Più di tutti, Borges preferiva L’ultima visita del Gentiluomo Malato. Non fatichiamo a capirlo: incipit folgorante – “Nessuno seppe mai il vero nome di colui che tutti chiamavano il Gentiluomo Malato. Non è rimasto di lui, dopo l’improvvisa scomparsa, che il ricordo dei suoi indimenticabili sorrisi ed un ritratto di Sebastiano del Piombo, che lo raffigura nascosto nell’ombra morbida di una pelliccia, con una mano inguantata che ricade giù floscia come quella di un dormiente” –, scrittura laconica, spiazzante, da potatore di rose, e tara onirica, tabù del sogno, inquietudine incantatoria –“Io sono invece perseguitato da un’altra idea: chi è colui che mi sogna? chi è quest’uno, quest’essere ignoto ch’io non conosco e di cui sono la proprietà, che m’ha fatto sorgere ad un tratto dal buio del suo cervello stanco e che al suo risveglio mi spegnerà ad un tratto, come una fiamma a un improvviso soffio?” – appartengono al carisma di Borges, alla sua aura.
In ogni caso, Borges portò sempre con sé L’ultima visita del Gentiluomo Malato; teneva in tasca quel racconto come fosse un amuleto, diceva di averlo imparato a memoria: lo include nell’Antologia della letteratura fantastica (1940) curata insieme a Silvina Ocampo, lo antologizza nel tomo-totem, Libro dei sogni (1979), lo installa nella raccolta di testi curata per Franco Maria Ricci nel 1975. Della ipnotica “Biblioteca di Babele”, Lo specchio che fugge – così il titolo; memorabile, come sempre, la copertina, con uomo bendato sul profilo di una mappa quasi italica – è il secondo tomo (a dire dell’importanza, cardinale): sta tra una staffilata di grandi, nella costellazione degli alti capricci borgesiani, che comprende Jack London e Léon Bloy, Gustav Meyrink e Franz Kafka, William Beckford e Henry James. La quarta aveva enfasi icastica:
“Il Papini fantastico che Borges ci ripropone è certo una sorpresa per il pubblico italiano, abituato a considerare l’autore della Vita di Cristo come uno scrittore da non leggere. I racconti di questo libro provengono da un’epoca in cui l’uomo si reclinava sulla sua melanconia e sui suoi crepuscoli, ma melanconia e i crepuscoli non sono scomparsi, anche se ora li vestiamo con costumi diversi”.
Perfino allora leggere Papini era “una sorpresa”, entrare in un sacrario secretato, sotto scacco del tempo, nell’oscuro alveare fascista, reo di censura; secondo Borges, Giovanni Papini, guru della letteratura dei tempi andati – ‘nominato’ per tre volte al Nobel per la letteratura –, era stato “ingiustamente dimenticato”. Già.
Nella raccolta dei Racconti di Papini allestita per le Edizioni Clichy, Raoul Bruni narra di una “lacuna editoriale… abbastanza sorprendente”, ricostruisce le ascendenze – il Leopardi delle Operette morali, ad esempio, Nietzsche… – e il panorama dello stuolo dei ‘nipoti’, dei seguaci di Papini, “modello, nell’abito del fantastico italiano”. Si va da Giorgio de Chirico a Pirandello e Buzzati, fino ad alcuni atmosfere rinvenibili nelle poesie di Montale (Bruni cita Forse un mattino andando…): Papini si dimostra, così, capostipite di un ‘canone’, diversamente osteggiato.
Il libro raccoglie i racconti di Papini scritti tra il 1906 e il 1954: alcuni testi sono notissimi – quelli della raccolta-manifesto Il tragico quotidiano – altri sono semplicemente bellissimi. Tra tutti, vado a spigolare dentro La sesta parte del mondo (in origine: Concerto fantastico, Vallecchi, 1954), una vera tesoreria. Papini traccia i confini di un impero dell’immaginario, dove spiccano Armuria, “la più amena e vaga isola dell’Oceano Catartico” – gli abitanti credono “che tutto l’universo nel quale viviamo non è altro che la visione, la fantasia e quasi il sogno di un Demiurgo” –, “il regno dei Karseni… abitato, come ognun sa, dagli ultimi superstiti della Razza Verde”, “la Città del Fuoco”, chiamata Piropoli dai cartografi antichi, che sorge “nella parte più settentrionale e più inospitale della Persia”; c’è perfino la descrizione di un pianeta marziano, chiamato Terzo, intercettato da “un monaco tibetano, Dho Luan, esperto nelle arti magiche quanto nell’ascetica buddista”. In sordina, un sentore di Michelstaedter e di Poe. Papini non è da meno dell’esasperato Lovecraft: chiamava i suoi racconti “favole oscure… colloqui inquietanti”, spesso dietro il paravento del gioco, dell’invenzione narrativa si ode il rintocco di una verità meridiana, micidiale. Ma che bello… In un canile narrativo dove gli scrittori nascono già vecchi, risaputi, ‘adatti’, pieni di dottrina e di paragrafi burocratici, Papini spariglia le carte, sovverte i cliché, pare giovane, appena nato, un esordiente, è il più grande scrittore italiano del 2022, gli diano un premio.
Qui, un dialogo disteso con Raoul Bruni.
Intanto. Ti chiederei di decifrare il genio narrativo di Papini alla luce del suo precedente, Leopardi, e del suo ammiratore, Jorge Luis Borges. Insomma, in cosa si sostanzia il carisma di Papini nella narrazione breve, fulminea, a tratti sconcertante?
I riferimenti a Leopardi e Borges possono servire da coordinate per iniziare a parlare di Papini come autore di racconti. L’ammirazione di Borges per Papini è ben nota: Papini è l’unico autore italiano incluso da Borges nell’Antologia della letteratura fantastica (1940); e la scelta di racconti di Papini Lo specchio che fugge è uno dei primi titoli della splendida collana «La Biblioteca di Babele», che Borges approntò per l’editore Franco Maria Ricci. Lo specchio che fugge esce nel 1977, in un periodo in cui Papini era già stato completamente rimosso dal canone della cultura italiana. Borges fu quindi fondamentale per la riscoperta di Papini in Italia (e non solo): una riscoperta avvenuta sotto l’insegna del «fantastico», dato Borges attinse alle prime due raccolte di racconti di Papini (Il tragico quotidiano e Il pilota cieco), cioè quelle maggiormente assimilabili al genere fantastico. Ma si tratta però di un fantastico anomalo, diverso dal fantastico ottocentesco di un Hoffmann o di un Poe, che pure Papini ammirava. Nei racconti del Tragico quotidiano e del Pilota cieco non si trovano gli espedienti tipici del repertorio fantastico tradizionale (fantasmi, case infestate, ecc.): l’inquietudine nasce invece, spesso, dai rovelli esistenziali o psicologici che opprimono i protagonisti dei racconti papiniani. Da questo punto di vista Papini guarda a Leopardi, specie al Leopardi prosatore delle Operette e dello Zibaldone, a cui lo accomuna anche la tensione filosofica dei testi: del resto, Papini aveva esordito come scrittore di filosofia, con il sulfureo volumetto Il crepuscolo dei filosofi. Intrecciando meditazione filosofica e invenzione letteraria, i racconti di Papini raggiungono esiti molto originali nell’ambito della letteratura italiana di inizio Novecento.
I racconti di Papini paiono accessibili, schietti, belli, ‘nuovi’, per così dire, tuttavia nell’introduzione al libro racconti la vera e propria “lacuna editoriale” che li ha marginalizzati. Che cosa è successo, quali le ragioni di questa rimozione?
Come sappiamo, su Papini ha pesato un lungo ostracismo ideologico, legato principalmente alle sue compromissioni con il regime fascista, tanto che ancora oggi sembra impossibile parlare di Papini senza associarlo al fascismo. Se Papini, in una certa fase, aderì al fascismo, d’altra parte bisogna notare che le sue principali raccolte di racconti (Il tragico quotidiano, Il pilota cieco, Parole e sangue e Buffonate) escono tra il 1906 e il 1914, quindi diversi anni prima della Marcia su Roma; dunque è un po’ strano, e anche improprio, dover parlare di fascismo a proposito del Papini narratore. La marginalizzazione dei racconti dipende inoltre dal fatto che Papini è ancora ridotto all’immagine di ideologo e promotore culturale, che emerge dalle frettolose righe che gli dedicano in genere i nostri manuali di storiografia letteraria. Anche il Meridiano curato da Baldacci e Nicoletti nella seconda metà degli anni Settanta (e più volte ristampato) ha questo limite, dato che trascura completamente i racconti, le poesie e le prose poetiche. Come se Papini non fosse stato anche (e soprattutto) un (grande) scrittore. Da lettore e studioso di Papini avevo provato più volte a far ristampare i suoi racconti, ma il progetto finora non era mai andato in porto: ricordo che un’edizione complessiva mancava da oltre sessant’anni. Questa lacuna editoriale, finalmente colmata grazie alla lungimiranza dell’editore Clichy, appare ancora più inspiegabile, se si tiene conto della fortuna di Papini all’estero. E non mi riferisco solo alle vecchie traduzioni, uscite nel primo Novecento, sulla scia del successo mondiale della Storia di Cristo (1921): recenti sono le ottime edizioni francesi di Un uomo finito e del Concerto fantastico,pubblicate da un marchio editoriale prestigioso come L’Age d’Homme; e nuove traduzioni sono apparse in vari Paesi (dalla Spagna alla Turchia), tanto che si ha l’impressione che Papini sia letto ormai più all’estero che in Italia. L’auspicio è che questa nuova edizione dei racconti (corredata anche da due brillanti interventi di Vanni Santoni e Alessandro Raveggi) solleciti i lettori italiani a invertire, almeno in parte, questa tendenza.
Qual è, nella mole di racconti, quello più bello, perturbante, insolito, a tuo dire? Quello da cui partire per scoscendere negli altri?
I racconti che potrei menzionare sono molti, e spero che questa nuova edizione rappresenti un’occasione per riscoprire (o scoprire) il talento narrativo di Papini. Se, però, mi si chiede di indicare un racconto da cui partire, sceglierei senza esitazione il primo della prima raccolta: L’uomo che non poté essere imperatore, in cui troviamo in forma condensata l’intima essenza dell’esperienza letteraria di Papini. L’imperatore mancato infatti è lui stesso: e la scrittura non è che una forma compensazione per questo fallimento. Ma imperatori mancati sono in un certo senso tutti quelli che continuano a coltivare – non importa se come lettori o come scrittori – il vizio della letteratura.
Mi pare che nei racconti Papini costruisca anche un suo canone oscuro, sinistro, laterale. Insomma, che idea di letteratura viene fuori da questi racconti?
Le prime due raccolte – Il tragico quotidiano e Il pilota cieco – escono proprio all’inizio del secolo, rispettivamente nel 1906 e nel 1907; e possono essere considerate le prime opere di un certo canone novecentesco, che oscilla tra il fantastico, il surreale e il perturbante. Echi e affinità, più o meno puntuali, con i racconti del primo Papini possono trovarsi in autori come Buzzati, Savinio, Bontempelli, così come in certo Calvino, nelle novelle fantastiche di Pirandello, o in Giorgio Vigolo: cioè in alcuni dei più significativi interpreti del fantastico in Italia. Se invece si preferisce non usare l’etichetta, a volte scivolosa, di “fantastico”, si possono ricondurre i racconti di Papini alla categoria del ‘metafisico’ (non a caso un grande storico dell’arte come Maurizio Calvesi, considerava Papini il precursore della metafisica di Giorgio de Chirico). L’inquietudine metafisica e l’apertura al mistero e alla dimensione del sogno sono i tratti più tipici della scrittura narrativa di Papini, dagli esordi alle sottovalutate raccolte degli anni Cinquanta, che presentano affreschi sorprendenti di altri mondi, tra utopia e distopia. Se me lo consenti, vorrei concludere il nostro colloquio citando un brano tratto proprio da una delle ultime raccolte (Le pazzie del poeta, 1950), che, riletto oggi, ci appare stranamente familiare: «Un’ordinanza del triumvirato vietava a tutti i cittadini di uscire per le strade a viso scoperto. Tutti, uomini e donne, vecchie e giovani, dovevano portare una maschera. E, come se ciò non bastasse, la scelta delle maschere non era lasciata al loro gusto ed arbitrio ma era imposta, per così dire, una maschera di stato, la maschera eguale per tutti […] Coloro che capitavano, senza conoscer tale usanza, a Lausia, potevan credere d’esser sopraggiunti in pieno carnevale oppure che tutti gli abitanti fossero fratelli e sorelle, o volessero nascondere le turpi facce d’un comune e generale contagio».