Il premio Nobel Hamsun, il nazista Hamsun, il sognatore Hamsun, il reazionario Hamsun, le mille facce di quello che è stato definito l’“enigma Hamsun” e che possono essere bene riassunte nella figura più ricorrente in tutta la sua opera: quella del vagabondo. Un uomo discusso e discutibile Knut Hamsun (1858-1952), ma senza alcun dubbio uno scrittore di prima grandezza. I suoi libri hanno segnato una svolta, hanno lasciato il segno e ancora oggi sono attualissimi. Di fronte all’avanzare irrefrenabile della modernità, messo a confronto con un sistema spietato e per molti versi disumano come quello della società industriale, Hamsun si ritrae atterrito e cerca la salvezza in una fuga senza fine. Il romanzo che gli diede notorietà e successo, Fame del 1890, ci fa conoscere il primo di una straordinaria serie di vagabondi, o fuggitivi se preferite. Il protagonista, tra l’altro in buona parte autobiografico, vaga per le strade di Cristiania, il vecchio nome di Oslo, alla costante ricerca di un sistema per sbarcare il lunario, attanagliato dai morsi della fame e della miseria. Una via crucis cittadina, inframmezzata da illusori attimi di speranza, frutto più della mente allucinata del protagonista che della realtà. Alla fine, la soluzione migliore è quella di imbarcarsi su una nave e partire. Una sorta di fuga dalla fuga.
Davanti a un mondo che non capisce e non sa accettare, Hamsun si rifugia nell’introspezione, nell’indagine spasmodica della psiche individuale, come in Misteri del 1892, per molti versi quasi un proseguimento romanzato de L’unico e la sua proprietà di Max Stirner; un vero inno all’irrazionalità, all’incoerenza e all’individualismo in contrapposizione alla pretesa di scientificità, all’etica borghese e ai riti disumanizzanti della società di massa. Oppure si abbandona a un idillico ritorno alla natura, come nei bellissimi Sotto la stella d’autunno e Un vagabondo suona in sordina. Due libri in cui ritroviamo il solito randagio fannullone che scappa dalla città per seguire il richiamo della campagna, dove spera di ritrovare l’armonia con i ritmi naturali della vita e l’autenticità perduta dei rapporti umani. Romanzi splendidi, ma da leggere in controluce perché dietro la cornice idillica dei boschi e delle montagne il male di vivere è sempre lì in agguato, pronto a mordere l’animo del protagonista. La dura realtà riprende il sopravvento e dimostra che non c’è più spazio per l’utopia agreste di Hamsun; il suo mondo ideale popolato dalla vecchia aristocrazia e dalla nobiltà terriera è finito una volta per sempre.
Sta qui la vera grandezza di Knut Hamsun, in questa nostalgia di qualcosa che non c’è più e nel tentativo disperato di ritrovare un baricentro nella condizione umana. D’altra parte, la percezione della crisi profonda e della condizione di sradicamento dell’uomo moderno è uno dei filoni principali, anzi il maggiore, di tutta la cultura del Novecento. Hamsun in questo si dimostra un vero precursore degli altri grandi alienati della letteratura. I suoi meravigliosi perdigiorno buoni a nulla sembrano il ritratto sputato di Robert Walser, lo scrittore svizzero che aspirava a diventare uno zero assoluto. L’inquietudine e il disorientamento dei suoi personaggi sono le stesse che qualche anno più tardi ritroveremo, se pur in forme diverse, in Celine, Joyce, Kafka o, per restare dalle nostre parti in Svevo e Giuseppe Berto. A unirli c’è quel senso di estraneità al mondo e agli altri che possiamo ritrovare nelle riflessioni del protagonista di Fame:
«Com’erano leggeri e sereni tutti quegli uomini che incontravo, come dondolavano la testa spensieratamente e attraversavano danzando la vita come fosse una sala da ballo! Non un occhio affamato, non una spalla curva sotto un peso, forse neanche un pensiero angoscioso, neanche una pena segreta nel cuore di tutta quella gente allegra. E io passavo accanto a loro, giovane appena adulto, e avevo già dimenticato il volto della felicità!».
Quella di Hamsun è un’insoddisfazione profonda, un’ansia disperata, una continua fuga verso un impossibile salvezza, una perenne indisponibilità ai legami, un rifiuto dei ruoli prestabiliti che, con il passare degli anni, lo porteranno sempre più verso il disprezzo per i tempi moderni e per la democrazia, fino a cercare soluzioni sbagliate. È in questa ottica che penso vada inquadrata la sua adesione al nazismo che alla fine della Seconda guerra mondiale lo trascinerà sul banco degli imputati nella sua Norvegia come collaborazionista. Solo l’età avanzata e il prestigio di cui godeva gli risparmieranno il carcere e porteranno a una soluzione di compromesso.
Dunque, un uomo dalla vita lunghissima e piena di contraddizioni. Un reazionario nel pensiero e un anarchico nell’anima. Quello che resta e conta davvero, però, e che ancora oggi brilla di luce propria è la sua strabiliante natura di dottor Jekill e mister Hyde della letteratura. Sì, perché leggendo i suoi libri ci si accorge che Hamsun, il grande nemico della modernità, in realtà è uno scrittore ultramoderno, anticipatore di tutta la grande letteratura che verrà dopo di lui; uno dei primi a mettere in scena e a rendere protagonista la vita inconscia, con le paure, le angosce e tutto lo smarrimento dell’uomo solo e indifeso davanti alla vita.