Che meraviglia l’idea del libro unico, continuamente riscritto, come se le parole fossero stagionali: al verde segue il rossore d’autunno, poi la spoliazione. Un libro che mette neve – un libro da mettere a maggese, perché produca, più tardi, l’adatto frutto.
Il libro unico – il libro della vita – divora il proprio autore: ne è la casa e la forca. Quanto generico, al cospetto del libro unico, il concetto di capolavoro: didascalia atta a titillare il mercato, volgarità. Da un capo all’altro, invece, un solo lavoro, un solo libro.
Georges Roditi pare fin dal toponimo – ogni nome è un luogo – una figura tratteggiata da Borges: al drago – San Giorgio – segue il roditore; meglio: il topo di biblioteca che scopre il meraviglioso. La meraviglia ha le scaglie, caccia fuoco dalle fauci.
Nato a Parigi nel 1906 in una famiglia di ebrei di Istambul, l’esistenza di Roditi coincide con quella del suo unico libro, L’esprit de perfection:
“non ha fatto che vivere [cioè scrivere, rivelativo lapsus, ndr] un libro sottile, di alcune decine di aforismo, di poco più d’un centinaio di pagine. E una volta che l’ebbe stampato… iniziò, come se il destino dell’autore fosse sempre l’incompiuto, un paziente lavoro di cesello, ritoccando di continuo i suoi pensieri nelle successive cinque edizioni, così da poter giungere in ultimo a dichiararsi ‘il lettore del suo libro piuttosto che il suo autore’”.
Rolando Damiani, Georges Roditi o il Tao del libro
Perfino il titolo del libro ne denunciava la programmatica teatralità: l’istinto di Pascal e la leggerezza di Montaigne si coniugavano al rigore formale di Cartesio, alla Guía Espiritual di Miguel de Molinos, l’eretico quietista. Labirinto di carta, insomma: il libro miliare – la marziale severità di Roditi ricorda un altro libro del Seicento, l’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo – si risolve nella simulazione del libro, nel libro fine a se stesso. Non si addestra il samurai alla guerra, bensì alla danza. Il sangue ha per sostituto terreo il sussurro, il trasalimento. Ovvero: il libro di Roditi ha come destino l’essere fuori tempo. A differenza di altri pensatori sagaci nello sguainare l’aforisma – Pierre Reverdy o Cioran, ad esempio – non si attende ad alcun ‘effetto’: il libro si libra come una libellula, non vuole essere fuoco, non intende essere spada. A differenza di altri più sguaiati libri, segugi del genio retorico – quelli di Malcolm de Chazal, ad esempio – L’esprit de perfection non ha ambizione letteraria alcuna: suo compito non è sobillare né suggestionare, ma sedare.
Si diceva: la vita di Roditi fu rasa al suolo dalla scrittura del suo unico libro. Da ragazzo, tentò la via lirica: suoi testi appaiono su “Commerce”, la rivista fondata da Marguerite Caetani, sotto l’aura di Paul Valéry. Probabilmente, nel testo d’occasione, nella scaltrita contemplazione, Roditi carpì il suo genio; nel 1934 fondò “L’Homme nouveau”, con scarsi successi. Durante il governo di Vichy fu bibliotecario del ministero dell’Informazione: l’evento lo obbligò – per il carattere dell’epoca e il proprio intimo tono caratteriale – a una vita marginale, dopo la Seconda guerra. Fu consulente letterario per Plon. Dal 1975, per le edizioni Stock, comincia a pubblicare L’esprit de perfection, di cui cura nove edizioni, sempre diverse. Roditi muore nel 1999, continuando a correggere quel libro, conchiuso e infinito allo stesso tempo. Qualche anno prima, nel 1985, per Bompiani, esce una versione de Lo spirito di perfezione: il libro, un manuale per paesaggisti dell’anima, osa inscenare due parole tanto inattuali – spirito e perfezione nell’era, la nostra, della materia e dell’ambizione –, passa come eccentrico, presto esce dai ruoli editoriali. È fatto, d’altronde, per pochissimi lettori – per un lettore alla volta – è un libro ‘da camera’, di esasperata levigatezza. Un libro che chiede di inchinarsi per non sbattere.
Rolando Damiani, all’epoca, riconduceva Lo spirito di perfezione nel solco dei moralisti francesi, è ovvio, ma anche a un Oriente di paraventi novecenteschi, apparentandolo al Libro del tè di Okakura Kakuzo e a Libro d’ombra di Tanizaki.
“Occulte parentele, radici invisibili, che collegano, nell’immenso spreco della realtà, gli uomini di perfezione, i rinuncianti alla malìa della vita di intenti, i contemplatori immobili del Tao letterario”.
Libro presago di esistenze azzurre, questo, di inamovibili fatalità: per questo, gira di mano in mano, tra pochi avventori di catacombe – chi si ostina alla libreria muoia di novità e bestseller, di Strega senza grammi di stregoneria. Libro di vetro si dirà; ma attenzione: chi è appare fragile ha la dura scorza dei profeti, dona occhi d’incendio. “Ridiamo insieme di questi coglioni che possiedono l’orbe terracqueo”: con questa frase – tratta da una lettera di Leopardi a Pietro Brighenti – Roditi inaugura il proprio trattato. Nella quiete, un pullulare di lupi.
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Lo spirito di perfezione
Dalla vita di intenti alla vita di perfezione
All’opposto dello spirito di perfezione, vedo delle persone nelle quali la volontà predomina assoluta e che corrono sempre, gente con scopi e iniziative, gente con progetti e anticipazioni. Il loro nome di una volta, l’uomo dei progetti, è caduto in disuso, non perché la specie sia estinta, ma, al contrario, perché danno il tono e non sono più guardate come un carattere a sé stante.
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La disgrazia dell’uomo di intenti è tutta in questo plurale: supponete in lui un disegno principale e perseverante, egli avrebbe in tal modo di che sostenere la sua vita invece di perderla. Le persone che sono capaci di attaccamento non cadranno mai nelle forme estreme dello spirito di intenti; basta una qualsiasi cosa – un’inclinazione, una mania, un vizio – per sfumare questo carattere.
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Evoco lo spirito di intenti non solo perché lo spirito di perfezione si definisce contro di esso, si chiarisce dal loro contrasto, ma perché tutto comincia effettivamente da lì: un volere impaziente di esercitarsi, una instabilità che il vento dell’oggi propaga al di là degli agitati di natura. La quiete degli scopi di perfezione si offre allora come un porto.
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Non bisogna confondere l’uomo d’azione con l’uomo di intenti. Quando il maresciallo de Saxe dice morendo al suo medico: “Signore de Sénac, ho fatto un bel sogno”, parla da uomo d’azione, che ha amato la sua vita, a differenza di colore che, non amando nulla, cercano fino in fondo qualcosa.
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La vita di scopi, la vita di inseguimento e di attesa, triste da vivere, e che sarebbe intollerabile rivivere.
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Tutto è vanità: piuttosto che a un saggio, la parola dell’Ecclesiaste converrebbe a un vecchio ambizioso disilluso; è il disgusto finale dell’uomo di intenti.
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Come è toccante l’usuraio Alfio, nella poesia di Orazio, quando sogna di riposarsi sotto una vecchia quercia, di mangiare olive nel suo giardino. L’uomo di denaro del nostro secolo non ha queste debolezze. Invece di essere rinsavito dalla vita rustica, è lui a darle l’impronta, e a snaturarla: il giardino è venuto dalla strada, le olive sulla tavola sono troppo belle, e gli ospiti, come le olive, sono calibrati.
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Mentre Curio, antico Romano, non voleva possedere dell’oro, ma comandare a coloro che ne possiedono, Napoleone, invece, ha voluto entrambe le cose. La frontiera tra ricchezza e povertà si cancella ugualmente, nello stesso secolo, tra i re americani dell’industria, il cui sogno, secondo Emerson, era di assomigliare all’Imperatore, vivendo come lui in palazzi, circondati da innumerevoli servitori, regnando su una corte di beneficati.
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Gli uomini di potere – quelli che lo conquistano come coloro che accrescono un dominio ereditato – non si distinguono affatto per delle facoltà superiori, ma piuttosto per un possesso eccezionale delle facoltà ordinarie. Bisogna anzi dire che di facoltà superiori essi sono segnatamente sprovvisti. Mentre tante persone trovano nel pensiero, nella poesia, nelle arti le loro migliori ragioni di vivere, se ne vedono poche di tal sorta al comando.
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Alcune delle capacità per le quali la nostra specie spicca sulle altre specie animali non sono propriamente umane e potrebbero essere definite come animalità alla seconda potenza. Esse rendono gli uomini che le possiedono i più efficaci degli animali, ma anche i più spiacevoli, perché in essi l’avidità ingenua del fratello inferiore si è mutata in avidità calcolatrice, il fiuto e la semplice scaltrezza in intrighi e trabocchetti.
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L’animale mantiene su di noi il vantaggio di essere rimasto in comunicazione con la vita universale. Di tale comunicazione, non sono sprovviste nella stessa misura tutte le varietà d’uomo e quella più priva è la specie calcolatrice. Non è l’uomo d’affari, né l’uomo politico, ma il poeta che Rimbaud dichiara “caricato dell’umanità, come degli animali”. C’è perfino tra la gente minuta chi ne sa qualcosa di più degli ambiziosi i cui calcoli a lungo termine non potrebbero andare a segno, essendo fatti a partire da un solo genere di cause: ciò che ha nome, ciò che si misura, ciò su cui si agisce facilmente.
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Si diceva una volta che un asino lustra l’altro, ma gli squali e i lucci come si lustrano, anche loro, come si lodano, come misurano con rispetto le mascelle dei loro congeneri vivi o morti! E altri ancora entrano nel loro gioco: il principe de Ligne riteneva Federico II non già il più colto, il più distinto tra gli uomini di preda, il che sarebbe parso equo, ma l’uomo più grande che sia mai esistito.
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Se il genere umano fosse minacciato di morire d’indifferenza forse saremmo grati agli avidi della loro bulimia, agli arrabbiati del loro furore, ma al punto della storia in cui siamo si vede che il covo di vipere è sicuro di sussultare fino all’ultimo giorno e che non è il caso di ringraziare quelle che si agitano.
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L’uomo povero di sostanza, non ama nulla, non può creare e neppure darsi cura. La sua unica risorsa consiste nel fare alla svelta una qualunque cosa.
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Qual è dunque questa vita ricca e molteplice che essi temerebbero di impoverire se si limitassero? In certe esistenze in cui abbondano le imprese e nelle quali si potrebbe supporre, alla fonte, un’uguale profusione di svariati talenti e di vocazioni, io non scorgo nient’altro che il volere, null’altro che la monotonia delle cacce senza desiderio, indifferenti alle prede.
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Il vizio delle società più moderne è di non offrire alla volontà nessun esercizio usuale: il deserto delle città, nessuna casa dell’infanzia, il necessario assicurato fino alla morte, e nulla da aspettare. Può accontentarsi soltanto chi vota il suo cuore a qualcosa o a qualcuno.
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Seneca ci sospinge sulla via di perfezione, se non altro chiudendo altre uscite. Egli condanna al tempo stesso “coloro che stagnano nell’inerzia quando lo spirito umano è nato per agire” e gli agitati, “tristi vittime dei loro eterni cambiamenti di progetti”. Cosa rimane allora se non il lavoro, la perseveranza, la fedeltà – una vita da portare con sé fino alla morte?
Georges Roditi
Traduzione di Rolando Damiani
*In copertina: Giorgione, Il ragazzo con la freccia, 1500 ca.