Lunedì 21 novembre 1910 “Il Giornale d’Italia” esce in edizione particolare, con titolo deflagrante: “Tolstoi è morto stamane alle 6, ad Astapovo”. La minuscola stazione di transito di Astapovo – da tempo battezzata Lev Tolstòj, poco più di ottomila abitanti –, dove aveva riparato lo scrittore pluriottantenne, in fuga da sé, da tutti, da tutto, era affollata di giornalisti. Per l’Italia, la notizia era stata ribattuta dall’Agenzia Stefani, con un dispaccio che da Pietroburgo, via Parigi, era giunto a Roma, Palazzo Sciarra, sede del quotidiano. Una fotografia a piena pagina mostra “Tolstoi e la figlia prediletta Alessandra”: il grande scrittore indossa gli abiti sobri del guru, la barba a latitudine divina.

Le pagine del giornale sono fitte di commenti, spesso di astrale cordoglio. Secondo l’avvocato Giuseppe Romualdi, “Ricordando Tolstoi inevitabilmente il pensiero ricorda la vita di San Francesco d’Assisi”; secondo il senatore Francesco Filomusi Guelfi “La filosofia del Tolstoi è in contrapposizione a quella del Nietzsche”. Quasi tutti i commentatori, si confrontarono con il pensiero del grande scrittore più che con la sua scrittura: come se l’uomo, il pacifista, il pamphlettista, l’ideologo della felicità, il fondatore di nuove religioni umanitarie – il ‘tolstoismo’, appunto, di cui fu seguace, per un tratto, pure Gandhi – avesse superato l’artista, l’insuperabile autore di Guerra e pace e Anna Karenina. Il fatto – il rovesciamento dei valori in atto – fu stigmatizzato da alcuni. L’onorevole Guido Baccelli, per sette volte Ministro della pubblica istruzione, si espresse con messaggio telegrafico e sprezzante: “Io penso che sia da rimpiangere la scomparsa di un grande filantropo”. Claudio Treves, deputato socialista, scrisse che

“In Tolstoi l’anarchia ha consumato il suo più grande delitto: ha ucciso l’artista. Anna Karenina è morta quando Tolstoi scoperse la non resistenza al male e disse che la salvezza è in noi”.

L’esempio, per così dire, ‘locale’ dà il senso della fama universale di Tolstoj, che aveva l’ambizione, forse, di incarnare tutto l’uomo, di essere il nuovo Adamo, la creatura in continua ricerca, in costante esodo, in perpetua lotta con l’angelo. Nel 1882, con il pamphlet micidiale La confessione – censurato in Russia, pubblicato a Ginevra –, Tolstoj ripudia la letteratura e i suoi falsi idoli, s’incammina nella crisi, denuncia l’ipocrisia della chiesa ortodossa, della gerarchia che la sfinisce: sarà scomunicato nel 1901. Cercò di uccidere se stesso, Tolstoj; continuò a scrivere testi memorabili e conturbanti: La morte di Ivan Il’ič, Sonata a Kreutzer, Padre Sergij, ad esempio. “Ti compatisco con tutta l’anima. Compatisco anche me stesso per non essere in grado di aiutarti”, scrisse alla moglie, prima di sparire. Già malato, pochi giorni prima di morire, sentì il dovere di rimproverare il primogenito, Sergej:

“Pensa alla tua vita, domandati chi sei e che cosa sei, in che cosa consiste il senso della vita umana e in qual modo ogni uomo ragionevole dovrebbe viverla. Le idee del darwinismo, dell’evoluzione, della lotta per l’esistenza che hai fatto tue, non ti spiegheranno il senso della tua vita e non ti saranno di guida per le tue azioni, e la vita senza spiegazione del suo significato, del suo senso e senza una guida sicura che ne derivi è una misera esistenza”.

Pontificò fino all’ultimo, estremo patriarca della letteratura russa; la quale esiste perché ha il compito – impossibile dunque plausibile – di indagare il mistero dell’uomo, le sue tare, i suoi tormenti.

Boris Pasternak aveva vent’anni quando morì Tolstoj; suo padre, Leonid, era di casa presso il conte: ne illustrava i romanzi. Con un treno, padre e figlio si diressero ad Astapovo. Pasternak, nell’Autobiografia, rimarca la formula agiografica: Tolstoj “per amore e devozione alla terra, aveva camminato dietro all’aratro di legno, aveva indossato le vesti e la cintura dei contadini”, eppure, di quella terra, “era colui che per lignaggio avrebbe potuto esserne il re”. In questo immaginario, Tolstoj, re-contadino, splende come un semidio. Al contrario, Lev Šestov, insiste sulla brama di nulla di Tolstoj, la smania di mutilarsi, di denudarsi, come quegli eremiti presi dalla febbre del martirio, da un mattino col coltello in cinghia, come Padre Sergij che si mozza un dito per non cadere nel peccato, e non basta, dunque si spoglia di ogni nome, laterale al tempo, latitante:

“Subito dopo il suo ottantesimo compleanno, del quale si parlò nelle lingue delle cinque parti del mondo – nessuno prima di Tolstoj aveva conosciuto questo onore – abbandonò tutto in una notte oscura, fuggì di casa senza sapere dove né perché. Le sue opere, la sua fama – tutto gli faceva orrore, tutto era un peso doloroso, insopportabile. Sembrava che con mano impaziente e fremente si strappasse tutti i segni esterni, quasi simboli, che distinguevano il saggio, il maestro dalle folte sopracciglia e dalla venerabile barba, e imponevano il rispetto, per potersi presentare con l’anima leggera, o almeno alleggerita, dinanzi al giudice supremo, a tutto rinunciando e tutto dimenticando del suo grande passato”.

(in: Lev Šestov, Sulla bilancia di Giobbe, Adelphi, 1991, p. 186)

La vita di Lev Tolstoj è consustanziale alla sua opera: eppure, non possiamo farcene un’idea. Benché i libri di Tolstoj – e ci mancherebbe –, compresi i pamphlet irenisti, vengano costantemente ripubblicati e ritradotti, i diari – un tempo: Longanesi, 1975 e Garzanti, 1997 – del grande scrittore e le lettere – Longanesi, 1978 –, materiali necessari per sondarne l’anima-Monotauro, l’anima-Moby Dick, l’anima-colosso, sono ignorati. Anche l’Album Tolstoj, repertorio biografico con immagini curato da Igor Sibaldi per Mondadori (1994) non è facilmente rintracciabile. Così, la biografia di Elisabetta Sala, Lev Tolstoj. Il fuoco interiore (Edizioni Ares, 2023), rapida, sapida, brillante, informata, è un documento perfino necessario, funge da utile invito alla lettura e al pensiero. La Sala, con ferma delicatezza, torna sul tema dominante: “il maestro morale che è in lui ce la mette tutta per soffocare l’artista” (qui a proposito del romanzo ‘a tesi’, pur con pagine lampeggianti, Resurrezione). La tenia morale, ragione del corrusco fascino di Tolstoj, non inquina soltanto la letteratura: Elisabetta Sala ci ricorda che i celestiali intenti dello scrittore – i diritti d’autore ceduti “a tutti gli uomini” e in favore del fido, vampiro segretario speciale Čertkòv – ricadranno sulla sua vasta famiglia, con esisti pesantissimi, finanche crudeli. I figli dello scrittore-re, infatti, vissero “privati di tutto”: la secondogenita, Tat’jana – memorabile in un bellissimo ritratto di Il’ja Repin del 1893 –, ricorda che, sfollata a Parigi, non riuscì ad ammirare la riduzione cinematografica di Anna Karenina, protagonista la radiosa Greta Garbo. Il biglietto costava troppo. I figli, così, scontarono le utopie del padre-padrone: per il resto del mondo, un uomo santissimo. Ama il prossimo tuo, si dirà – purché a distanza.

Qui abbiamo interpellato Elisabetta Sala.

Parto da una nota laterale, anzi, dalla sua breve nota biografica. Scrive che Shakespeare e Tolstoj sono i suoi “autori preferiti”, che studia “dai tempi del liceo”. Come darle torto. Eppure, Tolstoj impiega parte delle sue ‘omeriche’ energie a cercare di distruggere Shakespeare. Perché?

Perché non lo capiva. E se non lo capiva lui, allora Shakespeare era incomprensibile: se non piaceva a lui, doveva essere un cattivo scrittore. Come chi affermasse che, siccome non ama i pomodori, ne consegue che non solo abbiano un gusto indiscutibilmente orribile, ma facciano persino male alla salute. Tolstoj leggeva le opere shakespeariane come fossero romanzi realisti dell’Ottocento: totalmente legato alla trama, sordo alla poesia, indifferente ai simboli, cieco davanti alle allegorie. Scrisse il suo saggio antishakespeariano, oltretutto, in una fase della vita in cui aveva rinnegato l’arte e la letteratura. Illuminante in proposito il celebre saggio di Orwell (a parte quando parla di cristianesimo), che mette il grande vecchio su un lettino e lo psicoanalizza meglio di quanto avrebbe fatto Freud in persona.

Resto nell’ambito shakespeariano. Alla fine della sua vita, sembra che il conte reciti la parte di re Lear. Certo, almeno una figlia gli è sempre accanto, però vive tra fraintesi, tradimenti, incompiutezze, tolstojani in estasi più realisti del re, contro tutto e contro tutti. Che cosa succede a Tolstoj, il guru, il pacifista, l’anticlericale, il dissidente, il ribelle?

Anche qui, il buon Eric Blair ci ha azzeccato in pieno: il dramma che Tolstoj odiava più di tutti era proprio il Lear, probabilmente perché lo toccava da vicino, col suo vecchio re dispotico che rinuncia a tutto per averne un ritorno personale. L’ultimo Tolstoj era così: voleva liberarsi della proprietà, dei diritti d’autore, del denaro, dei vincoli familiari, della sua stessa corporeità per essere finalmente libero e felice (non ci riuscì). Era giunto, soprattutto attraverso Schopenhauer, a disprezzare tutto ciò che è materiale e ad agognare a una specie di Nirvana. Tormentato da una ricerca di umiltà che non riusciva a dissociare dal suo ego ipertrofico, si costruì un credo politico-religioso del tutto personale, che lo rese prigioniero delle sue stesse teorie. Furono i discepoli, negli ultimi anni, a non accettare la minima deviazione dall’intransigenza che si autoimponeva e a renderlo per così dire schiavo di sé stesso. Quanto alla sua famosa “fuga”, è sorprendente quanto essa ricalchi da vicino il grande vecchio re shakespeariano.

Lev Šestov rintracciava il Tolstoj più potente nei testi postumi: Chadzi-Murat, Padre Sergj, Le memorie di un pazzo… A marcare, da un lato, credo, la crisi fino al soffocamento e la consueta felicità narrativa. E lei? Qual è il Tolstoj che ama di più, quello da cui iniziare, per intraprendere l’ascesa all’opera?

Vero che la magia tolstoiana si sprigiona ogni volta che si apre una sua opera narrativa, ma il Tolstoj più potente è quello dei due grandi classici, Guerra e pace e Anna Karénina. Potranno magari intimidire il lettore moderno, abituato a romanzi che non superano le trecento pagine, ma per apprezzare il meglio della sua grande arte non esistono scorciatoie! A chi volesse partire “piano”, però, consiglio La morte di Ivàn Il’ič. Romanzo breve, zero suspense, ma il lettore non riuscirà a metterlo giù e deciderà spontaneamente di passare alle opere maggiori.

Il Tolstoj evangelico, il Tolstoj ‘morale’, è debole rispetto al Tolstoj che nei suoi libri pare distillare il mistero della vita e della morte: perché? A un certo punto, il grande scrittore sembra perfino forgiarsi un Gesù utile ai propri fini etici… Ci spieghi. 

Questi due punti sono strettamente legati, poiché fu la nuova religione che egli stesso aveva “scoperto” (leggi: inventato) a portarlo ad abbandonare l’arte. Il Tolstoj “morale” non aveva in realtà molto di nuovo da dire rispetto alle altre “religioni dell’umanità” che imperversavano nel secondo Ottocento. Ma, nel momento in cui scelse di darsi anima e corpo alla rigenerazione morale dell’umanità al seguito di un Cristo solo umano e mai realmente esistito, buttò alle ortiche il Tolstoj artista e, estremista come sempre, vi sputò sopra. Come scrisse Nabokov, quella sua nuova religione immanente lo obbligò a sacrificare quel “gigante di artista” che era in favore del “filosofo pedestre dalla mente ristretta” che aveva scelto di diventare.

Perché è così importante setacciare la vita di Tolstoj, e qual è l’episodio della sua esistenza che le pare più significativo?

Il problema è che Tolstoj divenne al tempo anche più famoso da “filosofo” che da romanziere e che, in questa seconda parte di vita dopo la cosiddetta conversione, scrisse più che nella prima parte. Ciò da un mero punto di vista quantitativo, naturalmente: forse nessuno più leggerebbe il secondo Tolstoj se non ci fosse stato il primo. In realtà le due fasi hanno più o meno la stessa durata, un trentennio circa. L’episodio più significativo della sua vita si può a mio avviso ricondurre a un solo giorno, cioè al 23 settembre del 1862, quando sposò la giovanissima Sof’ja Andréevna. Fu l’inizio di quel felice sodalizio di cuori e di intenti che lo portò a completare le opere maggiori. Per loro (e nostra) sfortuna, quando venne meno quella unità Tolstoj rinunciò alla scrittura artistica.

Tolstoj è uno dei rari casi in cui uno scrittore sembra incarnare lo ‘spirito’ di un popolo: come Victor Hugo, Goethe, Manzoni, in altri stati. Oggi lo scrittore, se va bene, forgia un immaginario destinato alla fiction, non sviscera problemi ‘morali’, non impone temi, personaggi, idee. Come mai, secondo lei? Siamo schiavi dei tempi, è l’animo umano che è cambiato…

In altre parole, Tolstoj è un vero classico. Che, per giunta, produsse i suoi capolavori nell’epoca aurea della narrativa mondiale. Da lì, a mio avviso, è stato un lento declino. Già dal primo Novecento, la premessa che è venuta sempre più a mancare è una visione condivisa del mondo, una percezione della realtà (e a volte dell’Aldilà) comune tra autore e lettori. Su quella scia oggi sono crollate tutte le certezze: come è possibile che un autore cerchi ancora di essere guida e che non si faccia invece semplice intrattenitore? Aggiungiamo che il mainstream è dispotico, impietoso: solo chi non lo contrasta può sperare nel successo. Per non dire che i best seller di oggi sono spesso il frutto non di menti più profonde delle altre, bensì dello youtuber semianalfabeta del momento, che domani sarà dimenticato da tutti. Sarei curiosa di vedere quali sorprese ci riserverà l’altrettanto impietoso setaccio della storia.

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