Fu l’età d’oro della sicurezza: così, secondo Stefan Zweig nei suoi Ricordi di un europeo (1942), andava custodita la memoria del «mondo di ieri» cancellato dallo scoppio della Grande Guerra. Era questo, del resto, il mondo di cui anche Siegfried Sassoon – noto ai più tra i giovani poeti inglesi sopravvissuti al conflitto – si riconosceva figlio ed erede. Il ritorno in patria fu dunque per il prode e feroce war poet – autore delle più potenti poesie realistiche e satiriche contro i mali della guerra – un cammino tracciato e carico di medaglie marziali verso la casa da tempo abbandonata per il fronte, accompagnato dalla realizzazione lucida che tutto intorno a lui era irrimediabilmente cambiato. Aveva inoltre la sensazione che tutta la sua passata giovinezza fosse andata perduta, svanita sotto la polvere di un istante di terribile follia e uno slancio d’impensabile coraggio. Spenti i fuochi delle bombe, la rabbia che aveva provato nel conflitto, forgiando su di essa la sua cifra poetica, si era gradualmente tramutata in disillusione, mestizia, inerzia. Nella primavera del 1919 – quello che fu per lui “l’anno più felice” – nondimeno avvertì nell’aria una speranza nuova, una brezza di pace e ottimismo per il futuro. Mise in versi quello stato d’animo in Everyone Sang (Tutti cantarono), ma pure quel canto di libertà non copriva del tutto l’indicibile tragedia al risveglio della stagione più mite:
“D’improvviso tutti si misero a cantare; E io mi riempii di una tale gioia Come gli uccelli in gabbia che appena liberi Svolazzano in selvaggia schiera sui bianchi Orti e nei campi verde scuro; sempre più lontano, e lontano dagli occhi.
La voce di tutti s’alzò in un baleno E la bellezza giunse come il sole al tramonto: Il mio cuore fu mosso alle lacrime; e l’orrore Scivolò via… Oh, ma tutti Erano come uccelli; e la canzone senza parole; il canto mai verrà eseguito.”
Acceso nell’animo da un fiero patriottismo che l’aveva mosso alle armi nei primi giorni della campagna (quando si era arruolato nei reparti della Cavalleria del Sussex già prima dell’entrata in guerra del paese), poi trasformato, alla luce dell’esperienza bellica, in amara condanna del conflitto, Sassoon era da un lato l’ebreo anticonformista – discendente dei “Rothschild dell’est” – il quale aveva firmato in aperto atto di sfida contro le autorità militari l’indocile Dichiarazione di un soldato (1917), dalla forza morale e la rettezza di penna pari solo a un Zola del J’accuse; dall’altro, incarnava il più tipico esponente della country gentry inglese, condividendo appieno i valori della sua classe. Il suo esordio letterario come poeta – con The Daffodil Murderer (L’assassino di narcisi), 1913 – era stato accolto con un discreto favore di critica, ma fu con le poesie di guerra, dalle tinte scioccanti e i toni aspri e irriverenti, dove la vita di trincea è rappresentata con bruciante realismo satirico, che raggiunse l’apice della fama nell’immediato dopoguerra.
Le opere per cui è annoverato come uno dei più stimati poeti di guerra britannici e mondiali comprendono Counter-Attack (1918), War Poems (1919) e i Satirical Poems (1926). Per queste sarà ricordato come il poeta-soldato tornato traumatizzato dal fronte, simile per certi aspetti al giovane veterano Septimus Smith del romanzo Mrs Dalloway di Virginia Woolf che volle riportarne le iniziali nell’identità del suo sconvolto deuteragonista. Come il famoso personaggio, era un uomo elegante, un vero artista, un misto d’eroismo e sensibilità poetica, poco incline allo sforzo intellettuale e accademico (dopo aver studiato a Marlborough, aveva lasciato il Clare College di Cambridge, senza conseguire la laurea, per dedicarsi alla vita di campagna) ma dotato di un’immaginazione profondamente emozionale, radicata in una mistica del tutto personale che trovò infine nella fede, con la tarda conversione al Cattolicesimo nel 1957, la sua eletta via di redenzione spirituale.
Fin da piccolo era vissuto nell’agio dell’ancestrale tenuta di famiglia, a Weirleigh, una spettrale costruzione neo-gotica nascosta nelle valli del Kent, dov’era abituato agli sport da campo e allo stile di caccia alla volpe, passatempi tradizionali dei giovani del suo status. Fu così che appena rientrato in Inghilterra, andò dritto verso quel riparo sicuro – a lungo immaginato nei periodi più bui, quand’era stato sfiorato dal pensiero di morte – e divenuto la sua casa dell’anima, simbolo del mondo dell’infanzia e della giovinezza intatta: il Weald. Con questo nome è chiamata la landa boschiva formata dalle antiche foreste (weald, appunto, in anglosassone) che si estendono tra le colline dei Downs del Nord e Sud.
Vista dall’alto, la regione appariva come la terra promessa al soldato-eroe sopravvissuto alla temuta impresa, riscattato dell’immaginifica ma poco cavalleresca quête: ricordata con estrema nostalgia, ora era lì ad aspettarlo, apparentemente immutata – agli occhi stravolti del giovane ufficiale – in tutta la sua rigogliosa e arcaica bellezza di Eden perduto. Coi suoi tramonti abbaglianti e interminabili spazi a perdita d’occhio, la visione estatica della contea gli offriva una pace assoluta e rigenerante: “una corda unica di emozioni che vibravano indietro negli anni fino ai miei primi ricordi”, come annotò lui stesso più anziano. Con quest’immagine la campagna del Kent gli veniva in soccorso per sanare il suo animo scosso dai sibili delle mine e ferito dalle esplosioni delle granate, più lenitivo d’ogni altro ricovero negli asfittici sanatori per soldati sotto shock da granata.
Al netto dei peggiori incubi, degli anni di guerra avrebbe ripensato, nei suoi sogni lucidi, all’amicizia degli ex compagni in armi, dal mentore poetico Robert Graves all’amato Wilfred Owen, nata tra le lettighe del Craiglockhart War Hospital, e all’ambizioso progetto di Dr. Rivers, testardo nel voler “rigenerare” i loro nervi per rispedirli uno per uno nell’esercito. Ripescato dalla memoria, gli balenava nella mente il suo fausto periodo georgiano, di cui andava orgoglioso, quando scriveva versi sotto l’ala di Sir Edward Marsh, e insieme a lui l’incontro folgorante con il coetaneo Rupert Brooke. Lo avrebbe ricordato più avanti, in pagine piene di luce, come la quintessenza della generazione di giovani inglesi caduta nel baratro della guerra, simbolo d’innocenza dell’Inghilterra prebellica, col suo fascino antico e la sua assoluta eleganza, a incarnare gli anni felici della “dorata giovinezza” perduta dai coscritti. Come l’autore dei celeberrimi war sonnets, anch’egli aveva temprato la penna componendo ingenui versi idealistici agli inizi del conflitto, salutato con entusiasmo enfatico e credendo in una causa giusta in cui valeva la pena combattere, poi tramutato in violento disinganno eruttato in versi dirompenti e in ultimo ferventemente anti-patriottici. Almeno al caro Brooke era stato risparmiato l’orrore della battaglia. Lui che il dono del poeta lo aveva ricamato sugli occhi e non lo lasciava neppure da una lontana isola greca. Ma il suo dono dov’era? Si chiedeva, invece, il dubbioso e timido ma quanto mai impavido Siegfried Sassoon.
Eppure, la guerra si era dimostrata una tragica e incantevole Musa. Qualcosa doveva pur essere rimasto tra le macerie, i frammenti e i resti delle sue carte. Non poteva essere terminato tutto lì, annegato nelle madide trincee, né certamente poteva dirsi conclusa nel fango la sua carriera di scrittore.
Nel gennaio 1920 sbarcò nel Nuovo Mondo per un tour di conferenze e public readings, salutato dal pubblico come celebre poeta veterano ed eroe di guerra. Quella popolare reputazione lo accompagnava lì come in patria inchiodandolo all’immagine dell’eterno soldato e cantore della guerra, quasi ad impedirgli un’evoluzione. Non si sentiva di certo a suo agio in quel vecchio abito da Capitano (il soprannome di ‘Mad Jack’, lodato per l’incredibile coraggio mostrato in azione, credeva di averlo lasciato sulle bocche del suo plotone).
Appena salito sul palco per leggere all’auditorio le sue rinomate poesie, Sassoon pareva un ometto impacciato, quasi scompariva nel suo impeccabile vestito di tweed, e bizzarro per le sue grandi orecchie, ma appena attaccava a recitare s’accendeva della fiamma esplosiva dei suoi stessi versi. Solcando le strade di New York e accolto in tutti i circoli letterari che contavano, ogni volta che firmava una copia dei suoi War poems, che pure gli avevano regalato una larga fama internazionale, aveva l’impressione di essersi allontanato dalla vecchia Europa con tutto quello che significava – finanche l’orrore della guerra – ma questa gli rimaneva addosso e continuava ad ossessionarlo a distanza di anni, anche dall’altra parte del mondo, come un indicibile peccato. Doveva, presto o tardi, ritoccare le sponde d’Inghilterra, e cambiare strada.
Cominciò con l’abbracciare apertamente la sua combattuta omosessualità, vissuta d’ora in avanti in maniera quasi dichiarata, brandendola come la canna del fucile tenuto sulle sue spalle durante lunghe ronde di notte sulle trincee. Ebbe quindi molte relazioni omoerotiche e sentimentali, talune con gli uomini più avvenenti e famosi dell’epoca: dagli attori Ivor Novello e Glen Byam Shaw all’aristocratico Stephen Tennant. Quest’ultimo lo condusse per mano nel suo circolo di giovani brillanti conosciuti come “Bright Young Things”, gli aristocratici protagonisti atteggiati a bohémiens dei “Roaring Twenties” inglesi. Immerso nel calore ruggente di quegli anni, Sassoon fu beniamino nel salotto di Lady Ottoline Morrell, a Garsington, dove presiedeva ai mondani garden parties, superando la naturale reticenza per cavalcare la conversazione con parlantina fluida e gambe accavallate, perfettamente in stile Bloomsbury, al fianco di amici letterati, critici e pittori tra “le menti migliori della loro generazione”. Eppure qualcosa, nel profondo, continuava a scuoterlo con una angosciosa ansia: non era questo, dopotutto, il mondo in cui il poeta-veterano si aspettava di tornare, perché tutto quel che conosceva e aveva amato davvero era stato rotto irreparabilmente, la vita stessa era “inquinata alle radici”. Doveva allora portarsi dietro i cocci, pur nell’incurante leggerezza del periodo che l’amico Graves avrebbe definito un «lungo weekend» di pace e spensieratezza. Non potendo coprire il trauma e la perdita della sua generazione, occorreva costruire daccapo una nuova epoca, nutrire nuovi «piccoli centri di vita» e speranze nascoste «tra le rovine», come avrebbe avvertito D. H. Lawrence nel mirabile incipit di Lady Chatterley (1928).
A sorpresa di tutti gli amici e dei precedenti amanti, nel 1933 sposò la giovanissima Hester Gatty. Il matrimonio, gioioso nella sua luna di miele, portò alla nascita del figlio George, ma era comunque destinato a una fine spontanea. Da qui, il ritiro finale lo vide ancora una volta nel caro Weald e presso la sua mansion di Heytesbury, nel Wiltshire, ricoprì per il resto dei suoi giorni il ruolo del gentleman di campagna, una sorta di poeta rurale amante della rustica domesticità e delle corse di cavalli, dove perpetrava i privilegi e coltivava gli svaghi dell’alta borghesia terriera, tentando ancora – con qualche difficoltà, essendo calate le luci del successo decollato anni prima – la strada dello scrittore. Più di una cacciata dalla società mondana che aveva frequentato fino ad allora, quell’ultimo ritiro significò un ritorno al grembo della sua terra: dipinta come una ritrovata “Merry England” coi suoi echi di un passato glorioso – la stessa in cui Thomas Hardy aveva ricreato il suo mitico regno sassone del “Wessex” – era la cura naturale per una ferita già aperta da tempo. Fino alla fine, sicuro della sua fede, a quel mondo del passato, ormai irrecuperabile, tuttavia decise di fare ritorno, riscoprendolo grazie al potere catartico della scrittura nell’amato paesaggio che lo circondava, contemplato come l’unica via di fuga da uno sterile presente o una ricompensa dalla deprivazione degli anni di giovinezza mancati. Non appena arrivata l’ispirazione direttamente dalla lettura della Combray di Proust (che in una tazza da tè aveva incapsulato un intero mondo prebellico e la sua gioventù) a cui si dichiarò fin da subito debitore, cominciò a stendere pagine e pagine di memorie che formarono il nucleo per la futura serie di romanzi autobiografici e dei più genuini memoir: in tutto, diede alla luce due trilogie dai titoli Memoirs of George Sherton (1937) e Siegfried’s Journey (1945). Testi dall’odore e dal sapore di vecchia Inghilterra, questi capolavori spesso dimenticati della sua produzione rappresentano uno spaccato vivido delle atmosfere del lungo «secolo andato» e dei divertimenti rurali della breve “Estate edoardiana” fino al racconto delle tragiche esperienze vissute durante la guerra. Un lavoro che lo impegnò, al fronte della scrittura poetica (si ricordano anche Il viaggio del cuore, 1928, La strada verso la rovina, 1933, e Veglie, 1935), per circa due decenni.
Raccolti poi in un unico volume, i romanzi della “trilogia di Sherton” mettono al centro le avventure del protagonista-narratore eponimo, l’ufficiale George Sherston, in un ritratto del soldato da giovane, alter ego dell’autore, dalla sua spensierata vita in campagna durante gli anni prebellici fino all’esperienza volontaria dell’esercito. Primo nella serie e immediatamente esaurito alla sua pubblicazione, Memorie di un cacciatore di volpe, con le sue descrizioni di voraci scene di caccia e avvincenti avventure nei boschi in tipico humour inglese, vide all’epoca un immediato successo di pubblico ed è oggi considerato un classico. Chiude il ciclo La strada di Sherston, trasportando in finzione il suo periodo d’internamento nell’ospedale di guerra a Edimburgo dopo aver combattuto al fronte. Sul crinale della Somme è invece ambientato il secondo libro di Memorie di un ufficiale di fanteria (l’unico tradotto in italiano, da Enrico M. Massucci, per le Edizioni Textus, 2024).
A questi romanzi parzialmente legati al proprio vissuto, il maturo Sassoon affiancò ben presto una scrittura più strettamente autobiografica, ricalcata da stile raffinato e dalla vena profondamente nostalgica che ne fanno dei classici esempi di prosa lirica, dove ripercorre le tappe fondamentali del suo percorso di formazione, scandagliando le parti più nascoste del suo animo e i più bei momenti conservati nei suoi ricordi, preferendo soffermarsi sulle zone di luce anziché d’ombra, sulle “ore dorate” d’anteguerra più che sulle violente atrocità belliche. Non distanti nei temi e nei toni dai versi giovanili – raccolti in The Old Huntsman (Il vecchio cacciatore), 1917 – intrisi di sentimenti nostalgici e motivi pastorali tipicamente georgiani, i primi memoir sono un intimo omaggio a quel mondo perduto, scomparso ai rombi dei cannoni e recuperato nella memoria come il più audace tentativo di riappropriazione di sé e del proprio passato. Il titolo finale scelto per l’intera autobiografia, Il viaggio di Siefried1916-1920, a cominciare da Il vecchio secolo, riflette e accompagna un vero e proprio viaggio spirituale di scoperta interiore dell’autore, uomo e personaggio, risorto dalle trincee per rinascere nella luce della terra natìa.
Stanco della divisa militare che aveva oppresso la sua reputazione di scrittore troppo a lungo, è nella seconda parte dell’autobiografia The Weald Of Youth(La foresta della giovinezza), relativa al periodo compreso tra la fine dei suoi vent’anni e l’arruolamento, che Sassoon consegna ai posteri il suo più autentico autoritratto:
“L’estate del 1911 torna in vita per me in questo istante, come in una fotografia mentale e a colori di me stesso inginocchiato sul campo da tennis, a Weirleigh, con una radice di dente di leone tra le punte di indice e pollice.”
Solo, immerso nella sua terra del ricordo, con una spiga tra i denti e un soffione fra le dita alla maniera dei pastori e dei contadini locali; spogliatosi d’ogni stemma e medaglia, era ancora il ragazzo del Weald.
Pierluigi Piscopo
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DaLa foresta della giovinezza(The Weald of Youth):
Comunque sia, eccomi qui, con la cara vecchia mappa di nuovo davanti — proprio dell’umore di ritornare in una di quelle case di campagna in stile Regina Anna, come quella mattina dopo il ballo in cui appena sveglio e un po’ assonnato osservai il domestico mentre posizionava con discrezione una borsa d’acqua calda nella vasca da bagno, chiedendomi se aspettarsi mezza sterlina d’oro, o se cinque scellini potessero bastare, finché non se ne andò scricchiolando lungo il corridoio, e io mi alzai e guardai fuori dalla finestra i prati gelati e il sole che faceva appena capolino attraverso la nebbia oltre il viale costeggiato dagli olmi. Tornando in una casa del genere, ci andrei in estate — preferibilmente una mattina sonnolenta di luglio. Mi troverei in una stanza al piano di sopra, per sporgermi dall’alta finestra ad arco da un sedile riscaldato dal sole. È una stanza poco frequentata che sembra contenere vibrazioni di una vita scomparsa. Ma anche una stanza estiva, in cui i cuscini lungo il sedile della finestra hanno perso il loro colore originale a causa di molte mattinate come questa. Anno dopo anno, la luce del sole è entrata attraverso le tende semichiuse per inclinarsi oziosamente lungo il pavimento di quercia e su per la parete rivestita di pannelli, talvolta strisciando oltre il ritratto sopra il caminetto — una giovane donna in abiti del diciottesimo secolo con un mazzolino di fiori tra le mani. ‘Il passato è finito e andato’, sembra dire la luce del sole, ‘ma il presente non è altro che quella farfalla maculata che svolazza aridamente contro il soffitto, e il vecchio pony bianco che trascina la macchina tagliaerba avanti e indietro sul prato’.
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DaMemorie di un cacciatore di volpi(Memoirs of a Fox-Hunting man):
Stephen mi disse che il Capo amava follemente stanare le volpi, che in quella e in molte altre regioni del paese erano troppo numerose per poter godere di una così buona battuta di caccia nella tarda stagione. Mentre incitava i suoi cani su e giù per i boschi, era passato accanto a noi più volte; ma era talmente concentrato sul suo compito che ci aveva appena degnati di uno sguardo. Quando arrivammo alla conigliera, inizialmente non riuscivo a vedere altro di lui se non la schiena del suo vecchio cappotto color gelso; la testa e le spalle erano coperti per metà sottoterra; aveva appena fatto entrare un terrier e stava ascoltando attentamente i soffocati latrati provenienti dal sottosuolo. Stephen si mise a parlare con Will, il primo assistente e suo vecchio amico, dal momento che era stato il secondo sotto il precedente cacciatore (l’inetto Ben Trotter). Non osavo sperare che Milden si ricordasse di me, ma quando si raddrizzò e voltò il viso gioviale e rubicondo nella mia direzione, lo guardai con umile aspettativa. […] Il rumore delle vanghe che scavavano e l’odore del terreno sabbioso si mescolavano ora con l’olezzo del branco sudato, della felce schiacciata che i cavalli stavano masticando e con l’inconfondibile e pungente odore di volpe. Per quanto inumano fosse lo scopo, era una piacevole scena campestre.
Ricordo bene quella mattina di settembre e come, quando mi offrii di fare a turno con una vanga, Denis Milden mi guardò e disse: “Non ci siamo già visti da qualche parte?” Risposi timidamente che probabilmente mi aveva visto alle corse di cavalli. Sembrò provvidenziale quando Will gli ricordò che avevo vinto alle Hunt Heavy Weights. Milden commentò con noncuranza: “Chat dev’essere un cavallo fortunato per te”.
*In copertina: Siegfried Sassoon in un ritratto di Glyn Warren, 1917