Alle soglie di quella data tragica tra il 31 luglio e il primo agosto 1973, la calda notte in cui lo scrittore Guido Morselli, al ritorno da una vacanza a Macugnaga, decise di uscire di scena, solo, ma nella fatale compagnia della “ragazza dall’occhio nero” (la sua Browning 7,65), gli interrogativi sul significato della sua vita e della sua opera postuma non fanno che germogliare, invece che ridursi, camminando come edera sulla sua tomba.
Giulio Nascimbeni che l’aveva battezzato, il 21 ottobre 1974, dalle colonne del “Corriere della Sera”, un “Gattopardo del Nord”, diversi anni dopo, ovvero l’8 marzo 2002, così ricordava la sua rotta di collisione con lo scrittore postumo Morselli:
“Mi telefonò Luciano Foà della Adelphi, chiedendomi il favore di leggere le bozze del romanzo di un nuovo scrittore. Accettai la proposta. Un paio di giorni dopo, chiamai Foà: ‘Ma chi è questo Guido Morselli? Mi sembra un genio, il libro è entusiasmante’. Si trattava di Roma senza Papa. Foà fu felice, il ‘test’ aveva dato il risultato che la Adelphi sperava. Nella casa milanese di una sorella di Morselli, sposata Visconti, incontrai Maria Bruna Bassi, la donna che più di ogni altra persona aveva conosciuto lo scrittore, occupando un posto rilevante nella sua esistenza. Parlammo di Roma senza Papa, ovviamente, l’unico romanzo che in quel momento mi era noto, basato sul trasferimento della sede vaticana a Zagarolo, in una specie di bis dell’antico esilio di Avignone. Nonostante questa frattura, le pagine sono percorse da una frenesia teologica talmente assillante da giustificare l’ipotesi di una vera e propria fantateologia, nella quale ha un ruolo anche Freud perché l’inconscio servirebbe a spiegare l’origine del male”.
Secondo la signora Bassi, interrogata da Nascimbeni, Morselli aveva “l’angoscia dell’ateismo” ed era ossessionato da sempre dalla religione. Maria Bruna Bassi raccontò al giornalista di aver subito un intervento chirurgico molto grave, nel 1968.
“So che Guido venne in clinica. Credo che sia stato come folgorato. Entrò nella cappella, si buttò in ginocchio a pregare”.
La signora Maria Bruna Bassi – di cognome faceva Lizza ed era sposata con Rosalindo Bassi, originario di Cremona ed era anche figlioccia di Eugenio Balzan – conosceva le gioie e i tormenti di Guido Morselli, ha conservato a lungo il suo “macchinone” da scrivere, la sua Olivetti M20 che, nonostante i progressi tecnologici, era la vecchissima macchina da scrivere su cui batteva “con un solo dito tutti i suoi lavori”, fino all’ultimo anno di vita, il 1973. Le care cose di uno scrittore gli sopravvivono. La signora Bassi scriveva di suo pugno nel 1977:
“Ho il violino che studiava da bimbo e da ragazzo, due antiche poltrone che gli erano particolarmente care, qualche stampa, molte fotografie, la sdraio su cui riposava quando era stanco, una antica stufa di maiolica colorata, e infine la poltrona da giardino su cui si uccise”.
Le cose dal fascino prensile e consolatorio. “La sua piccola vecchia Ardea, ormai già un cimelio, da lui tanto amata e che ricoverava nel grande soggiorno quando si sentiva troppo solo”. Una solitudine scelta, amata e odiata, ricercata anche nella curiosa abitazione ai margini del bosco prealpino di Gavirate, in provincia di Varese, la Casina Rosa.
“Guido Morselli non ha mai sollecitato da nessuno né raccomandazioni, né aiuti, non per superbia (mi ripeteva che se avesse meritato un riconoscimento gli sarebbe venuto) ma perché aveva la dignità, la fierezza del gran signore, non certo la presuntuosa albagia del villan rifatto”: questo scriveva la signora Bassi, una specie di “vedova” dello scapolo Morselli, in una lettera a Piero Chiara il 28 ottobre 1977, cinque anni dopo il suo suicidio.
“Guido Morselli è stato perseguitato dalla sfortuna e ha seguito la strada meno adatta per arrivare al successo, ha sofferto il soffribile per non essere riuscito ad affermarsi malgrado i continui tentativi fatti presso le varie case editrici; del resto, tutti i migliori critici, scrittori e giornalisti l’hanno riconosciuto e ne ho le prove dall’enorme quantità di recensioni e articoli che mi invia l’Eco della Stampa”.
Non era più estate, ma quasi inverno, quel 12 dicembre 1973, quando Morselli ricevette il “no” dalla Bompiani, l’ultima di una lunga serie di case editrici italiane. Enrico Filippini, l’allora direttore editoriale, stroncava il manoscritto Dissipatio H.G.: “Interessante ma troppo ambizioso. Peccato”.
Le scarne parole di rifiuto non potevano più uccidere chi era già morto. Peccato, già.