“Una spaventosa chiaroveggenza”. Kafka & Dostoevskij: fratelli nell’arte
Letterature
Riccardo Peratoner
Nel 1912, a Londra, due poeti egualmente decisivi ma radicalmente opposti si premurano di divulgare e far tradurre l’opera di Tagore. Ezra Pound aveva 27 anni, aveva costellato il tempo dei suoi primi testi – A Lume Spento, Personae, The Spirit of Romance; per il londinese Swift & Co., con le illustrazioni di Dorothy Shakespear, la futura moglie, aveva appena pubblicato Ripostes – fondava avanguardie – l’Imagismo, all’epoca – era affascinato dall’Oriente, dal teatro giapponese e dalla poesia cinese, in particolare (nel 1915 organizza la raccolta di traduzioni/tradimenti dai poeti classici cinesi, Cathay). Fu Pound, dopo averlo ascoltato a Hampstead, a donare Tagore a Yeats, di cui era amico, confidente, segretario. Tagore veniva da Calcutta, da famiglia eletta: il nonno grande uomo d’affari, legato alla Compagnia delle Indie; il padre un indimenticato riformatore religioso. Scriveva in bengali, volgeva le poesie in inglese: il primo viaggio a Londra, per studi, risale al 1877, era un ragazzo.
La raccolta più nota, Gitanjali, resa come Song offerings, fu pubblicata nel ’12 da Macmillan and Co.; la seconda edizione, l’anno dopo, presenta una introduction by W.B. Yeats. Il grande poeta irlandese scrive, tra l’altro: “Ho portato con me, per giorni, il manoscritto di queste traduzioni, leggendolo sui treni, sul tram, al ristorante; spesso l’ho chiuso, nel timore che qualcuno, estraneo, potesse accorgersi della mia commozione. Questi testi… mostrano nel loro ritmo del pensiero un mondo che ho sognato lungo tutta la mia vita”. A Pound – così ne scrive su Poetry nel dicembre del 1912 – Tagore piaceva perché “canta gli argomenti che Dante credeva degni per la poesia: amore, guerra, santità”, lo affascinava quel “Bengala simile al Medioevo”, quel poeta “che può vantare le sinfonie dei trovatori”. Insomma, ‘Ez’ aveva inscatolato Tagore tra le sue ispirazioni: Arnaut, Dante, Cavalcanti, Confucio all’orizzonte.
Tagore, gradito punto di congiunzione tra Oriente e Occidente, visitò l’Italia nel 1926. Incontrò il Duce a Roma, ne elogiava “la grande personalità… il vigore che pare scolpito da Michelangelo”. Dopo aver conosciuto il fascismo – e incassato diverse critiche: “da circoli internazionali antinazionalisti e pacifisti vennero aspre rimostranze al poeta” (Ambrogio Ballini) – ne stigmatizzò i fondamenti; era approdato in Italia dopo aver soggiornato nella villa di Victoria Ocampo, in Argentina.
Il Nobel per la letteratura, nel 1913, fu il riconoscimento a un uomo universale, che intendeva la poesia come vertice della ricerca spirituale. Il sigillo – specie di passepartout per l’alloro svedese – fu la traduzione di Gitanjali in francese, come L’Offrande lyrique, a cura di André Gide, per la Collection Blanche Gallimard. A fare da tramite tra Tagore e Gide, fu Saint-John Perse: più giovane di due anni di Pound, aveva conosciuto e ascoltato il poeta indiano a Londra, in quello stesso 1912. Saint-John Perse era lì per studiare il sistema industriale inglese: tra gli altri, scrive, aveva fatto amicizia con Joseph Conrad, Hilaire Belloc, Gilbert Keith Chesterton; di William H. Hudson, lo scrittore della natura selvaggia della pampa, lo affascinava la perizia nel descrivere le piante esotiche. Aveva pubblicato la prima raccolta di poesie, Éloges, sulla “NRF”, l’anno prima, nel 1911, grazie a Gide: Valery Larbaud lo aveva celebrato tra i nuovi, autorevoli poeti francesi. Saint-John Perse si era firmato, in quel lavoro d’esordio, “Saintleger Leger”: con il suo nome di battesimo, Alexis Leger, di lì a poco, avrebbe intrapreso una carriera diplomatica vertiginosa. Molti anni dopo, nel 1961, a Saint-John Perse fu chiesto di rappresentare il suo paese per festeggiare il centenario di Tagore: l’India era guidata da Nehru, Tagore era morto vent’anni prima, Saint-John Perse aveva ricevuto il Nobel nel 1960. L’Hommage à la mémoire de Tagore è pubblicato nel volume che raccoglie le Œuvres complètes di Saint-John Perse (Gallimard, 1972). C’è sempre qualcosa di austero, una presa di distanze anche nelle parole più affettuose di Saint-John Perse, un poeta che non amava l’esotico ma lo sconosciuto e che diffidava dell’uomo. Aveva prestato servizio in Cina, aveva viaggiato per gli Stati Uniti, il Giappone, il Sudamerica; nato nelle Antille Francesi amava i venti e i mari, studiava le pietre. Dell’Italia, “Ravenna colpì particolarmente la sua immaginazione”: la visitò nel 1965, fu affascinato dal mausoleo di Teodorico e gli parve incongrua la visione dei vasti complessi industriali proprio in quel luogo, “dove un tempo le grandi rotte delle invasioni barbariche si arenavano, in una sorta di terra desolata, di paludi”. In quelle zone, tra l’altro, era sepolto Gaston de Foix, comandante dell’esercito di Luigi XII, morto in battaglia, nel 1512, in aprile, suo antico avo.
Non vide mai più Tagore, ne udì il riverbero della fama: Saint-John Perse sapeva essere radicale, amava le cose irripetibili, preferiva immaginare.
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Omaggio alla memoria di Rabindranath Tagore
Tagore è stato grande tra noi per la carica umana della sua spiritualità. Ancora si illumina la sua fronte con il doppio segno della nobiltà: poeta, ha tenuto alto il lignaggio del sogno, senza lasciarsi distrarre dall’uomo del suo tempo. La sua poesia è senza età e senza dimora, affascinata dall’eterno, cerca l’origine familiare dell’umano e la riva d’argilla dove si spoglia la notte dell’uomo.
L’infinita presenza lo assisteva ovunque; ma anche l’assistenza di un desiderio infinito.
Quello è stato il suo grande modo di essere e di amare: coniugando tutta la giovinezza e tutta la vecchiaia dell’anima. La sua gloria di poeta fu vivere la sua poesia, viverla integralmente, con tutta l’integrità di uomo, di essere vivente.
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Si è seduto in mezzo a noi come l’ospite delle favole: vestito di panno bianco, portando un messaggio. Di rado la vita ha dato forma a un viso così bello. Ci parlava da musicista come da filosofo, con la strana dolcezza dello sguardo che hanno le anime fiere. Una leggenda lo accerchiava, come un’aura di grazia. Di tale leggenda ci piaceva ricordare questo: le poesie della giovinezza raggiunsero l’anonimato sulle labbra dei viventi…
Ospite per un giorno, al crocevia di due mondi, di due epoche, Tagore ci è apparso come una figura mitica. Esprimendosi dentro e fuori dal secolo, fu per noi l’immagine stessa del Poeta antico, sotto la doppia corona dell’Aedo e del Saggio.
Per quanto si preoccupasse dell’uomo atemporale, nondimeno non dimenticò l’uomo nella storia del suo tempo. La sua marcia verso l’Europa attesta l’azione oltre alla meditazione. L’ardore del suo patriottismo è testimonianza; l’urgenza di un messaggio che dichiara con chiarezza gli eventi.
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Fu a Londra, prima della Guerra mondiale, che un interlocutore francese, discepolo di trent’anni più giovane, lo udì parlare del futuro del mondo occidentale. In una casa avvolta nelle quiete, a South Kensington, discussioni amichevoli intorno alla storia contemporanea. Un’era di potere e di prosperità glorificata dal fuoco di un’estate incomparabile. Gli altiforni furoreggiavano in tutta Europa; le arti e le scienze erano allineate nello stesso apparato cerimoniale; sull’incudine si forgiava il ferro dell’uomo d’Occidente… Tagore mi rivelò la sua inquietudine. La sua ossessione per la minaccia del materialismo, le sorti del mondo appese al destino della civiltà industriale. Evocava un duplice pericolo: della comunità umana, nella sua coesione internazionale, e dell’uomo stesso, nella sua integrità.
Dove cercare la rettifica, la correzione? A quale ricorso rivolgersi visto che per lui la sfida non era nient’altro che la salvaguardia dello spirituale nel complesso umano?
Il pragmatismo anglosassone non gli pareva di alcun aiuto. Diffidava allo stesso modo dell’intellettualismo francese, vi fraintendeva una forma estrema dell’esigenza umana. Ma sapeva a quale tradizione di moralisti e di umanisti si è nutrita l’anima francese, che la vocazione sociale della Francia si è fondata su un liberalismo naturale, che una parte dell’uomo francese tende sempre all’uomo universale.
Desiderava un primo approccio al milieu letterario francese. Lo avvicinai ad André Gide, il cui ruolo, come traduttore, avrebbe potuto essere quello di un Baudelaire per Edgar Alla Poe, di un Gérard de Nerval per Goethe. Che il pubblico francese ne riconoscesse l’aristocrazia della forma. Per quanto restrittiva potesse essere questa scelta in termini di vantaggi materiali e pubblicitari, Tagore non ne chiedeva altre. In lui non c’era traccia di un premio Nobel.
Non l’ho più visto dopo la guerra. Dalla Cina, dove mi trovavo durante un suo soggiorno in Giappone, appresi che lo splendore della sua moralità era approdato nelle Americhe. Ancora in cammino verso l’uomo d’Occidente, questa volta aveva viaggiato da Ovest a Est, al contrario dei grandi pellegrini dell’Asia centrale. Poeta preoccupato dell’anima e dell’unità dell’uomo, andò verso l’altra parte del mondo occidentale: portatore del medesimo messaggio di alleanza, della stessa adorazione per l’uomo, della difesa, nell’uomo, di quegli elementi che ne garantiscono la grandezza.
Dietro di lui, nella terra immemorabile dell’India, slavata da tante tempeste e da tanti piedi scalzi, dove il destino si rivelava ancora in lotta con la storia, diversi presagi si levarono, non privi di legami con il fato assoluto dell’uomo.
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Molto tempo dopo la sua morte, dalle rovine accumulate della Seconda guerra, misurando la portata di questa voce profetica, possiamo, tacitamente, riprendere con Tagore il dialogo che fu interrotto.
Questo appuntamento dell’uomo occidentale con l’Asia, dobbiamo custodirlo. Tagore, poeta, sopravvive a se stesso. La Francia gli conferma la sua fedeltà. Il grande Pellegrino dell’India riprende il suo viaggio in mezzo a noi. Che questa sua voce, così presto riconosciuta, possa intonare le intuizioni sull’apice dell’anima del nostro tempo.
Saint-John Perse