
“Un nome pieno di sole e di luce ghiacciata, azzurra”. Intorno a Monica Pareschi, scrittrice
Letterature
Paolo Ferrucci
Se non lo conoscete, non sapete cosa vi siete persi. Ma siete sempre in tempo per recuperare, anche perché i suoi libri sono, per fortuna, destinati a durare e a riemergere ciclicamente attuali come non mai. Tutti giù per terra, il suo primo romanzo, ha appena compiuto la bellezza di venticinque anni e, per l’occasione, torna nelle librerie nella ristampa di Einaudi. Divenuto noto al grande pubblico per aver dato vita e dignità letteraria all’oramai iconico Walter Verra, il primo precario della narrativa italiana (chi ha visto la trasposizione cinematografica lo assocerà subito all’immagine perfettamente calzante di un giovane Valerio Mastandrea), il testo è mancato per un certo lasso di tempo dagli scaffali delle librerie italiane. Siamo andati a incontrare Giuseppe Culicchia, il suo creatore, per domandargli delle vicende legate a quella sua prima pubblicazione e sapere come un semplice commesso di libreria sia divenuto uno dei più famosi scrittori italiani degli ultimi decenni.
Partiamo dall’inizio, anzi da poco prima: le esperienze letterarie precedenti a Tutti giù per terra. Tu iniziasti nelle antologie under 25 di Pier Vittorio Tondelli. Raccontaci.
Seppi delle antologie da una rivista di musica, Rockstar. Lì, Tondelli teneva una rubrica, attraverso cui invitava i lettori a spedirgli i loro racconti. Io, però, non glieli inoltrai per posta, glieli diedi di persona. Fu durante uno dei primi Saloni del Libro. Si trovava lì per presentare Camere Separate e io lo abbordai. Con assoluta ingenuità, ebbi anche l’infelice idea di domandargli se, a suo avviso, valesse la pena per me di continuare a scrivere. Lui rise e mi disse che non poteva dirmelo lui, che si trattava di un qualcosa che dovevo sentire e scoprire autonomamente. Tondelli, a quell’epoca, faceva qualcosa di unico ed eccezionale nel panorama editoriale perché, pur da scrittore affermato qual era, impiegava generosamente il suo tempo, senza averne alcun ritorno economico, leggendo inediti. Io presi parte all’ultima antologia curata da lui, uscita nel 1990. Allora non c’era ancora l’idea di una nuova narrativa italiana. Le case editrici erano restie a pubblicare un esordiente e molto chiuse rispetto al nuovo. C’erano stati pochissimi casi, quali appunto Tondelli, De Carlo e Marco Lodoli.
Cosa ti spinse a scrivere Tutti giù per terra e come arrivasti a pubblicarlo?
Il libro nacque da alcuni racconti che Tondelli rifiutò. Io gliene diedi dieci, ma solo cinque vennero pubblicati. Quando lo sentii, il giorno dopo l’uscita dell’antologia, lui mi mise in guardia sul fatto che i racconti, come genere, erano tendenzialmente poco considerati dagli editori. Mi consigliò, allora, di pensare a un romanzo. Per me, però, a quei tempi, concepire un progetto tanto vasto era molto complicato. Dunque, presi i cinque racconti che lui aveva respinto, e che vedevano diversi personaggi come protagonisti, e cercai di dare loro un’unità. Ma, come ho detto, facevo molta fatica a mettere insieme anche poche pagine. Dunque Tutti giù per terra vide la luce da questo suo suggerimento e dalla mia pigrizia, perché volevo ripartire da qualcosa che avevo già scritto. Quando ebbi terminato la stesura del libro, Tondelli era già morto e, purtroppo, non ebbi modo di farglielo leggere. Lo inviai, comunque, alla stessa casa editrice che aveva pubblicato l’antologia, Transeuropa, ma il libro venne rifiutato. A quei tempi, però, lavoravo in libreria e avevo modo di incrociare diversi tra rappresentanti e agenti. Ad alcuni di loro chiesi gli indirizzi delle varie case editrici, per inviare le fotocopie del dattiloscritto (l’avevo scritto a penna e poi battuto a macchina), non essendoci allora l’email, né internet. Cominciai così a mandarlo in giro per l’Italia e, solo dopo molti mesi, iniziai a ricevere una serie di rifiuti. A distanza di tempo, entrando in un negozio in cui mi rifornivo di nastro per la macchina da scrivere, mi imbattei nel manifesto del Premio Montblanc, quello indetto dalla nota azienda produttrice di penne, che ogni anno pubblicava un inedito di uno scrittore under 40. L’editore veniva scelto tra quelli che componevano la giuria. Mandai il romanzo, che all’epoca si intitolava Venere di Milo, e lo vinsi. Quell’anno l’editore a cui toccava la pubblicazione era Garzanti, editore a cui in precedenza non avevo mandato il mio testo, non sembrandomi adatto. Una volta vinto, mi chiesero di pensare a un titolo alternativo, perché Venere di Milo poteva dare adito a qualche fraintendimento, essere scambiato per un saggio sull’arte antica. Un giorno, in macchina, mentre stavo andando al lavoro, mi venne in mente Tutti giù per terra – le migliori idee sono così, ti vengono quando stai facendo altro, qualcosa di meccanico magari, e non sei davanti al foglio bianco. E credo che, buona parte della fortuna del libro, sia dovuta al titolo che scatena nel possibile lettore tutta una serie di ricordi e può suscitare curiosità.
L’editing fu pesante?
Purtroppo no, anzi fu molto leggero, e certe mie ingenuità finirono pertanto sotto la lente della critica. Fu su Il Giornale. C’era una rubrica in cui si mettevano in risalto incongruenze ed errori dei libri. Venne segnalato, per esempio, che Walter tirava su le saracinesche dell’appartamentino dove era finito ad abitare facendo l’obiettore di coscienza. Naturalmente, non si poteva trattare di saracinesche, ma casomai di tapparelle, essendo le saracinesche tipiche dei negozi. L’editing ci fu, quindi, ma fu poco attento. Devo dire, a ogni modo, che ho grande stima di chi fa questo mestiere. Lo ritengo necessario in ambito editoriale ed è per questo che l’editoria non può ridursi a self publishing. Le pubblicazioni devono essere curate da professionisti, ognuno con la sua mansione specifica, per far sì che il testo arrivi nelle mani del lettore nella migliore delle forme possibili.
Si potrebbe dire che il tuo più noto romanzo abbia segnato una generazione? Se sì, per quale motivo a tuo avviso?
Più di una volta mi è capitato di incontrare lettori, i quali mi hanno detto che quel libro aveva segnato una parte della loro vita. Credo che questo dipenda dal fatto che il romanzo è una storia in cui un personaggio passa dall’adolescenza all’età adulta che, nel caso di Walter, è contrassegnata dai primi segnali di quella che poi è divenuta la nostra triste quotidianità di insicurezza. Il protagonista vive questo paradosso: da un lato, ha il terrore di finire a fare per tutta la vita il lavoro che ha fatto il padre, una mansione meccanica e alienante; dall’altro, non si rende conto che lui quel destino non ce l’avrà mai, infatti nel libro passa da un lavoretto in nero all’altro. Walter sperimenta su di sé la pratica, che è poi diventata tristemente comune, della precarietà. Non per niente è stato identificato come “il primo precario della letteratura italiana”. La sua resta una storia terribilmente attuale, anche se non vorrei che le cose stessero in questi termini. Anzi, sarebbe bello se improvvisamente cambiassero in meglio.
Credi che la letteratura sia inevitabilmente legata a un tempo ben preciso? Ti pongo una simile domanda per arrivare a chiederti: quello di Walter è un personaggio che sopravvivrà al suo tempo, il periodo a cavallo tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90, o no?
Lo è e non lo è. È legata a un tempo specifico, perché viene scritta e pensata in un dato momento. Però, nei casi migliori, riesce a perdurare, trovando ancora lettori negli anni, o nei decenni, e nei casi più fortunati nei secoli. Personalmente, credo che il tempo sia l’unico parametro di giudizio per quel che concerne l’arte in generale. Quindi Walter sopravvivrà, o almeno è sopravvissuto fino a compiere il suo primo quarto di secolo e, per me, è un miracolo che ancora oggi venga pubblicato e letto.
Quali erano i tuoi modelli letterari, quando scrivesti il tuo primo libro?
A quel tempo avevo sul mio tavolo di lavoro Post Office di Bukowski, ascoltavo il primo disco dei Ramones e poi guardavo Taxi Driver di Scorsese. Quelli erano i tre punti cardine a cui facevo riferimento scrivendo Tutti giù per terra.
A livello stilistico, credo di riscontrare nella tua prosa di allora una spiccata suggestione degli americani. Parlo di una scrittura secca e veloce, caratterizzata da periodi brevi. Quali furono quelli che ti influenzarono maggiormente?
Quando il testo uscì, qualcuno citò Il giovane Holden di Salinger che io non avevo letto e, così, corsi subito a farlo. Però, in realtà, il mio primo amore americano fu Hemingway e, poi, quelli a lui coevi, come Fitzgerald. Autori molto lontani dal mio Tutti giù per terra, ma da cui credo di aver imparato un paio di cose non soltanto attuali, ma necessarie. Da un lato, soprattutto in Hemingway, che fa sua la lezione di Mark Twain in Le avventure di Huckleberry Finn, mi piaceva l’uso di un linguaggio credibile, parlato. Dall’altro, cercare la semplicità, frasi brevi, capitoli brevi. Da parte mia c’era il tentativo di fuggire dal solito declivio in cui cade chi è al suo esordio: cerca di dimostrare quanto sia bravo, magari perseguendo con fare esibizionistico una certa tendenza alla bella scrittura. Tutte cose che ho tentato di tenere a distanza. Credo che questo derivi da quella scuola.
L’esperienza di traduttore ha influito sul tuo lavoro di scrittura?
Sicuramente. Niente ti permette di entrare in un testo come il tradurlo. Anche se leggi e rileggi un romanzo, non sarai mai dentro di esso come quando cerchi di renderlo nella tua lingua. Di sicuro impari molte cose. Mi capitò però – e ciò fu molto spiacevole –, dopo aver tradotto American Psyco, di sentirmi dire che Brucia la città era fortemente influenzato da quella mia versione. In realtà, tra questa e l’uscita del mio testo, sono passati molti anni e Brucia la città contiene aspetti che sono già presenti nei miei precedenti lavori. Più che altro, comunque, tradurre è una gran fatica. Io ho un enorme rispetto per i traduttori, perché fanno un lavoro durissimo.
Come mai riscrivesti Tutti giù per terra, nel 2014?
Perché, nel mentre, il mondo era molto cambiato. C’era stata un’accelerazione, da quando io avevo scritto quel romanzo a oggi. Mi interessava ritradurre quella storia in un altro tempo. Nella riscrittura, Walter non poteva più avere paura di fare tutta la vita lo stesso lavoro perché, oggi, un giovane non ha più quel timore, ma ben altri. Per questo mi incuriosiva cercare di calarmi in un Walter che avesse vent’anni oggi. E ho scoperto che avere vent’anni oggi è molto più dura che averli avuti verso la fine degli ’80, quando si svolgeva la storia nella prima versione. Le condizioni del lavoro sono enormemente peggiorate. Il libero mercato ha stravinto e tutta una serie di meccanismi si sono messi in moto, per far sì che anche la forma più residuale e minima di comunità venisse a frantumarsi, trasformando l’uomo in un individuo consumatore e produttore sottopagato delle merci che consuma. Il famoso “produci, consuma, crepa” dei CCCP.
Quanto pensi che abbia contribuito la trasposizione cinematografica al successo del libro presso il grande pubblico? E, soprattutto, ti piacque la rivisitazione di Davide Ferrario?
Di sicuro l’ha aiutato a incontrare un pubblico che altrimenti non avrebbe avuto, nel momento in cui uscì nelle sale e poi attraverso alcuni passaggi televisivi. Per quel che riguarda il film in sé, devo dire che Davide Ferrario appartiene a un’altra generazione e questo si nota. Il finale del film è consolatorio, c’è la conciliazione tra la generazione dei figli e quella dei padri. Tutto ciò, nel libro, non compare. Tutti giù per terra è molto più nichilista. Il finale, quindi, non mi trova d’accordo, ma è giusto che Ferrario abbia avuto la massima libertà nel girare il suo film. La cosa che avevo particolarmente apprezzato, comunque, nella sua trasposizione, è una. Io avevo lavorato molto sul ritmo, perché mi sembrava fondamentale. Ogni storia ha una sua musica interna, del resto. Davide Ferrario è riuscito a renderla attraverso il montaggio. La questione dell’importanza del ritmo ho avuto modo di sperimentarla anche come traduttore. Nel momento in cui traduci, ti rendi conto di quanto sia difficile trasporre nella tua lingua, ancora più che le singole parole, la punteggiatura, quindi il ritmo della narrazione, in quanto nella nostra lingua certe frasi verrebbero scritte diversamente. Rispettare quella musica interna è un atto di grande consapevolezza.
Come mai, per lungo tempo, il testo non è stato disponibile?
Non è stato disponibile a seguito di alcuni passaggi di proprietà. La Garzanti, a un certo punto, l’aveva subappaltato alla Tea, poi è stata acquisita dal gruppo GeMS. Cose che succedono all’interno di questo panorama editoriale, per dir così, molto movimentato.
Come mai Einaudi ha deciso di riproporre a distanza di tanto tempo la riedizione del libro?
Curiosamente, all’epoca, fu proprio Einaudi il primo a rifiutare il testo. Questo dipende semplicemente dal fatto che, com’è noto, niente è più soggettivo del gusto letterario di chi legge. La persona che, in quell’occasione, visionò il dattiloscritto ritenne che non fosse degno di pubblicazione. Io, in realtà, avevo sempre pensato a Einaudi come a un possibile editore, essendo peraltro io di Torino, ed essendo Einaudi l’editore che pubblicava alcuni degli americani che ho maggiormente amato. Dopo tanti anni, c’è stata questa opportunità e io ne sono molto contento.
Vi sono delle differenze rispetto alla prima versione pubblicata da Garzanti?
L’unica vera peculiarità è una mia introduzione che racconta la genesi del libro e tutto quello che a esso è accaduto successivamente. Visto che c’è stata anche la versione Remixed, mi sembrava giusto, dopo questo quarto di secolo, riproporre l’originale. Ed è stato pubblicato esattamente com’era, credo anche con le saracinesche al posto delle tapparelle.
Matteo Fais