vulcanico attivo del Monte Mihara ha un che di assurdamente filosofico; è il folle tentativo di tornare alla terra, di rientrare nelle viscere del mondo, e in questa propensione all’inorganico scorgiamo una vocazione a negare il cielo.
L’umbratile cultura giapponese serba il segreto di una sottile infelicità che, nelle sue minime sfumature, è per noi ineffabile. Nell’arte figurativa ci pare di sentire lo stesso suono, il rumore sommesso di un pianto; e le celebri stampe di Katsushika Hokusai lasciano sbalorditi per l’efficacia di un linguaggio che nella sua assurdità non è stato mai eguagliato. È doloroso non poter liberare dal suo vincolo l’ofitico spettro della povera Okiku: gettata in un pozzo per aver rotto un piatto, ogni notte emerge per contare da capo il servizio, nella speranza di trovarne tutti e dieci i pezzi. Uno, due, tre, quattro… nove; ancora una volta ne manca uno, ancora una volta la piccola domestica, morsa dal senso di colpa e priva di rancore, tornerà disciplinata nelle fredde profondità del suo antro, costretta a prendersi cura di quelle porcellane in eterno.
Perfino l’estetica dei manga animati ha qualcosa che mi è sempre risultato più o meno disturbante. Non sono un intenditore, ma trovo angoscianti certe immagini di Naruto o di One Piece, e non credo che siano espressioni che possano dirsi allegre e spensierate (che poi qualcuno ci si possa abituare e non ne colga il lato oscuro è anche possibile). E i meravigliosi cartoni animati di Hayao Miyazaki? Autentici capolavori, d’accordo, ma questo non esclude che siano di un’angoscia talvolta insostenibile. Ci sono sequenze di La città incantata che, non so quanto per motivi interni alla mia sensibilità o propri del film, mi hanno letteralmente atterrito.
Considerando le specificità di questa cultura, fa una certa impressione apprendere di come Lafcadio Hearn, un greco-irlandese vissuto negli Stati Uniti, sia stato capace di penetrarne i misteri con tanta destrezza. La recente pubblicazione di La festa dei morti (Mimesis, 2022), un’antologia di storie fantastiche della tradizione giapponese raccolte da Hearn, offre l’occasione di un’irresistibile escursione nel regno della magia. Racconti di fantasmi rancorosi, di Kimono stregati, di spiriti di donne offese e di maledizioni ineludibili; storie descritte con lucida e meccanica partecipazione, con l’atteggiamento, squisitamente giapponese per un processo mimetico formidabile, di chi ritiene che uno spettro sia un evento assolutamente naturale.
Emblematico il capitolo intitolato Un karma passionale:Hearn, attratto da una «nuova varietà della voluttà dell’angoscia», offre una porzione di un popolare racconto giapponese messo in scena nel dramma Botan-Doro (La lanterna delle peonie). Un giovane samurai, Shinzaburo, si innamora della bella Tsuyo, il cui nome significa “rugiada del mattino”. Il loro è il tipico amore da storia giapponese: viscerale, ma incapace di dare frutti: prima impotente e poi fatale. Ai due innamorati è impedito di rincontrarsi e alla fragile Tsuyo non resta che il destino della grave promessa sussurrata all’amato «Se non tornerai a farmi visita, certamente morirò». Tempo dopo, durante la prima sera del Bon, la grande festa dei morti del tredicesimo giorno del settimo mese, l’anima di Tsuyo appare al ragazzo. I due si rivedono ogni notte, risarcendosi del tempo che gli era stato sottratto. Lei è reale, o almeno lo sembra, e bellissima, ma tutto ha un prezzo, e il superamento del confine tra la vita e la morte richiede un tributo prezioso. Il samurai verrà trovato morto, orrendamente abbracciato al cadavere putrefatto della ragazza. Amore e morte nella più macabra delle unioni.
Sono diverse le storie riunite in La festa dei morti che condividono simili tinte, e incuriosisce la disposizione d’animo dei personaggi davanti a questi oscuri giochi negromantici. Un fantasma può dar fastidio, è vero, ma nelle storie di Hearn nessuno ne metterà in dubbio l’autenticità o la legittimità. Perché il Giappone in fin dei conti è così, e appartiene ai vivi tanto quanto appartiene all’anima inquieta di una donna abbandonata.