A un certo punto quel libro che pare scritto sotto sotterfugio lunare, all’aureola di centinaia di candele – ragion per cui non può che essere ‘di culto’ – evolve in breviario estatico, in liturgia di ispirazioni argentate. “La morte: un esilio? un rimpatrio?”; “Com’è difficile, Dio”; “Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uomo innocente”; “Il mio cuore, come non mi somiglia più. Di un altro, ora: una persona tragica in cui non so riconoscermi, che ha usurpato i miei ricordi, alla cui invasione piangendo dico di no”. Fu lava e pestilenza, quello stile, aggiogato in un senza tempo, con l’arcangelo che ti chiude le narici fino a farti esplodere in coriandolo la pupilla.
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Sbancò al Campiello quel libro, Diceria dell’untore, di manzoniana bellezza, il caos omaggiato in verbi, vincendo su una cinquina di esperti (Anna Banti, Tonino Guerra, Gian Piero Bona, Bino Sanminiatelli). Secondo l’agiografia di quell’esordiente a sessant’anni, riferita da Maria Corti nel tomo delle Opere Bompiani – d’altronde, una vita è faccenda di dicerie, fatture, fratture – Diceria s’abbozza nel 1950, termina nel 1971, viene pubblicata, dopo radiose reticenze, nel 1981. Secondo la diceria, quarant’anni fa Elvira Sellerio passa un libro fotografico, Comiso ieri, a Leonardo Sciascia: è meravigliata dall’introduzione, vergata con caravaggesco brio da Bufalino. Sciascia esplode: questo è uno scrittore speciale. Da lì comincia la lenta estorsione del romanzo e l’emersione del ‘personaggio’.
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Poi, nel 1988, con Le menzogne della notte, capitò lo Strega, e capitolò il mito. Faccio il predatore di falene: in effetti quella edizione del premio non poteva andare ad altri (lampeggiava la modestia: Carlo Bernari, Giorgio Montefoschi, Giuliana Berlinguer, Brunello Vandano; Bufalino vinse con 159 preferenze, il secondo, la Berlinguer, si fermò a 58).
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Un monolite nero, una maceria stellare: per me quel libro primo, di origine letteraria dispari, è bellissimo, con frasi a lambire la conversione. “Poiché la seduzione del nulla era inutile, riluttando il cuore per tanti segni a farsene persuadere. E l’infelicità, col suo miele amaro, neppure essa mi serviva più”.
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Dopo l’esordio, si scoprì scrittore di oltraggiosa bravura, dal talento fecondissimo: a quel punto, pubblicò quasi un libro all’anno. Più che L’amaro miele, la raccolta di poesie – notare l’analogia con il “suo miele amaro”: Bufalino non fa che dettare, liquefatta in diversi generi, un’opera sola – è adorabile Il malpensante, raccolta di petroglifi aforistici che dicono della natura – tra lince e certezza – di sguardo di Bufalino. Segno questo: “Signore, abbi pietà dei suicidi, risparmia loro l’immortalità”. E anche questo: “Buco nero, che metafora giusta per chi volle essere stella e non è più che un rimasuglio di luce, incapace di sortire e di propagarsi, sigillata per sempre a consumarsi di sé!”.
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Tra le poesie, tramando questa, si chiama Svolta:
Venga l’autunno a dirci che siamo vivi,
seduti sull’argine rosso
a guardare l’acqua che se ne va.
E tornino le pezze di turchino ai cancelli,
i casti numi di gesso, le rose sdrucite,
le vesti liete dei fidanzati,
tutto rinnovi il tempo il suo mite apparecchio.
Poiché, mentre l’aria rapisce
nel suo sonno le foglie del sangue,
e così piano mi tenta
quest’esule sole la fronte,
è bello qui fermarsi per dirti addio,
mia giovinezza, mia giovinezza.
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A Taormina ho avuto il dono di dialogare, per quel tratto, con Cettina Caliò, poetessa. Tra i doni che mi ha fatto, in modo ingiustificato, un testo di trent’anni fa, connesso a una manifestazione, “Le maniere dello scrivere”, curata da Sergio Claudio Perroni. Il testo, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid?, esito di un “wordshow-seminario”, è di Gesualdo Bufalino. Lo scrittore, con arguzia, ragiona sulle ragioni della sua scrittura e dialoga con il pubblico. Da lì ho tratto questi brani. (d.b.)
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La memoria. “Il tema della memoria è, come s’intende, legato strettamente alla morte. Noi ricordiamo per non morire, lo smemorato è un morto, non è più nessuno. D’altronde, la morte è, secondo la sentenza di Seneca, perpetua: ‘moriamo ogni giorno’, la morte non è un futuro che ci minaccia ma un presente che ad ogni attimo conquista una porzione più ampia di noi. Più questo presente si fa passato, più cresce la morte dentro di noi. La memoria è la debole medicina che si oppone alle soprechierie della morte, è una protesi che tenta di sostituire la vita”.
L’amore. “Nella mia opera l’amore è visto generalmente come una commedia d’inganni, non nel senso di una frode maligna, ma come cinema di larve, una specie di sogno ininterrotto e creativo che somiglia al sentimento dell’arte. Con la differenza che non riguarda gli eletti, i vocati ma l’universale, essendo capace di suscitare anche nel più rozzo una fantasia di simulacri e miraggi”.
La malattia. “Virginia Woolf diceva che la malattia è un tema raro nell’universo del romanzo. Non è vero e sarebbe facile provarlo. Anzi direi ch’è il tema centrale d’ogni narrare. Ora la malattia può essere uno strumento di conoscenza, una pratica mistica, una degradazione carnale, una vanità”.
Dio. “Il tema religioso è uno dei temi portanti del mio mondo espressivo. Più che di tema religioso converrebbe forse parlare di un rapporto agonistico con la parola Dio, e con l’eventuale presenza, se non con la certissima assenza”.
L’anomalo. “Mi considero uno scrittore anomalo, per cui il rapporto con la mia opera è un po’ diverso da quello genitore-figlio dello scrittore comune. Per un motivo molto semplice, che appartiene alla mia biografia: per il fatto che io, il mio primo romanzo, La diceria dell’untore, l’ho scritto intorno agli anni ’50, poi l’ho tenuto nel cassetto, l’ho pubblicato nel 1981. Quindi questa convivenza col mio ‘figliolo’ si è protratta per decenni. Non solo. Ma addirittura sarebbe durata fino alla mia morte, se non fossero intervenuti degli elementi puramente fortuiti. Perché io sono diventato scrittore pubblico, da scrittore privato, per una serie di circostanze quasi obbligate alle quali ho dovuto piegarmi”.
Fra parola e silenzio. “Per me non c’è mai una edizione definitiva, ne varietur, e io soffro questa ambivalenza fra parola e silenzio, questa oscillazione fra logorrea e omertà, questo negarmi e offrirmi insieme… Ebbene, le mie opere, prima di pubblicarle, le considero semplici prove, prime stesure, che mi vengono poi strappate dalle mani della vita, continuando a vivere come creature imperfette”.
Il pubblico. “Questo mostro misterioso che è il lettore, questo pubblico sterminato e senza volto per metà mi spaventava, per metà mi disgustava. Avevo la paura che stampando – per fortuna questa paura mi è passata, visto che ho stampato tanto – sarei stato come uno specchio che si spezza in mille pezzi e che in ognuno dei frammenti mi sarei riflesso moltiplicato e deformato. Ancora oggi ricevo delle lettere in cui un’ammirazione si sposa con una totale incomprensione. Per cui io non so che cosa scegliere: se essere lusingato, divertito o furibondo per l’equivoco enorme e la perdita d’identità. Evidentemente sotto gli occhi del mio corrispondente è capitato un frammento di specchio assolutamente infedele. E questo mi mortifica abbastanza”.
La tana. “La tana come rifugio significa innanzitutto il bisogno di esser soli, ma anche il bisogno di proteggersi dalle intemperie della vita, dalle intemperie della socialità, perché la socialità ha due aspetti. Un aspetto positivo, quando conforta la nostra angoscia di essere soli, uno negativo quando ci stringe in una maglia, in un intreccio di rapporti sociali che può essere ed è spessissimo conflittuale”.